Roma 18 Giugno, seminario nazionale promosso dalla Rete dei Comunisti
Dalle ore 10.00 alle 17.00 - Via Galilei 53
Dal
“Corriere della Sera” del 9 Marzo 2008 uno scritto, del 2004, del filosofo
francese non certo marxista Jacques Derrida:Avrei voluto proporre
un argomento analogo a quello del CHE FARE? di Lenin, scritto nel 1901-1902, ma
il tempo manca. Ricordiamo ciò che in quel testo, come nel testo di Kant, oggi
non risulta invecchiato: la condanna dell’ “abbassamento del livello teorico”
nell’azione politica, l’idea che qualsiasi “concessione” teorica, secondo il
termine di Marx, sia nefasta per la politica; la condanna dell’opportunismo
(bisogna pensare ed agire controcorrente), la condanna dello spontaneismo,
dell’economicismo e dello sciovinismo nazionale (il che non sospende i doveri
nazionali), la condanna della “mancanza dello spirito d’iniziativa dei
dirigenti” politici cioè rivoluzionari, che dovrebbero saper rischiare e
rompere con le facilità del consenso e delle idee preconcette (è quanti propone
Alain Minc in un libro in fondo molto leninista). E ancor meno invecchiata è
l’analisi di ciò che lega l’internazionalizzazione, la mondializzazione del
mercato, come della politica, alla scienza ed alla tecnica. Tutto questo si
legge nel CHE FARE? di Lenin.
PREMESSA
Viviamo un periodo di
crisi generale e di crisi dell’egemonia dominante. Non è una crisi
congiunturale ma di sistema che si presenta in passaggi storici che aprono una
fase imperscrutabile nelle sue evoluzioni concrete. Per avere una lettura
valida di questi passaggi bisogna partire da quello che è stato definito Modo
di Produzione Capitalista e non semplicemente capitalismo, perché se
analizziamo le tendenze di fondo, e non solo le sue forme concrete e storiche,
riusciamo a comprendere meglio la dinamica degli eventi passati ma che agisce
tuttora.
Sicuramente l’800 è
stato il secolo in cui la corrispondenza tra forze produttive e rapporti di
produzione fu completa, un periodo nel quale la crescita del capitalismo
rispondeva ad un bisogno generale di emancipazione dalla miseria e
dall’ignoranza. Se la prima parte è stata caratterizzata dall’assenza della
lotta di classe organizzata, anche se ne erano presenti tutti i prodromi
sociali e politici, la seconda parte del secolo ha segnato finalmente la
nascita dei grandi partiti operai, a cominciare da quello della Germania, sorti
sulla scia del potente pensiero marxista. Evoluzione che manifesta i primi
sintomi della crisi di egemonia verso la quale si muoveva il capitalismo.
A cavallo del secolo
c’è stato il passaggio dal capitalismo concorrenziale al monopolio ed
all’imperialismo, analizzati da Lenin, che ha segnato la fine di una
lunghissima fase di crescita, la fine della corrispondenza tra forze produttive
e rapporti di produzione e conseguentemente della sua capacità egemonica. La
manifestazione concreta di questo limite è stato il periodo bellico andato dal
1914 al 1945 con il corredo di crisi economiche, finanziarie, sociali,
politiche ben visibili nella storia dei paesi a capitalismo avanzato in Europa
ed in America. È stata anche l’epoca in cui le rotture rivoluzionarie,
vittoriose o meno, si sono moltiplicate e dove il campo imperialista si è
diviso drammaticamente, facendo emergere la necessità e la possibilità di una
società alternativa. Va ricordato, però, che la capacità di egemonia borghese,
per quanto rimessa in discussione, ha comunque tenuto nei punti alti dello
sviluppo capitalista manifestando i momenti più acuti della propria crisi nella
periferia, negli anelli deboli, a cominciare dalla rivoluzione del 1917. Nei
paesi imperialisti, infatti, di fronte al pericolo delle rotture rivoluzionarie
si è messa in moto la lotta di classe “dall’alto”, prima sul piano produttivo e
sociale – minando la potenziale unità tra operai e contadini – e poi, nel 1914,
spaccando il movimento operaio europeo di fronte all’esplodere della guerra
imperialista.
La fine della seconda
guerra mondiale vede uno scenario completamente diverso e potenzialità di
crescita sia per il campo socialista, che si era allargato ad ovest ma
soprattutto ad est con la Cina, sia per il campo imperialista anche se in modo
meno evidente data la modifica internazionale dei rapporti di forza politici e
militari. Comunque la distruzione bellica restituisce al capitalismo, unificato
sotto il comando “imperiale” statunitense, la possibilità di crescita ed il
superamento della contraddizione generata dallo sviluppo delle forze
produttive. Contraddizione che si ripresenta al compimento del ciclo con la crisi
di sovrapproduzione degli anni ’70, che segna una nuova tappa che non sbocca,
per motivi strutturali legati ai rapporti di forza tra le classi interni ed
internazionali, in una nuova guerra ma in un salto scientifico e tecnologico e
di riorganizzazione produttiva e finanziaria che recupera nuovamente le
potenzialità di crescita, riversando le contraddizioni nel campo avverso dei
paesi socialisti.
Questo “doppio passo”
del capitalismo alla fine del ‘900 è stato inversamente speculare alle capacità
di tenuta dei paesi socialisti ma, più significativamente, dell’intero
movimento operaio ed antimperialista che a livello mondiale segna
l’arretramento a noi tutti noto nei modi e nelle forme. L’egemonia piena persa
nel 1917 e non recuperata fino agli anni ’70 va di nuovo ad appannaggio del
campo imperialista per la ritrovata sintonia tra sviluppo delle forze
produttive e rapporti di produzione che sembra ridare fiato ad una fase di
sviluppo di lungo periodo grazie anche alla scomparsa dell’URSS, del campo
socialista nei paesi dell’Europa dell’est ed alla apertura ai mercati della
Cina e dell’India.
Nel Modo di
Produzione Capitalista la crescita quantitativa ha però il risultato di
dilazionare nel tempo, anche se in tempi non necessariamente brevi come ben
sappiamo, il manifestarsi della contraddizione e dunque quello che sembrava
ormai acquisito negli anni ’90 dalla crisi finanziaria del 2007 viene rimesso
in discussione non direttamente dal conflitto di classe - apparentemente
l’egemonia del capitale non è stata mai cosi forte ed estesa - ma dalla
dinamica sua propria. La crisi finanziaria, quella energetica, quella
ambientale, la competizione globale ed interimperialistica, le tendenze alla
guerra e la crisi sociale mondiale costituiscono un nuovo passaggio storico che
va interpretato perché una ripresa della soggettività antagonista e di classe è
con questi elementi di fondo che dovrà fare i conti se vuole ipotizzare, in
tempi e modi oggi non prevedibili, un nuovo progetto di trasformazione sociale.
I processi storici
possono essere letti da molteplici punti di vista ma questo aspetto della crisi
di egemonia ha una valenza politica diretta, in quanto appare sempre più
evidente che questo sistema si è cacciato in un vicolo cieco e che la via
d’uscita rischia di essere traumatica per tutta l’umanità. È questo il punto da
cui riemerge la necessità dell’alternativa di sistema sociale e dunque si
ripropone la necessità di capire, date tali condizioni, il ruolo dei comunisti,
se c’è e quale possa essere. C’è storicamente un nesso tra i cicli storici nel
capitalismo e le possibilità di affermazione per le forze di classe antagoniste
ad esso.
Qui si pongono
problemi teorici da sempre presenti nel movimento comunista ma non si può
nemmeno esulare dal contesto concreto in cui esso agisce: per noi è oggi
l’Italia inserita nel contesto dell’Unione Europea, ovvero in uno dei poli
imperialisti predominanti a livello mondiale. Siamo, dunque, dentro una
“cittadella” imperialista che agisce ideologicamente e strutturalmente su tutti
i piani della società: sul piano ideologico supportando tutti i valori etici e
politici borghesi e fornendo una visione ribaltata della realtà; parliamo dello
Stato, inteso come sostegno al privato, parliamo dei diritti umani contro i
diritti sociali e delle guerre “umanitarie”, parliamo delle religioni intese
come arma identitaria e politica, dell’ambiente come volano “verde”
dell’economia capitalista, della politica del terrore che pervade i mezzi di
comunicazione inducendo un senso di insicurezza diffuso. Insomma l’ideologia
delle classi dominanti è oggi lo strumento più pervasivo che viene utilizzato
per dare stabilità politica ad un sistema che comincia a mostrare chiaramente i
suoi limiti.
La stabilità politica
però non è solo “eterodiretta” ideologicamente ma viene garantita anche
da una serie di processi istituzionali, a livello nazionale ed europeo, che
limitano le forme democratiche nate dalla lotta contro i fascismi europei nella
seconda guerra mondiale e che centralizzano sempre più le decisioni strategiche.
Si delegano nei fatti gli eurocrati a prendere decisioni che devono tenere
conto solo dei parametri economici e finanziari nella competizione globale. I
vari trattati economici fatti in Europa e la sorte che è stata brutalmente
riservata al popolo greco stanno a testimoniarlo.
Ma questi due
processi di gestione autoritaria della società non sarebbero stati possibili se
non si fossero basati sulla disgregazione produttiva e sociale prodotta in
questi decenni con ristrutturazioni che, tra l’altro, oggi stanno minando esse
stesse la stabilità economica mondiale. La complessità della nostra società non
è un dato nuovo ed è in aumento fin dagli anni ’60, gli altri paesi
imperialisti ci hanno preceduto ed hanno indicato la strada. Se in Cina, India,
Sud Africa, Brasile ed altri paesi si addensano ancora masse di operai nelle
grandi fabbriche caratterizzate prevalentemente dalla produzione fordista, nei
centri imperialisti la condizione della forza lavoro è diversa. Essa è,
infatti, caratterizzata dalla disgregazione sociale, dalla parcellizzazione
delle mansioni produttive e dalla differenziazione delle condizioni giuridiche
del lavoro, dal passaggio dal lavoro manuale a quello intellettuale. Questa è
la condizione obiettiva in cui i comunisti sono chiamati ad operare dovendo
storicizzare anche la concezione della classe operaia della grande fabbrica del
‘900.
La discontinuità
odierna è legata al fatto che, fino alla fase precedente, l’aumento della
produzione della grande fabbrica, cioè il cuore del capitalismo, procedeva di
pari passo all’aumento ed alla concentrazione della classe operaia, cioè del
soggetto di classe direttamente antagonista al capitale. Un andamento nato già
con la formazione delle manifatture nell’800 e proceduto sia con la grande fabbrica
dell’operaio professionale sia con l’avvio della produzione fordista. Questo ha
anche caratterizzato il periodo post bellico in cui la produzione in linea, che
permetteva la massima produttività all’epoca, procedeva parallelamente alla
crescita quantitativa e alla concentrazione nei paesi sviluppati della classe
operaia. Tale condizione aumentava il potere contrattuale e politico della
forza lavoro e rendeva necessaria la mediazione sociale dello Stato con la
nascita del Welfare.
Qui è utile rimandare
ad un interessante scritto non del Togliatti del secondo dopoguerra e del
successivo boom economico, ma di quello della clandestinità del PCI degli anni
Venti (lo scritto apparve sulla rivista «Stato Operaio» del gennaio/febbraio
1928 e fu ripubblicato in P. Togliatti, Il Partito, Editori Riuniti 1972), in
cui egli afferma: «Il Fascismo cerca di polverizzare, di “atomizzare” le classi
lavoratrici. Ciò vuol dire che il Fascismo conduce una politica di
disorganizzazione delle masse. Ma il processo di polverizzazione è stato
condotto più innanzi. Nelle grandi città italiane le sezioni di Polizia rionale
fanno fermare ed arrestare, dopo le 20, tutti gli “stranieri”, cioè gli operai
abitanti in altri rioni […] Sono stati fissati dei confini, dunque, anche
all’interno delle città, tra rione e rione! […] Gli operai si sono ancora
trovati assieme nelle fabbriche. Ma, ahi, anche qui è stato applicato il regime
delle frontiere. Tra reparto e reparto è proibito comunicare. In ogni reparto
poi sorvegliano le spie.
“Restare a tutti i
costi nella fabbrica! La crisi industriale e la disoccupazione e la
“razionalizzazione” e la reazione di polizia tendono a gettarci fuori dalle
fabbriche. Noi dobbiamo abbarbicarci alla fabbrica. Se cacciati vi ritorneremo.
Se indeboliti, vi ci rafforzeremo. Nella fabbriche ritroviamo la classe
operaia. Non è possibile “polverizzare” la classe operaia nella fabbrica,
perché non è possibile spezzare la fabbrica. La fabbrica è il capitalismo.»
La concretezza di
questo scritto ci dà l’idea di quali scelte erano chiamati a fare all’epoca i
comunisti, ma ci dice anche che quella condizione dove “la fabbrica è il
capitalismo” oggi è stato possibile superarla grazie alla moderna produzione
capitalista. Non serve più la divisione “formale” della classe operaia come nel
fascismo per indebolire lo scontro di classe, in quanto l’intero assetto
produttivo è stato rivoluzionato dall’applicazione nella produzione della
scienza e della tecnologia superando quel legame, all’epoca indissolubile, tra
concentrazione di capitale e di forza lavoro in funzione della
produttività.
L’avvio della
produzione flessibile fa saltare questa accoppiata e separa le sorti
dell’operaio di fabbrica dal punto più avanzato del processo produttivo. La
nascita delle filiere produttive dislocate sulla dimensione internazionale
permette di ripristinare lo sfruttamento e l’estrazione di plusvalore in un
punto lontano dai centri strategici, progettuali e finanziari, rimasti nei
centri storici del capitalismo. Ciò non rappresenta solo una constatazione
“tecnica” poiché essa modifica la condizione materiale e politica della classe
operaia, riduce il suo potere contrattuale e, separandola strategicamente dai
punti sviluppati della produzione, fabbriche automatizzate, bio e nano
tecnologie, industria militare moderna, etc., la riduce a soggetto sociale al
pari degli altri che compongono il proletariato. Viene meno, così, quella
“particolarità” storica di essere avanguardia politica della classe fin
dall’inizio della grande impresa capitalista in quanto, sia per la funzione
produttiva che per la mobilità geografica delle filiere, non costituisce più
quello snodo ineludibile con il quale la produzione di valore doveva per forza
fare i conti.
Naturalmente nei
paesi imperialisti rimangono ancora nuclei consistenti di classe operaia di
fabbrica legati alle produzioni avanzate, ma questi non rappresentano più la
tendenza generale del proletariato in quei paesi come avveniva nel ‘900 quando
essa si moltiplicava e concentrava attorno alle grandi fabbriche da Torino a
Detroit e nel resto del mondo “sviluppato”. La realizzazione delprofitto nei
centri imperiali oggi viene dalla circolazioneinternazionale del capitale e non
dalla dimensione nazionale della produzione e del mercato come precedentemente;
il nesso sempre più stretto tra multinazionali e logistica ci segnala questa
modalità diversa di realizzazione del valore che vede, non solo in Italia, un
consistente uso di forza lavoro immigrata come ulteriore elemento di
segmentazione della classe lavoratrice.
Quella che si apre è
perciò una fase inedita e soggetta ad ulteriori sviluppi e non si può pensare
che si possano ripetere le dinamiche del ‘900 sulla base di un determinismo del
tutto soggettivo; ciò significa che non sappiamo ancora gli sviluppi concreti
futuri che bisognerà analizzare ed elaborare per individuare una funzione
reale. Per quanto ci riguarda come RdC negli anni ’90, partendo dal testo
sull’imperialismo di Lenin, abbiamo cercato di leggere nella realtà che si
sviluppava, dopo la fine dell’URSS, quali dinamiche avrebbero preso il
sopravvento ed individuammo nella costruzione dell’Unione Europea i segni di
una ripresa della competizione interimperialista come sintomo di una tendenza
storica del capitalismo sulla base della sua composizione organica.
Nell’analisi della
fase che si apriva in quegli anni non siamo partiti dalla verifica empirica dei
processi legati alla ripresa della competizione interimperialistica, verifica
sempre inquinata e resa problematica dalla rappresentazione politica egemone,
ma dall’uso di categorie quali la legge del valore come dato immanente al modo
di produzione capitalista, la caduta tendenziale del saggio di profitto come
processo storico dell’aumentata composizione del capitale fino all’analisi
leninista che individuava i caratteri di una tendenza imperialista che ci
sembra abbiano ancora tutta la loro vigenza. In altre parole abbiamo ritenuto
necessario avere una linea di ricerca che fosse organica ed in coerenza con gli
strumenti del marxismo rifuggendo dall’analisi contingente dei fenomeni che
spesso si mostra miope e di corto respiro.
Naturalmente era
all’epoca, per noi, una possibilità e non ancora una realtà; negli anni
successivi l’approfondimento di un lavoro analitico sistematico e la verifica
che mano mano veniva dalla realtà ci ha permesso di confermare l’ipotesi che
era alla base del nostro progetto. Quella che si apre oggi è una fase uguale a
quella precedente per importanza ma di segno opposto e che ne rappresenta anche
il superamento. Di questo superamento bisogna avere coscienza in quanto ci
obbliga a riprendere un lavoro di elaborazione ed a maneggiare “l’arma” della
teoria cominciando a riflettere sulle nuove condizioni ma sapendo che questa è
un’arma a doppio taglio che se non maneggiata con cura potrebbe ritorcersi
contro di noi. Per essere più espliciti potremmo dire che la fase attuale
può essere ben rappresentata dall’affermazione fatta da Gramsci durante il
Fascismo: “il vecchio muore ma il nuovo non può nascere”. Ciò fu detto dentro
un periodo di crisi profonda iniziato con la prima guerra mondiale e risoltosi
solo dopo il 1945, dove è poi effettivamente sorto il “nuovo”. Bisogna perciò
mettere mano all’analisi ed alle ipotesi che possono essere fatte sugli
sviluppi futuri sapendo che le risposte non sono affatto scontate né possono
essere predeterminate. Dunque la RdC intende promuovere nella seconda parte
dell’anno un nuovo incontro aperto a tutti i contributi per avviare un impegno
analitico fondamentale per il futuro del nostro agire politico.
Il seminario che
intendiamo svolgere per il mese di Giugno vuole riprendere l’analisi ed il
confronto sull’altro corno della questione che è quello della soggettività,
della soggettività organizzata dei comunisti,della loro funzione strategica e
della soggettività della classe.
LE RAGIONI DEI
COMUNISTI
Parlare di Partito
Comunista qui ed ora non è certo cosa facile e dà l’idea di parlare di un altro
mondo e di un’altra epoca tanto è stata devastante la storia delle
organizzazioni comuniste di questi ultimi decenni in Italia, ma anche nel resto
dell’Europa. Questa constatazione e lo stato d’animo che ne deriva, che ha
spinto molti militanti a rivolgersi verso altri orizzonti anch’essi bruciati in
tempi molto rapidi, ci deve invece spingere ad operare un salto di qualità
teorico nell’affrontare la questione del partito che in realtà è la questione
di come le classi subalterne resistono e reagiscono allo stato attuale delle
cose. Parlare di partito significa dunque parlare della classe con cui abbiamo
a che fare, reale e non mitologica, ma significa avere anche una idea dei
processi generali e di quelli storici che stanno modellando il mondo attuale.
Se abbiamo dato una
lettura dei processi storici legata al rapporto contraddittorio tra sviluppo
delle forze produttive e rapporti sociali di produzione individuando fasi
egemoniche e fasi di crisi non possiamo non leggere sotto questa luce anche la
storia delle organizzazioni del movimento operaio. Il succedersi di periodi
“rivoluzionari” e regressivi della borghesia hanno determinato anche i
caratteri dei partiti operai e dei partiti comunisti i quali hanno dovuto fare
i conti con gli sviluppi prodotti dalle classi dominanti modificandosi,
evolvendo o cambiando natura. Processi questi che negli ultimi trent’anni
abbiamo visto materializzarsi fornendoci una esperienza diretta, forse
storicamente unica, di come la dialettica della realtà costringe a fare i conti
con se stessi.
Per essere più
concreti nell’analisi riportiamo una parte dello scritto di Giorgio Gattei,
prodotto in occasione di un nostro seminario tenuto nel 1999, riportato sul
quaderno “Partito e Teoria” che fornisce un’utilissima chiave di lettura non
solo storica ma anche funzionale alle questioni che abbiamo oggi sul nodo
strategico dell’organizzazione dei comunisti: “Ma allora per comprendere le
diverse modalità del suo apparire storico pare necessario istituire un
qualche rapporto tra la forma d’organizzazione politica che di volta in volta
si è data la classe e la sua particolare “composizione” che le diverse maniere
del produrre capitalistico, anch’esse di volta in volta storicamente
determinate, pongono in essere.
La premessa è che si
deve riconoscere che la storia del modo capitalistico di produzione, pur
nell’invarianza dei suoi connotati strutturali di fondo (che sono la
compravendita della forza lavoro e l’estorsione di plusvalore), non resta
immutabile ma è segnata da una successione di modificazioni che ne variano, in
particolare, l’organizzazione del lavoro.
Si parla al proposito
di veri e propri “mutamenti di forma” dell’intero ordine produttivo e se ne
individuano, pur all’interno dell’identità del modo capitalista, almeno queste
diverse configurazioni: la rivoluzione della fabbrica a vapore alla fine del
XVIII secolo, la novità della produzione meccanizzata”di serie” a mezzo del XIX
secolo, l’avvento della produzione Tayloristica “in linea” alla svolta del XX
secolo, il trapasso alla produzione/consumazione di massa che s’impone alla
metà del XX secolo (rispetto alla fase precedente la trasformazione non è di
poco conto, come poi si vedrà) ed infine l’affermazione di quella produzione
“flessibile” (o snella o comunque la si voglia chiamare) che segna il nostro
trapasso di secolo.
Ad ogni
trasformazione della maniera capitalistica del produrre ha di volta in volta
corrisposto una modificazione del carattere della “composizione di classe”:
dall’operaio generico delle fabbriche di primo ottocento all’operaio “di
mestiere”di metà secolo scorso; dall’operaio “alla catena” del primo novecento
all’operaio/consumatore-massa di metà secolo nostro, ed infine a quell’operaio
“debole” (o comunque lo si voglia chiamare) col quale stiamo entrando nel terzo
millennio di cronologia cristiana.
Conseguentemente fino
ad ora sono state quattro le “forme partito” che si sono presentate sulla scena
storica, ossia tante quante sono state le trasformazioni strategiche della
“composizione di classe” indotte dalle modificazioni della “maniera del
produrre” che si sono succedute dalla rivoluzione industriale. E se ne attende
naturalmente una quinta, adeguata al livello dell’accumulazione “flessibile” e
del lavoratore “debole”, ma essa è ancora di là da venire o almeno è ancora
difficile da distinguere nella confusione del nostro tempo.”
Questa relazione tra
capacità egemonica, composizione di classe e carattere del partito di classe va
vista non in modo automatico né può essere scambiata per una interpretazione
sociologica della politica. Come sempre è utile andare a recuperare nel
bagaglio del movimento operaio storico elaborazioni fatte in altri momenti non
come riferimento sacrale ma come capacità di cogliere le tendenze di fondo,
sapendo che le forme concrete non possono che essere date dal contesto storico
che agisce nel tempo preso in considerazione. In questo senso è estremamente
utile riandare ad un articolo di Lenin del 1916 “L’imperialismo e la scissione
del Socialismo”, in cui Lenin mette in relazione la vittoria dell’imperialismo
nel coinvolgere il movimento operaio nella prima guerra mondiale con l’emergere
nella classe dell’aristocrazia operaia subalterna alla borghesia, prodotta
dalla riorganizzazione produttiva e dalla conseguente modifica della
composizione di classe, con la scissione del movimento socialista che non
ha solo riguardato la linea politica ma anche la forma della stessa
organizzazione di partito.
Se adottassimo un
approccio meccanicistico sarebbe facile fare un parallelo diretto, tante sono
le somiglianze, con la subalternità della sinistra di oggi all’imperialismo
della UE, la scomposizione e separazione della classe dovuta ai processi di
ristrutturazione e la necessità di una organizzazione antagonista e
rivoluzionaria oltre la nostra sinistra. Purtroppo le cose non sono così
semplici perché le condizioni sono molto diverse, ma il metodo di analisi
proposto da Lenin in quello scritto è ancora valido adeguandolo al contesto
storico che caratterizza la nostra epoca. Bisogna, dunque, partire dalla
modificazione del contesto complessivo che si avvia con la fine dell’URSS e con
una trasformazione completa del contesto strutturale internazionale ancor prima
che quella realizzatasi sul piano politico e dei rapporti di forza
internazionali.
a) Un metodo da
applicare ancora
Il primo elemento da
prendere in considerazione è che nel dopoguerra, con un partito comunista
uscito vittorioso dalla guerra di liberazione, anche come conferma dell’assetto
organizzativo e politico prodottosi nella lotta antifascista, il problema che
si pone Togliatti, e con lui la quasi totalità del partito comunista, è proprio
il cambiamento del ruolo e dell’assetto del partito stesso. È il “partito
nuovo” che deve cambiare se stesso in base alle mutate condizioni complessive.
La fine del fascismo e la battaglia politica sui caratteri della democrazia
italiana, il ruolo della classe operaia nella lotta antifascista ed il
radicamento che il partito aveva, era stato conquistato con la vecchia forma
organizzata; la nascita delle democrazie di transizione nell’Est Europa e la
divisione del mondo in blocchi sono le condizioni generali che hanno portato
alla trasformazione del PC, clandestino prima e poi combattente armato nella
Resistenza, a cambiare radicalmente i propri caratteri mantenendo però il
carattere di classe che ha poi segnato il conflitto politico nel nostro paese per
i successivi decenni.
La vittoria sul
Fascismo non portò a confermare il modello politico che pure aveva vinto, ma si
produsse invece una radicale trasformazione del partito che, abbandonata la
dimensione limitata, prima per scelte settarie e poi per la clandestinità
imposta dal fascismo, modificava se stesso per poter accedere alla dimensione
del partito di massa. Gli sviluppi successivi hanno indubbiamente confermato
che quelle scelte erano adeguate al nuovo contesto nazionale ed internazionale,
anche se la discussione di merito sulle opzioni possibili all’epoca non va
certo data per scontata. Come non si può rimuovere dalla riflessione
l’evoluzione riformista avuta dal PCI soprattutto a partire dagli anni ’70 e
concretizzatasi con la strategia del compromesso storico, di cui oggi nel PD
vediamo gli esiti finali.
Quello che però a noi
oggi interessa capire ed evidenziare è il metodo di analisi della fase
complessiva relativa al dopoguerra, la capacità di cogliere le trasformazioni
sociali, in primo luogo il ruolo centrale della classe operaia di fabbrica
riferito a quell’assetto produttivo, ed, infine, la capacità di dotarsi delle
forme di organizzazione adeguate a raccogliere la spinta del conflitto di
classe di quel periodo.
Oggi siamo da tempo
dentro una modifica altrettanto radicale del contesto in cui agiamo, dove alla
crisi del movimento di classe, oltre che comunista, corrisponde una profonda
crisi dell’assetto capitalistico che fa riemergere le sue contraddizioni
strutturali, lucidamente interpretate dalle categorie del pensiero marxista.
Non si può pensare di affrontare una fase di cambiamento come questa senza
porsi i problemi relativi alla forma organizzata dei partiti e delle
organizzazioni di classe e comuniste.
Quello che non si può
negare è la capacità che il movimento comunista ha avuto nello strutturare i
suoi partiti in base alle condizioni che si manifestavano nei diversi singoli
paesi, ribadendo in questo modo che l’organizzazione rimane sempre uno
strumento, da modificare quando necessario e contro ogni feticismo
organizzativistico.
Siamo in Italia, in
Europa, cioè in uno dei cuori della trasformazione avviata dal capitale per far
fronte di nuovo alle proprie contraddizioni, trasformazioni che riguardano in
primo luogo le condizioni dei popoli e delle classi subalterne di questo
continente; eppure su come si deve organizzare il movimento di classe e con
esso i comunisti siamo all’afonia totale, si naviga più che nella confusione
nella ignavia di chi intende svolgere un ruolo antagonista. Le organizzazioni
presenti, inclusi i partiti, vivono una condizione che non è di massa, in
quanto sono caduti quasi tutti i rapporti con le classi subalterne, ma non è
neanche di militanti poiché il concetto di militanza è stato svuotato
dall’accettazione della cultura egemone, che al massimo ci concede il
“volontariato”, e da una pratica interna alle organizzazioni schiacciata sulla
contingenza, piuttosto che su quello della qualità e della formazione, e sul
protagonismo individuale.
b) Le nuove
condizioni
Ricostruire perciò un
confronto tra le condizioni attuali e quelle della fase precedente, relativa al
partito di massa, mettere a fuoco le differenze e le differenti necessità
politiche alle quali deve fare fronte un’organizzazione comunista, è un lavoro utile
a definire per approssimazione lo strumento organizzativo di cui dotarci oggi.
1) Oltre la Nazione
Un elemento di evidente differenza tra la nascita del partito comunista di
massa e la situazione attuale è il “teatro” della lotta di classe. Il PCI fin
dal 1944 si pone come forza nazionale, cioè reclama per la classe operaia un
ruolo nazionale e di ricostruzione dal tracollo prodotto dal Fascismo, ma
anche di ricomposizione dei settori sociali diversi dalla classe operaia, dai
contadini fino agli intellettuali, dalle donne ai giovani, tutti segnati dalla
vicenda bellica: ricomposizione intesa come “Blocco Storico” che riprende la
lezione del Gramsci della “questione nazionale” e di quella meridionale.
L’ambito materiale dentro il quale svolgere la lotta di classe ed una funzione
emancipatrice generale era la Nazione. Era anche la presa d’atto della
divisione del mondo in sfere di influenza tra USA e URSS e del fatto che la
rivoluzione doveva ripiegare su una democrazia progressiva. In realtà questa è stata
la condizione obiettiva in cui si è fatto politica fino agli anni ’90, e
quando, nei momenti di acutizzazione del conflitto politico e di classe, si è
cercato di rompere quell’equilibrio la risposta del potere è stata di tipo
golpistico, terroristico e violento.
Diventa inevitabile
comprendere come le diverse condizioni storiche possano determinare diversi
modi di agire ed organizzarsi dei comunisti. Non partiamo da zero, nel senso
che in Italia la fine del PCI non ha corrisposto alla diaspora e scomparsa dei
comunisti, anzi è cresciuta un’esperienza come quella della Rifondazione
Comunista che ha continuato sulla strada tracciata dal PCI, ma anche delle
organizzazioni politiche degli anni ’70, riproponendo un partito di massa che,
per senso comune dei militanti, era l’unica strada da intraprendere visto anche
l’entusiasmo con cui è iniziata negli anni ’90 quell’esperienza, per la gran
parte di quei militanti che non volevano accettare la liquidazione di una
storia importante.
Certamente la
conclusione, di fatto, di quel tipo di realtà può essere messa nel conto di
dirigenti “deviati” quali Cossutta e Bertinotti, ma questa sarebbe poco più di
una scusa che riconsegnerebbe la Storia in mano agli individui e non ai
processi generali. Dobbiamo dunque andare più a fondo e indubbiamente balza
agli occhi il venir meno della dimensione nazionale, che era stata la culla
nella quale era cresciuto il movimento di classe e comunista: è bene ricordare
ambedue i fattori. Un venir meno prodotto dal balzo in avanti delle forze
produttive che richiedevano altri involucri statuali per poter produrre
profitti e competere in modo più cospicuo; per noi ciò ha significato la
costituzione sempre più concreta dell’Unione Europea. Forze produttive che però
hanno trascinato con sé tutti gli aspetti della vita dei popoli
coinvolti, dalla comunicazione alla formazione culturale, dagli apparati
produttivi alle istituzioni politiche, insomma un salto storico del quale si è
sottovalutato il rilievo fino al sopraggiungere della crisi finanziaria del
2007.
In negativo è
scontato indicare le responsabilità, la miopia di quei gruppi dirigenti in
tutt’altre faccende affaccendati, ad esempio quelle elettorali, ma allo stato
attuale il problema principale è quello di capire come adeguare, di nuovo, il
movimento di classe e comunista alla nuova dimensione storica che ha superato
la precedente dimensione nazionale. Naturalmente questo processo di superamento
dei confini nazionali coinvolge tutte le aree economiche e monetarie che, in
diversi modi, si sono predisposte a questo passaggio dimensionale della
produzione e della circolazione di capitale, vedi il ruolo del NAFTA per gli
USA. Ma riconcepire una prospettiva per i comunisti del nostro paese significa
accettare in primis la sfida della qualità teorica e politica, la sola cosa che
può metterli in condizione di comprendere le dinamiche della realtà e di
attrezzarsi adeguatamente, anche concependo ipotesi alternative e di rottura a
quelle della Unione Europea, ideologicamente presentata come unico esito
possibile per i popoli del continente.
2) Fine della
democrazia borghese? Un altro dato di fondo che ha caratterizzato la nascita e
l’affermazione del partito di massa è stata la lotta per la democrazia. Attorno
a questo nodo del conflitto di classe nel nostro paese ci sono stati momenti
costitutivi di quel periodo storico, la battaglia vinta contro la legge truffa
nel 1953, il governo Tambroni caduto dopo il tentativo nel ’60 di rilegittimare
i fascisti accettando il loro appoggio all’esecutivo, la ventennale lotta nei
posti di lavoro per i diritti sindacali in cui centrale è stato lo scontro con
la FIAT Vallettiana, altri momenti ancora di conflitto politico che sono stati
fondamentali per allargare gli spazi democratici in un paese in cui la classe
dirigente portava ancora i caratteri della cultura reazionaria sopravvissuta al
fascismo.
Va chiarito però un
carattere centrale di quel periodo. La battaglia sulla democrazia,
l’allargamento dei suoi spazi non erano finalizzati solo all’affermazione di
principi generali ma erano vissuti, dal movimento di classe nel nostro paese,
come una “tappa” della lotta per la trasformazione sociale in Italia. Era ormai
chiaro che non si poteva fare “come in Russia”, ma si poteva ipotizzare una
transizione democratica e pacifica verso un sistema sociale più equilibrato e
non ancora socialista.
D’altra parte in
quegli anni i paesi dell’est europeo non avevano immediatamente adottato il
modello sovietico, esisteva infatti la proprietà privata seppure controllata,
c’erano altri partiti oltre quelli comunisti, ed era chiaro che in quelle
condizioni continuava la lotta di classe, cioè era chiaro che la società era
ancora suddivisa in classi. Esplicativo dell’orientamento del PCI dell’epoca
sono gli articoli di Eugenio Reale e di Eugenio Varga pubblicati sui numeri di
«Rinascita» di Maggio e Giugno 1947 dove questa lettura dei paesi dell’est
Europa viene spiegata in modo dettagliato.
Era questo lo sfondo
in cui si sviluppava nel nostro paese, ed in altri in Europa, la battaglia per
la democrazia intesa in modo “progressivo”, un contesto in cui si poteva anche
ipotizzare una riunificazione dei partiti di classe ovvero del PCI e del PSI.
È chiara anche la
differenza tra quella democrazia come terreno del conflitto per la trasformazione
e quella di cui si è parlato dopo. Infatti già dall’inizio degli anni ’70
questa concezione progressiva viene meno da parte del PCI il quale, a causa del
forte scontro politico, accetta in pieno la concezione della democrazia formale
ovvero borghese. La difesa della Costituzione Italiana diventa perciò di tipo
“religioso” come accettazione di tavole inviolabili ed immodificabili; avendo
abbandonato ogni ipotesi di transizione si fa diventare la democrazia borghese
il terreno politico più avanzato non in termini di classe ma in termini di
valori generali, socialmente indistinti. Si assume lo Stato borghese così
com’è, come baluardo da difendere tout court.
Non vogliamo qui dare
giudizi di merito su quelle modifiche politiche, ma rilevare come la questione
democratica si sia trasformata e come il partito di massa abbia adeguato le
proprie concezioni e relazioni alle condizioni specifiche di quei tempi,
arrivando cioè ad una sostanziale modifica della propria finalità strategica.
Questo passaggio non
ha avuto solo effetti sulla sua linea politica ma ha inciso profondamente sul
modo d’essere del partito di massa e delle sue relazioni interne. Venendo meno
il “Fine”, ovvero la “Rivoluzione” intesa anche nelle sue forme democratiche
così come le aveva concepite il PCI (sono di quel periodo le dichiarazioni di
Berlinguer sull’utilità dell’ “ombrello” della NATO e sulla fine della spinta
propulsiva dell’URSS) al primo posto è balzata la politica vista come tattica,
esclusivamente relativa agli scenari politico/elettorali del momento. Ciò ha
causato una mutazione della percezione della politica da parte dei quadri del
partito, rimuovendo l’aspetto strategico e facendoli acconciare sulla sola
dimensione pratica o, per meglio dire, pragmatica.
Tutto ciò ha avuto un
effetto sulla “teoria”, ovvero sulla capacità di interpretare il mondo nelle
sue dinamiche fondamentali, ed ha avuto un sottoprodotto dapprima inavvertito
ma poi manifesto sui ruoli individuali, sempre più prevalenti nei gruppi
dirigenti: chi non ricorda il supponente protagonismo di Occhetto? Questa
maturazione perversa si è poi palesata appieno con la rottura degli involucri
organizzativi delle organizzazioni della sinistra, non solo del PCI, ed è stata
un presupposto della corruzione politica ed economica che ha poi portato alla
devastazione attuale.
Oggi la situazione è
ulteriormente modificata, la democrazia è diventata, come il lavoro, una
variabile dipendente e dunque disponibile alle modifiche necessarie al livello
di sviluppo delle attuali società capitalistiche. La crisi, la costruzione del
Polo Imperialista Europeo, la trasformazione delle classi dirigenti a classi
dominanti, portano evidentemente alla riduzione della democrazia borghese fino
alla sua scomparsa di fatto, a causa delle condizioni generali imposte dal
livello sempre più intenso della competizione globale che l’assetto
capitalistico richiede.
Oggi è evidente che
parlare di come i comunisti debbano organizzarsi e di quale funzione debbano
avere non può prescindere da questa evoluzione politica e da come il contesto
democratico del nostro paese stia sempre più degradando; il partito di massa
così come è stato “imbalsamato” negli ultimi decenni mostra in questa fase il
suo superamento, se non altro perché i partiti della sinistra italiana sono
stati espulsi, non avendo alcun eletto, dal contesto istituzionale.
3) Dal bipolarismo al
multipolarismo. Il cambiamento “ambientale” dell’agire dei comunisti non ha
riguardato solo la dimensione nazionale ma coinvolge in pieno anche il dato
internazionale che sempre ha determinato nell’ultimo secolo anche le dinamiche
più specificamente nazionali. È quasi superfluo starle a ricordare in questo
dibattito tanto sono evidenti: sostanzialmente si è passati dal bipolarismo
prodotto dalla competizione, anch’essa globale, tra URSS ed USA ad un mondo
multipolare dove le aree imperialiste si trovano a collaborare/competere con
paesi che imperialisti non sono, in una dinamica che non ha mostrato ancora i
suoi effetti ultimi. È una situazione storicamente inedita in cui lo
strapotere dei paesi dominanti non è così completo, pur in assenza di una
compiuta alternativa sociale al capitalismo. Questo mutamento richiede una
qualità nella capacità di analisi dell’organizzazione ben diversa dalla fase
precedente.
Sono venuti meno
alcuni parametri fondamentali che hanno formato generazioni di giovani,
militanti, semplici iscritti ai partiti. Uno è certamente la questione
dell’imperialismo; dal 1945 l’unico imperialismo noto è stato quello degli USA,
contrariamente a quanto avvenuto nelle fasi storiche precedenti alla seconda
guerra mondiale, quando non esisteva l’imperialismo ma “gli imperialismi”, una
differenza non da poco per chi ha percepito nella propria esperienza pratica
solo quello USA.
Con la fine dell’URSS
e con il ruotare della storia all’indietro, verso l’inizio del ‘900, si è
continuato a pensare come prima ad un solo imperialismo ignorando il ruolo che
sempre più assumevano l’Unione Europea e l’Euro come protagonisti della
competizione globale, cosa questa che oggi invece emerge chiaramente dentro la
crisi finanziaria mondiale. Non è stato solo un errore di carattere teorico ma
ha anche fatto emergere l’incapacità di lettura sulle dinamiche della società e
dei settori di classe del nostro paese, che nel frattempo accumulavano
modifiche materiali, culturali e politiche sempre più forti. Se ci fosse stata
questa capacità, sarebbe stato chiaro che queste modifiche imponevano di
riflettere, rivedere e riconcepire le relazioni tra la soggettività politica
organizzata e la realtà della classe in via di modificazione.
Ma il passaggio ad
uno scenario mondiale multipolare ha posto un altro ostacolo alla capacità
politica delle forze comuniste; mentre si continuava giustamente a concepire la
necessità della trasformazione sociale, della rivoluzione, il modello da
seguire, il come concretamente si poteva organizzare una società alternativa, è
venuto meno con la fine dell’URSS e ciò ha richiesto anche qui un salto di
qualità politica e teorica. La critica all’URSS non risale certo alla fine di
quell’assetto statuale, ma essa era presente, ed a ragione, già dagli anni ’60
con la posizione del Partito Comunista Cinese e si è poi sviluppata con il
crescere dei movimenti rivoluzionari internazionali fino agli anni ’70 e, dunque,
anche nel nostro paese. Ma se quel modello non era certo il migliore da
seguire, oggi nella nostra condizione politica possiamo toccare con mano il
ruolo antimperialista che oggettivamente svolgeva e non certo sul versante
“reazionario” della Storia.
Oggi a oltre venti
anni di distanza possiamo dire che la Storia si è rimessa in qualche modo in
movimento mostrando, prima di tutto, che il capitalismo mantiene tutte le
proprie contraddizioni con i tragici effetti sociali, economici e bellici che
possiamo osservare ma soprattutto che la fine del cosiddetto socialismo reale
non ha significato la fine di tutte le esperienze rivoluzionarie che sono nate
nel corso del secolo scorso.
Sapere che il
capitalismo non è la fine della Storia è certamente un elemento importante, ma
per noi il problema è anche come una struttura comunista si organizza per
interpretare e collocare nella propria azione questa nuova realtà
internazionale. Realtà che incide concretamente nella dimensione nazionale ma
che non offre più, come prima avveniva, un modello sociale alternativo “certo”.
Tutto questo ovviamente è rilevante per le caratteristiche dell’“intellettuale
collettivo” da costruire in un contesto in cui un modello alternativo di
società non è immediatamente proponibile ai settori sociali di un paese interno
all’Unione Europea.
4) Attraversando il
deserto culturale. Intendiamo parlare di cultura intesa come quel
bagaglio, quel sapere collettivo che nasce dalle esperienze storiche
concrete dei popoli e delle classi e che è fatto di riferimenti, di valori, di
rapporti e comportamenti che producono una conseguente coscienza ed identità di
se stessi.
Il passaggio dal
partito clandestino del periodo fascista a quello di massa avviene in un
drammatico periodo storico segnato dalla guerra e dalla lotta di liberazione,
in cui le mistificazioni ideologiche non avevano più senso, la verità emergeva
dalla durezza dello scontro e ognuno era costretto a prendersi le proprie
responsabilità schierandosi da una o dall’altra parte. Una simile scelta
implicava inevitabilmente la necessità di capire bene la realtà, le sue
evoluzioni ed i propri interessi, per questo esistevano allora i pensieri forti
che “fornivano” riferimenti e valori. Alla fine della guerra e della lotta di
liberazione le classi subalterne del nostro paese uscivano in una condizione
politica ribaltata da quella vissuta nel fascismo, in cui la passività e la
sudditanza erano i valori del regime. A questa imponente impresa aveva
contribuito il partito clandestino, di quadri, e la lotta di liberazione ma
proprio da questo risultato nasceva l’ipotesi del partito di massa anche perché
la cultura popolare che si era generata da quel passaggio storico permetteva la
mutazione alla dimensione di massa.
Oggi qual è la
condizione che vive su questa dimensione una forza comunista? Conosciamo bene
lo stato di arretratezza della coscienza, non di classe ma perfino di quella
civile; venti anni di devastanti campagne ideologiche hanno costruito
artatamente valori e riferimenti culturali che solo la crisi attuale sta
smontando lentamente. Ma più determinante è stata la scomparsa di ogni
riferimento realmente alternativo ed antagonista; per quanto riguarda la
sinistra in Italia va detto che è stata promossa una sorta di pentitismo
di massa, cioè è stata diffusa la convinzione che tutto quello che era stato
fatto nel ’900 era comunque sbagliato. Va aggiunto anche che questa visione
delle cose in realtà è penetrata a fondo nel vasto popolo della sinistra, che
non è stato portato a ragionare sugli errori di merito, tanti e seri, ma su
un’idea di fallimento che spingeva a pensare secondo schemi ideologici
che l’avversario di classe “gentilmente” ci forniva.
L’affermazione del
partito del leader, che ha sostituito l’intellettuale collettivo e le pratiche democratiche
nelle organizzazioni, l’accettazione del berlusconismo come male assoluto,
l’assunzione politicamente paralizzante della logica del meno peggio, la
perdita del valore dell’indipendenza della classe e comunque il profondo senso
di impotenza e subordinazione alle dinamiche istituzionali sono le forme in cui
si è manifestata l’accettazione dello stato delle cose esistente. È in questa
condizione, caratterizzata dalle macerie culturali della classe, che l’idea del
partito di massa entra in crisi ma è comunque in tale situazione che va
riconcepito il ruolo dell’organizzazione comunista e di una conseguente
egemonia sui settori sociali.
c) La forma
dell’Organizzazione Politica.
Abbiamo visto come
nello sviluppo delle varie fasi storiche ad ogni cambiamento prodotto dallo
sviluppo capitalista sia corrisposta una modifica dell’organizzazione di
classe. Questa dinamica per noi è valida ancora oggi e rispetto alle analisi
che abbiamo fatto, sia sul piano della oggettività che delle condizioni
soggettive, riteniamo riacquisti peso un’ipotesi di organizzazione di quadri
militanti. Il partito di massa, così come lo abbiamo conosciuto, è arrivato al
suo epilogo grazie alle caratteristiche dei suoi gruppi dirigenti,
caratteristiche non individuali ma prodotto di un profondo processo strutturale
che è approdato alla nascita del PD e sul quale non ci dilunghiamo.
A partire dalla
mutazione genetica nel PCI, dal suo scioglimento e con la nascita del PRC/PdCI,
il partito comunista di massa ha ritenuto esaustiva la sua funzione nella
società italiana basandosi su uno schema semplice, ripetuto ossessivamente e
mai messo in discussione:
- il rapporto di
massa delegato al rapporto con la Cgil, sempre più con la Cgil come apparato e
sempre meno con i lavoratori;
- partecipazione alle
elezioni a qualsiasi costo, intendendo con esse l'unica ragione d’esistenza in
vita sul piano politico;
- attività politica
limitata alla propaganda e mobilitazione limitata alle manifestazioni centrali,
feste, campagne elettorali.
Occorre ammettere che
questo schema si è rivelato nel tempo inadeguato ed inefficace, disastroso su
tutti e tre i punti. Non solo. Da questo modello di funzione politica è
praticamente scomparso il tema dell'organizzazione cioè di come, dove, quando
il partito organizza concretamente e - con quali strumenti propri - i settori
sociali di riferimento.
Il modello dei tre
fronti (strategico/ideologico, politico, sociale/sindacale sul quale torneremo
successivamente) ipotizzato dalla Rete dei Comunisti, ha cercato di rispondere
non solo alla crisi dei partiti comunisti tradizionali ma anche di mettere a
disposizione un modello da discutere, verificare, sperimentare, un’ipotesi che
è stata rimossa o rigettata sistematicamente dalla discussione nei e dei
partiti comunisti esistenti in Italia dopo lo scioglimento del Pci.
In altre parole il
partito di massa in questa fase storica è troppo “debole” e con troppe
contraddizioni interne per affrontare le difficoltà di un passaggio complesso;
in questo senso va ridato ruolo alla qualità dell’analisi e delle relazioni
interne all’organizzazione, alla capacità di interpretare e costruire il
conflitto di classe, alla formazione dei quadri ma anche di orientamento di
ambiti sociali di “avanguardia”, tutto ciò ovviamente nei limiti delle possibilità
date. Quello che deve emergere è un modo sostanzialmente diverso di come si è
vissuto in questi anni e di come ancora si vive la militanza, dove la
formazione politica si sostituisce all’attivismo periodico nelle scadenze
elettorali e dove la necessità di costruire sistematicamente il conflitto e
l’organizzazione di classe diviene un elemento centrale dell’azione dei
comunisti nella società. Quello che proponiamo non è certo un’idea già definita
di organizzazione, ma è di ragionare sui presupposti che possano produrre un’
ipotesi d’organizzazione comunista in sintonia con i tempi e con la sua
collocazione in un’Unione Europea imperialista.
1) l’Organizzazione
militante di quadri.
La scelta del
“partito dei quadri” dunque non è volontaria né dettata da settarismo,
peraltro molto “impegnativo” e poco gratificante, ma è data dalla situazione;
ciò non significa che quest’ipotesi sia esaustiva, si tratta di un passaggio
obbligato per ridare credibilità di massa alla possibilità di cambiamento.
Ritorna in ballo l’importanza della soggettività ed in questo senso ripartire
dal “CHE FARE?” significa trovare un valido riferimento teorico per ricostruire
un’ipotesi sapendo che quest’elaborazione e verifica vanno fatte nelle
condizioni odierne. Vale comunque la pena di ribadire che parlare di partito di
quadri non significa porre un limite quantitativo e dunque avere
necessariamente un approccio minoritario, bensì significa mettere al centro la
qualità della militanza, la maturità dei singoli compagni che devono essere
coscienti della complessità del compito che si sono scelti, oltre che darsi
un’organizzazione in grado di sostenere l’impegno collettivo ed individuale
richiesto.
Capacità di sintesi e
rapporto di massa, organizzazione e spontaneità sono questioni estremamente
moderne riportate in auge dalla riorganizzazione capitalista e dal nuovo
livello di sviluppo delle forze produttive, che stanno determinando a livello
mondiale una nuova situazione di movimento e dunque di apertura di spazi per le
alternative. Partito o organizzazione di quadri, perché deve affrontare
situazione in evoluzione con i caratteri detti. Ricostruire dunque un
intellettuale collettivo significa misurarsi con i problemi dell’egemonia e
della teoria oggi, e questo non può essere fatto da un corpo militante che è
tale in occasione degli “eventi” politici o delle scadenze elettorali.
L’inadeguatezza di un
tale agire è palese ed è inutile spiegarla; il problema che abbiamo è come
predisporsi per il suo superamento. La sinistra anticapitalista, sia in Italia
che più in generale in Europa, deve fare i conti con un protagonismo
movimentista affermatosi in modo particolare sopra la forma partito dopo il
crollo del blocco sovietico. In un quadro simile, con un livello particolare ed
una coscienza di classe ai minimi termini, riproporre oggi la struttura del
partito di massa può essere un grave errore strategico. Il problema
dell’organizzazione politica non è quantitativo ma qualitativo; in tal senso
riprendere oggi l’insegnamento di Gramsci significa affrontare nello specifico
le “quistioni” della formazione e dell’autoformazione, della preparazione dei
quadri, con un’etica ed una precisa disciplina rivoluzionaria.
Se le dinamiche
storiche che abbiamo cercato di estrapolare sono minimamente azzeccate, e cioè
la disgregazione della classe nella produzione flessibile, la complessità
sociale dei centri imperialisti, le caratteristiche inedite dei sommovimenti
politici legati alla nuova condizione sociale e di classe (da noi la realtà del
M5S o dei populismi di destra in Europa) ne consegue, anche qui, la necessità
di un approccio qualitativo che non può essere sostituito da nessun
protagonismo politico/elettorale visto lo spessore delle questioni che si
pongono di fronte ad una seria ricostruzione di una realtà comunista, partito
od organizzazione che sia.
2) Militanza e
coscienza di classe.
Questo salto
qualitativo dell’agire di un’organizzazione comunista non può non misurarsi con
il contesto in cui deve maturare una moderna coscienza di classe, in relazione
diretta con l’impegno militante individuale che sta alla base di una tale
organizzazione; su questo aspetto è ineludibile un approfondimento analitico e
teorico. Nelle fasi precedenti, infatti, il rapporto tra partito e soggetto
sociale, la classe operaia propriamente detta, era un rapporto diretto e
funzionale, ovvero la lotta politica per le classi subalterne si associava ad
una possibilità di emancipazione anche a livello individuale; chi faceva
militanza, partendo da una condizione sociale di classe e subalterna, faceva di
quest’impegno il suo punto di forza e d’identità personale per “progredire”
anche sul piano culturale.
Tutto ciò oggi può
essere solo parzialmente vero se riferito alle modalità classiche del movimento
operaio, ad esempio per i lavoratori immigrati che vivono una condizione di
sfruttamento e di degrado sociale. Si pone, perciò, il problema dei settori
sociali proletarizzati e penalizzati da questo sviluppo, spesso composti da
lavoro intellettuale piuttosto che manuale, che devono anch’essi trovare gli
elementi d’identità e di emancipazione che li spingano ad impegnarsi fino a
modificare la propria visione del mondo, cioè quella ora fornita dal sistema
dominante. Questo elemento va ben evidenziato perché mentre sembra teoricamente
corretto parlare di partito di militanti, sappiamo bene che la società non
produce automaticamente soggetti disponibili a questa relazione, almeno questo
è quello che ci dice la nostra esperienza diretta, e questa difficoltà si
manifesta mentre i militanti della nostra variegata sinistra rischiano di
ripiegare e individualizzarsi ancora di più sotto il peso di nuove sconfitte e
con il passare del tempo.
3) La nostra critica
alla “rifondazione comunista”.
La nostra
impostazione e i nostri ragionamenti sulla questione del partito non possono
non fare i conti con la storia concreta nel nostro paese della Rifondazione
Comunista, al di là delle sue forme e delle evoluzioni diversificate che ha
preso nell’arco degli ultimi 25 anni. Indubbiamente essa è stata tra le
esperienze più significative dell’Europa occidentale perché, chi all’epoca
decise di rompere con il PDS, poté gestire un capitale politico ed umano che il
PCI e quella che era stata la sinistra extraparlamentare, ritrovatisi alla fine
assieme nel PRC, avevano lasciato dopo la scissione di Occhetto dal comunismo.
Nonostante che molti compagni/e della RdC siano passati dentro l’esperienza di
quel partito, questa si è trovata fin dall’inizio fuori da quell’ambito a causa
della divaricazione esistente tra l’analisi dei processi complessivi, che
all’epoca cominciavano a segnare elementi di novità e la dinamica che prendeva
corpo dal Movimento per la Rifondazione Comunista, al Partito della
Rifondazione fino all’assunzione di Bertinotti alla segreteria politica. Va
tenuto conto che quella scelta di estraneità fu all’epoca cosa difficilissima
vista la capacità attrattiva di un’esperienza che alla sua nascita disponeva
già di un potenziale politico e quantitativo molto consistente, tanto da
raccogliere decine di migliaia di iscritti e da raggiungere
successivamente circa il 10% dell’elettorato.
Nonostante le
critiche fatte all’epoca sulla politica di quel partito, che ha avuto sempre
come riferimento contraddittorio le varie mutazioni del PCI, dal PDS al PD, ed
i governi di centrosinistra a guida, soprattutto, di Prodi non erano per noi
queste il cuore della questione. Certamente la scelta di approvare il pacchetto
Treu sulla precarietà, le giravolte sulle varie riforme delle pensioni fino ai
molti voti a favore degli interventi militari, hanno segnato la divaricazione e
spesso anche la contrapposizione di piazza; come avvenne ad esempio in
occasione del 9 Giugno del 2007 nelle manifestazioni contro Bush dove la
sinistra, allora di governo, venne letteralmente isolata da una manifestazione
di decine di migliaia di persone che protestavano in alternativa al presidio
della sinistra.
I punti di critica e
diversificazione effettivi sono stati, invece, sempre di tipo strategico in
quanto elementi evidenziati nelle nostre analisi anche se in realtà esse
non hanno mai avuto cittadinanza politica in una sinistra “radicale” che oggi
paga il fio della sua inconsistenza analitica e teorica. I punti su cui abbiamo
battuto per anni sono questioni che oggi emergono dalla realtà dei fatti, ma
che nascevano da un tentativo di non abbandonare la cassetta degli attrezzi
marxisti nella visione del mondo. Vale la pena di ricordare alcuni di questi
punti.
- Certamente la
questione dell’imperialismo, ovvero degli imperialismi. L’innamoramento
strumentale sulla teoria dell’Impero prodotta dal pensiero di Tony Negri,
grandemente sponsorizzato dal segretario Bertinotti, è stato certamente il
punto dirimente della nostra divergenza con il pensiero maggioritario che
viaggiava all’epoca tra i comunisti. Questa divergenza non è stata puramente
teorica in quanto ha assunto nel tempo una valenza politica attorno alla natura
della Unione Europea che dagli anni ’90 si è sempre più rafforzata creando
prima la moneta unica e poi, di crisi in crisi, configurandosi sempre più come
una nuova dimensione statuale in formazione.
Oggi la divaricazione
è totale e la vicenda greca della scorsa estate ha portato alla luce le due
tendenze che si sono manifestate tra i comunisti ed il movimento di classe.
Pensare di democratizzare l’UE è un discrimine direttamente politico, evidente
e che produce schieramento. L’errore anche in questo caso sarebbe di non
continuare ad elaborare le analisi autonome sulla natura del soggetto
imperialista subordinandole alle manifestazioni contingenti e contraddittorie
che si producono nel corso della competizione internazionale e delle tattiche
che gli imperialismi adottano.
- Un altro punto di
divaricazione conseguente è stata la valutazione sulla condizione della classe
reale che si veniva configurando nel paese e nel nostro continente. Il processo
di costruzione del Polo Imperialista Europeo è stato un fatto strutturale,
anche se è il prodotto di una strategia politica delle classi dominanti
europee; un fatto che si è collocato dentro la mondializzazione effettiva del
Modo di Produzione Capitalista, che ha prodotto una profonda ristrutturazione
produttiva, finanziaria, commerciale ed infine sociale, del mondo del lavoro ed
ideologica. Tutto ciò ha inciso su quella che abbiamo definito la composizione
di classe, che oggi assume forme storicamente inedite e produce la necessità di
analizzare a fondo la condizione sociale in cui agiamo e che viene
sistematicamente rivoluzionata dalle contraddizioni del capitalismo.
Non solo non abbiamo
la composizione di classe di fabbrica e operaia degli anni ‘70, ma quest’ultima
è coinvolta nei processi economici che si sono sviluppati negli ultimi decenni.
Abbiamo visto nei decenni passati la formazione di un’aristocrazia salariata,
simile per funzione a quella operaia analizzata a suo tempo da Lenin, fatta di
lavoro dipendente ed autonomo, orientata verso il consumo ed il sostegno al
mercato, che politicamente è stata la base sociale del centro sinistra, ed in
parte anche dalla sinistra. Formazione sociale che si è fatta subalterna,
grazie alla propria condizione di relativo privilegio verso il resto del mondo,
allo sviluppo generale attuale, incluso quello della tendenza alla guerra. Oggi
questa condizione, che ha segnato la situazione almeno fino all’inizio della
crisi nel 2007, è in via di superamento perché la crisi in atto sta
riproducendo i processi di diseguaglianza e di proletarizzazione classici dello
sviluppo capitalista, anche del lavoro intellettuale, che nel contesto attuale
penalizzano i settori sociali ed i popoli del sud Europa come la vicenda greca,
ma anche quella spagnola, portoghese ed italiana, stanno plasticamente
dimostrando.
È esattamente in
questo contesto che abbiamo mosso la critica al partito comunista di massa, non
perché lo ritenevamo sbagliato in base ad astratti principi politici, ma perché
ci sembrava che si stessero creando le condizioni storiche e materiali per il
suo superamento. Né i gruppi dirigenti comunisti percepivano questi cambiamenti
in quanto i riferimenti assunti erano quelli della politica contingente, cosa
che significava sostanzialmente pensare alle elezioni come ambito prioritario
della politica e della stessa sopravvivenza di partito. Errore di calcolo,
questo, che oggi appare in modo lapalissiano in quanto il partito comunista di
massa è di fatto scomparso, al di là di ogni scelta, con la rescissione di
tutti i legami sociali in nome della politica mentre il partito di quadri,
l’unica forma che potrebbe tenere nella bufera storica in cui siamo immersi, è
fuori da ogni concezione essendo stato semplicemente rimosso dalla cultura
politica dei comunisti.
Ma la concezione del
partito di massa, trascinata in un contesto storico diverso, ha prodotto anche
un altro danno che ha approfondito le difficoltà dei comunisti. Ci riferiamo
alla questione sindacale; se la scelta strategica, infatti, è stata quella di
salvaguardare il carattere di massa e dunque elettorale, sul piano sindacale le
relazioni ed i progetti non potevano che privilegiare i rapporti con la CGIL.
Da tempo era a tutti evidente la degenerazione di quel sindacato, CISL e UIL
l’avevano preceduta, con le politiche concertative e poi complici che hanno
avuto l’unico obiettivo di contenere il conflitto di classe. Dire queste cose
oggi è una ovvietà in quanto è la CGIL stessa che si premura di eliminare tutti
quei soggetti che sono “fuori linea” e sospetti di una pur parziale dissidenza.
Questa strategia disastrosa è stata politicamente giustificata con la necessità
di dare battaglia dentro il sindacato storico di classe, quando erano già
evidenti i processi di degenerazione, ma in realtà ciò rifletteva la debolezza
teorica e pratica della rifondazione in atto, incapace di rapportarsi ed
organizzare direttamente i settori di classe con propri progetti indipendenti.
Tutto sommato, quello che andava salvaguardato era il bacino elettorale
rappresentato dal sindacato che una scissione della CGIL non avrebbe garantito
di mantenere.
Giustamente non
possiamo dimenticare la questione dei movimenti, ovvero del “movimento dei
movimenti” così come venne definito. Questa ha un versante tattico legato a
quel momento politico che è stato quello che prevalse all’epoca; non a caso il
PRC di Bertinotti, oggi fan di Comunione e Liberazione, raggiunse il massimo
del risultato elettorale. Ma c’è anche un versante strategico sul quale vale la
pena di ragionare; non si può certo nascondere la dimensione di massa raggiunta
che nei primi anni 2000 portò ad ipotizzare una rinascita della sinistra
“antagonista”. A quel movimento partecipammo anche noi in varie forme, oltre
quella diretta della RdC, in quanto ravvisavamo una opportunità con la quale
misurarsi. Detto in termini diretti, se la sinistra comunista si era imbarcata
e spaccata nella vicenda governativa di Prodi, riprodottasi fatalmente
poi nel 2006, tutto quello che era stato il corpo sociale in particolare legato
al PCI, che andava dalla CGIL/FIOM all’ARCI alla Lega delle Cooperative
all’associazionismo pacifista e cattolico insomma tutta la sedimentazione
culturale e sociale prodottasi dal dopoguerra, trovò una sua autonomia di
movimento in una situazione di crisi politica della sinistra e di incipiente
pericolo berlusconiano. Una possibilità, creatasi anche grazie al movimento di
Seattle, che venne consumata negli anni successivi nel tatticismo, nelle
scadenzismo elettorale e nel carrierismo individuale a noi tutti ben noto.
Dunque dopo la consunzione politica dei partiti c’è stata la consunzione
materiale di quel blocco sociale che sosteneva la sinistra nel nostro paese. Se
quella sinistra diffusa, che poi è stata la base di tante mobilitazioni fatte
anche contro le proprie rappresentanze istituzionali, oggi vive anch’essa una
condizione di disgregazione e dispersione le responsabilità non possono che
essere ricercate in una rifondazione che non ha saputo e voluto essere
direzione politica realmente antagonista così come invece si affermava.
In sintesi. Quello
che stiamo proponendo non è certo un’ipotesi di partito, che non può che
nascere nel conflitto di classe se i comunisti riescono a trovare le forme ed
il modo per riproporsi come “avanguardia”, come si usava dire in altri tempi. È
piuttosto il tentativo di riaprire la discussione su un piano che è stato
completamente rimosso o che è stato delegato agli intellettuali i quali hanno
fatto molti danni, ovviamente perché lasciati a se stessi e senza un termine
medio di rapporto con la realtà di classe del paese. Proporre un seminario e
non un convegno in cui si sostengono tesi definite significa aprire un
confronto senza velleità o riduzioni organizzativistiche ma con la necessaria
determinazione. La fase che si apre, le contraddizioni che si esprimeranno e le
loro forme saranno del tutto inedite e, questa volta, non c’è nemmeno a
disposizione quel capitale politico ed umano che negli anni ’90, pur su linee
politiche poi rivelatesi sbagliate, ha permesso un protagonismo politico
significativo e movimenti di massa nel nostro paese.
Nessuna sintesi
organizzativa immediata ma la necessità di un confronto e di un approfondimento
teorico che sia anche di formazione per le giovani generazioni; siamo
disponibili ad istituire, anche formalmente, una sede stabile e periodica
in cui il confronto tra comunisti sia libero dalle contingenze politiche, ma
funga da bussola per il loro agire politico e nel rapporto con la classe reale
del nostro paese.
LA FORZA. OVVERO I
COMUNISTI E LA CLASSE
La questione della
“forza” si pone non solo come caratteristica diretta dell’organizzazione
politica ma in quanto capace di organizzare e, dunque, di rappresentare una
classe, un blocco sociale. Non esiste nessuna seria “organizzazione comunista”
se non è radicata nella classe e nel conflitto. Non si forma nessun quadro
comunista se non si fanno i conti in prima persona con la realtà delle “masse”
concretamente esistenti. Il rapporto di massa è l’unico terreno di verifica
delle capacità individuali e collettive di “costruire organizzazione”. Ogni
ipotesi strategica o di linea politica, se non riceve il conforto della
verifica di massa, resta una pura ipotesi. Ogni argomento che non “fa presa” su
un interlocutore di massa reale o è sbagliato o è “detto” in modo
incomprensibile.
Alla disgregazione
materiale indotta dalla riorganizzazione produttiva e sociale si risponde con
un forte ruolo della soggettività nei processi di ricomposizione del conflitto
di classe; pensare di farlo partendo solo dalla “politica”, magari intesa nella
sua dimensione più autonoma e astratta, significa continuare a seguire una via
senza uscita. Far crescere il rapporto di massa organizzato, fornire ai quadri
politici un metodo di lavoro e di verifica delle proprie ipotesi, è invece un
compito cui nessuno si può sottrarre. Noi per primi, ovviamente. È partendo da
questi elementi che vanno intrapresi i processi di ricostruzione da contestualizzare
al quadro complessivo che abbiamo cercato di tracciare.
Se la questione posta
nel capitolo precedente sul partito di quadri è fondamentale, altrettanto
importante è la “funzione di massa” che questo deve saper svolgere , in quanto,
seppure è evidente la difficoltà dei comunisti di riprodurre nella società
attuale l’egemonia dei decenni passati, sia per responsabilità soggettive che
per condizioni oggettive, vanno comunque individuati e ricostruiti gli snodi
del rapporto con la più ampia parte della società così come è oggi, diversa da
quella che è stata nei precedenti periodi del conflitto di classe.
Lavorare per ridare
una rappresentanza politica alle classi subalterne, distrutta dai processi di
riorganizzazione capitalistica, supportare ed organizzare il conflitto sociale
e sindacale nelle molteplici e disgregate forme che oggi manifesta, ridare un
ruolo ai giovani in una società che li vuole senza futuro, questi ed altri sono
i terreni di ricostruzione che devono affrontare le organizzazioni comuniste;
terreni propedeutici anche a produrre una diversa visione del mondo e alle
possibilità di superamento della profonda crisi attuale.
“Funzione di massa”
intesa non come semplice orientamento politico da fornire a chi oggi è immerso
nelle contraddizioni, orientamento reso impossibile dagli “apparati ideologici
dello Stato”, dalla scuola ai mass media, ma come intervento diretto di
organizzazione del conflitto di classe conle forme adeguate a tutti i suoi
articolati livelli di espressione. La politica così come l’abbiamo intesa nei
decenni passati non esiste più, il conflitto rivendicativo permane ma i
rapporti di forza tra le classi sono troppo sfavorevoli ai lavoratori. Si
riconferma pertanto l’indispensabilità della progettualità in funzione e per la
costruzione diretta e non formale dell’organizzazione di classe, in sostanza
per dare corpo a quell’accumulazione delle forze che è l’unica possibilità di
modificare i rapporti sociali.
1) I “tre fronti” del
conflitto di classe e la ricomposizione.
Se parliamo di
partito e organizzazione politica il dato da cogliere è quello della sintesi
degli elementi strategici, ma se parliamo di rapporto di massa prevale la
complessità delle figure sociali esistenti e la necessità di individuare le
attuali modalità organizzate del rapporto politico e sociale. Anche su
questo piano ci sembra che ci siano state delle discontinuità che vogliamo
proporre e discutere. Non ci sembra, infatti, adeguata una continuità
automatica sul ruolo del partito e sulla sua azione rispetto a quella che era
stata la fase precedente fino al 1991, protrattasi anche negli anni
successivi. Fase che aveva visto nel partito di massa il punto più avanzato di
sintesi dei progetti di trasformazione sociale. Sintesi che riguardava la stessa
prospettiva della trasformazione, mantenuta come orizzonte anche dal PCI, la
rappresentanza politica e parlamentare e la rappresentanza sindacale in cui la
CGIL aveva un ruolo centrale. Questa funzione di sintesi dell’organizzazione
politica di massa era valida sia per il PCI che per le diverse
organizzazioni della sinistra rivoluzionaria, emerse dopo il ciclo di lotte del
‘68/’69, nonostante il durissimo scontro sulle linee politiche. Quella fase di
profonda trasformazione della società italiana fu attraversata da un conflitto
di classe generalizzato ma anche da una ricca elaborazione teorica e culturale
che in quel contesto definì con chiarezza profili e strategie politiche.
Il punto di fondo che
segna la differenza è che la sconfitta storica avuta ha portato allo
scompaginamento di quei tre fronti che per tutto il ‘900 avevano trovato una
sintesi politica ed una capacità di azione e trasformazione nel partito. Si
tratta del piano teorico-strategico relativo ai comunisti, quello
politico e istituzionale e quello sindacale-sociale; se vogliamo possiamo dire
che lo scompaginamento prodotto è stato paragonabile ad una sconfitta militare
che ha obbligato l’esercito in rotta ad una ritirata strategica e ad una
riorganizzazione che non poteva presupporre di nuovo e in tempi rapidi
battaglie campali.
Riproporre invece il
partito di massa così come era stato precedentemente costruito; non fare i
conti con gli effetti ideologici sulla classe degli eventi di quegli anni,
oltre che con le caratteristiche delle modifiche strutturali; concepire il
rapporto di massa dell’organizzazione politica come semplice “cinghia di
trasmissione” o, peggio ancora, come rapporto elettoralmente strumentale,
significava essere fuori dalla nuova realtà maturata in quegli anni di crisi e
inconsapevoli degli effetti reali delle brutali dinamiche che avrebbero agito a
livello internazionale. Non a caso non aver preso atto della profonda modifica
del contesto ed aver pensato di poter procedere per “coazione a ripetere” ha
portato alla sconfitta nelle battaglie campali che di volta in volta sono state
tentate, da quelle elettorali al movimentismo sindacale e sociale fino alla
disgregazione attuale.
In questo senso ci
sentiamo di proporre all’attenzione e alla discussione, e anche alla critica,
la convinzione cui siamo arrivati in quegli anni, ovvero che la sconfitta, che
ancora permane, richiede un processo di ricomposizione della classe che non può
essere direttamente “politico” così come è stato concepito fino alla crisi
politica della sinistra italiana nel 2008. Ciò richiede, invece, nel nostro
paese e, ci sembra, anche nel resto dell’Europa un’articolazione organizzata
sulla base dei tre fronti del conflitto di classe sopra richiamato. In un tale
processo di ricomposizione pensiamo che il “fronte” politico, che abbiamo
definito anche come Rappresentanza Politica del blocco sociale, e quello
sindacale-sociale debbano avere una loro specifica progettualità; in relazione
ovviamente con un progetto di trasformazione rivoluzionaria della società. Progettualità
che abbia anche una sua autonomia e capacità di organizzazione e
rappresentazione che oggi non può essere, nel cuore dell’imperialismo europeo,
direttamente rappresentata dall’identità comunista dati i rapporti di forza e
la storia recente di questa parte del mondo. Il ruolo dei comunisti in questo
assetto politico e sociale non può che essere quello di dimostrare la propria
capacità di essere direzione sostanziale dei processi di ricomposizione ovvero
di “accettare la sfida”; non ci sono risposte formali sul ruolo dei comunisti,
o questi sono capaci di essere elemento progressivo per una prospettiva di
classe oppure oggi non basta definirsi comunisti per aver riposta la fiducia
delle “masse”.
L’eventualità che le
crisi non generino eventi rivoluzionari non giustifica l’abbandono del piano
alto della trasformazione radicale e delle potenzialità per la costruzione di
una fase di transizione verso il socialismo. Al contrario oggi più che in
passato si pone con maggiore forza la necessità di “volare alto” ma con i piedi
saldamente piantati a terra, nella materialità delle cittadelle imperialiste in
cui viviamo. Proprio la prassi gramsciana ci ha insegnato che i tre fronti in
cui si articola il processo rivoluzionario non possono essere slegati dalle condizioni
in cui si trovano a convivere ed entro le quali agiscono le forze che si
battono per il superamento del capitalismo.
Va detto anche che
questo quadro, che per noi ha valenza da diverso tempo, sta subendo delle
evoluzioni in base all’incedere della crisi che, divenendo ancora più brutale
ed eliminando i terreni di mediazione possibili, tende a politicizzare sempre
più i conflitti e le contraddizioni obiettive. Questo è un passaggio che allo
stato attuale, in base a nostre valutazioni, non modifica ancora l’idea
dell’articolazione organizzata dei tre fronti ma certamente ci spinge ad
indagare verso una possibile ricomposizione, che per ora è sul piano
della politica ma è importante perché crea le condizioni per un processo di
unificazione del conflitto e dunque della prospettiva.
In concreto la
costruzione dell’Unione Europea sta producendo i terreni di unificazione
potenziali visto che una sintesi effettiva è possibile solo con una
soggettività, per noi comunista, che abbia coscienza dei processi complessivi.
Tale processo, infatti, ha difficoltà a maturare spontaneamente, direttamente
dal conflitto sia politico (vedi il malessere generale che spinge ampi settori
sociali anche di classe verso la destra populista) che sociale/sindacale (che
spesso tende a ripiegarsi nello specifico vertenziale che non può che portare
all’impotenza o alla sconfitta).
2) Organizzazione e
coscienza di classe.
Il termine
Organizzazionein questi ultimi decenni è stato vissuto come questione
organizzativa, nei migliori dei casi come strumento per fare politica nelle
campagne elettorali. Si è perso il significato profondo di organizzazione di
classe, che è un processo indipendente interno alla classe, è infatti la
costruzione di quel tessuto connettivo che poi è in grado di agire nel
conflitto e che ha determinato i processi storici. La riduzione, avvenuta anche
tra i comunisti, del concetto di organizzazione a puro significato strumentale
non può essere rimosso da una riflessione critica del rapporto tra comunisti e
classe e per questo vogliamo tentare un passaggio teorico complesso che
cerchiamo di rendere più sintetico possibile per non appesantire troppo il
presente documento.
Il rapporto tra
organizzazione e coscienza di classe è una relazione fondamentale per
affrontare la questione della soggettività. La coscienza di classe,
nell’attuale perdita generale dei riferimenti teorici, è vissuta nella migliore
delle ipotesi come elemento valoriale, di concezione generale mentre in realtà
per poter sopravvivere ed affermarsi deve radicarsi nel corpo della classe,
come elemento concretamente esistente ed operante nel continuo conflitto con
l’egemonia borghese. La coscienza non è solo un dato sovrastrutturale ed
identitario, essa va compresa nel profondo legame che ha con le contraddizioni
della società capitalista. Ci interessa mettere a fuoco la percezione
soggettiva della classe, cioè di come le classi subalterne vivono le relazioni
sociali in questa realtà, se questa condizione porta ad una presa di coscienza
collettiva, oppure se, al contrario, ciò non avviene. Analizzare questo aspetto
è un passaggio fondamentale per capire poi come l'organizzazione politica, il
partito, debba svolgere concretamente la sua funzione.
Nell'affrontare
l'aspetto della soggettività del proletariato dentro questo processo storico,
bisogna definire innanzitutto, con una certa precisione, cosa si intende per
coscienza collettiva ovvero per coscienza di classe. Una coscienza politica di
classe presuppone che un individuo si riconosca non solo come tale ma anche
come appartenente ad un raggruppamento sociale, che ha gli stessi interessi
materiali, che svolga lo stesso ruolo sociale e che abbia un'idea generale e
definita del mondo e del suo sviluppo. La manifestazione di una tale
appartenenza non significa solo avere una visione del mondo specifica ma
implica anche l'esistenza di una base unitaria la quale può, appunto, generare
un orientamento unitario e dunque il nesso tra base e rappresentazione del
mondo, e quindi coscienza, è ineludibile. Quando noi parliamo di indipendenza
della classe, dobbiamo allora individuare qual è la base indipendente che
produce una coscienza indipendente.
Dobbiamo comprendere
se nella produzione socializzata, sempre più socializzata, il proletariato può
trovare una sua base materiale indipendente; per questo c’è bisogno di
individuare il percorso teorico da seguire. Il primo dato è che il Mercato,
soprattutto nella fase di autonomizzazione del capitale finanziario, assume
oggi un valore generale, oggettivo di riferimento; il secondo è che il
proletariato è parte interna, integrata del sistema di produzione e
riproduzione, e non ha spazi di esistenza indipendenti nella produzione
capitalistica generale. Inoltre questa "parte interna" della
produzione è una parte penalizzata dallo sviluppo capitalista e sottoposta a
pressioni di ogni tipo. Possiamo dire che questo genera contraddizioni
concrete, anche fortissime in alcuni momenti storici, però non fornisce quella
base indipendente che possa essere il punto di partenza per una propria visione
indipendente del mondo. Il proletariato è tutto interno al sistema di
produzione capitalistico sia sul piano sociale che su quello tecnico. La
"sussunzione", cioè la subordinazione, del lavoro al capitale diviene
da formale a reale dentro il processo storico. Per un approfondimento su questo
punto rinviamo al nostro testo pubblicato nel 2011 titolato “Coscienza di
classe e Organizzazione”.
L'operaio
professionale della fine dell'800, che ha un ruolo determinante nella
produzione e che "usa" le macchine, viene soppiantato dall'operaio di
linea che è meno qualificato e che viene "usato" dalle macchine.
Anche quello che ora viene definito lavoro autonomo, nelle sue varie forme, è
sempre più subordinato sul piano produttivo e finanziario al capitale nella sua
fase di "autonomizzazione". Dunque non solo il proletariato non ha
basi materiali indipendenti ma anche coloro che sembravano averne sono sempre
più sottoposti alla pressa del capitale finanziario.
D'altra parte
l'accelerazione dello sviluppo scientifico e tecnologico, quale tendenza
irreversibile, presuppone una sempre più completa integrazione del lavoro in
genere, sia esso operaio, qualificato o intellettuale, nella complessa
divisione sociale della produzione. Questa condizione materiale porta alla
conclusione che se è vero che le contraddizioni dello sviluppo capitalistico
possono spingere la classe ad un conflitto sociale, non è affatto scontato che
queste stesse contraddizioni generino direttamente una coscienza di classe,
cioè una concezione generale alternativa.
Questa valutazione
non nega affatto la funzione delle contraddizioni e del conflitto sociale
spontaneo che ne scaturisce, anzi senza questo nessun processo di
trasformazione sarebbe possibile né alcuna soggettività potrebbe mettere in
moto tali processi. Inoltre più queste contraddizioni sono evidenti ed
insopportabili e più un processo rivoluzionario può essere innestato. Quello
che invece ci sembra sia chiaro è che dalle sole contraddizioni materiali non
può uscire un’alternativa complessiva e, dunque, un progetto razionale
conseguente. Ciò che intendiamo dire forse può essere più chiaro se facciamo
rapidamente riferimento allo sviluppo storico della borghesia e della sua
affermazione. La borghesia non nasce come un prodotto interno al modo di
produzione schiavistico/medievale ma nasce come raccordo "esterno"
tra le società medievali; la posizione del primo borghese, cioè del mercante,
non era interna alla produzione, come quella del contadino sfruttato che
produceva, ma ricopriva una funzione esterna di collegamento tra varie società
chiuse su se stesse, cioè era una borghesia mercantile, di scambio, legata solo
alla circolazione della merce.
Questa
"rendita" di posizione ha permesso l'accumulazione storica del
capitale che è passato attraverso varie fasi; dapprima ancora come esterno alle
società ma con una funzione sociale e politica sempre più forte. Basti pensare
al ruolo dei banchieri presso le monarchie nazionali tra il Cinquecento ed il
Settecento. Successivamente il capitale, con lo sviluppo delle forze produttive
e dunque dell’aumentata divisione sociale del lavoro, è penetrato all'interno
di quelle società e le ha rivoluzionate fino a condurle al definitivo
superamento del vecchio modo di produzione. La Borghesia come classe ha avuto
il "vantaggio" storico di avere una sua base materiale indipendente
sulla quale ha costruito non solo il potere reale ma anche una concezione del
mondo. In conclusione, se la Borghesia ha sviluppato la propria indipendenza in
base ad una condizione storica e materiale ben definita, per il proletariato
questo non è affatto dato, una sua crescita indipendente deve seguire
necessariamente percorsi diversi e più complessi in quanto la propria funzione
produttiva non vede ambiti autonomi di esistenza.
Fin qui abbiamo
sviluppato una riflessione teorica, certamente insufficiente, che per essere
spiegata in modo più chiaro deve essere, per un momento, tradotta in termini
politici. D'altra parte i processi complessivi dell'ultimo quarto del '900 sono
stati così radicali e veloci che ci forniscono l'occasione di verificare sul
piano politico e concreto alcune affermazioni teoriche, sia per quanto riguarda
i processi interni al capitale sia per quelli che definiscono il rapporto tra
contraddizioni e coscienza della classe.
Nel presente livello
di sviluppo capitalista qual è la reazione delle classi subalterne sottoposte
alle contraddizioni materiali che tale evoluzione produce? Nel dare una
risposta a questa domanda va tenuto ben presente che parlare di classe non
significa parlare solo del proletariato dei paesi sviluppati ma fare
riferimento ad una classe ormai dislocata a livello internazionale; una classe
che comprende anche quei popoli che, fino a ieri, erano considerati coloniali e
del terzo mondo e dunque di fatto in gran parte esterni alla produzione
capitalistica. Questa nuova condizione materiale, organica e internazionale,
della classe esprime oggi contraddizioni molto più forti e violente di ieri;
infatti paesi interi vengono devastati socialmente e militarmente, gli ex paesi
socialisti hanno visto un arretramento generale ed anche il proletariato dei
centri imperialisti vede peggiorare le proprie condizioni.
Oltre a ciò possiamo
constatare come ormai decine di paesi siano oggetto degli interventi militari
degli stati imperialisti. Con quale livello di coscienza reagisce questa classe
internazionale? E ancora, perché di fronte ad un attacco sistematico al reddito
diretto ed indiretto nei paesi sviluppati non si crea una reazione non diciamo
rivoluzionaria ma almeno decisamente democratica e radicale a proposito dei
diritti sociali? Ed infine, perché nei paesi ex socialisti dove si assiste a
derive di carattere fascista e dove quasi dappertutto è ormai chiaro che il
peggior socialismo è più umano del miglior capitalismo da loro attuabile, non
si genera una qualche risposta politica di massa? Potremmo continuare a lungo
con le domande e gli esempi ma il dato che emerge è che nella fase di sviluppo
finanziario del capitalismo la classe reale, soprattutto nei paesi a
capitalismo avanzato, non crea opposizione politica generale ma si esprime su
conflitti specifici, rivendicativi e corporativi, che spesso vengono utilizzati
dai movimenti della destra populista o, a livello internazionale,
dall'imperialismo sotto forma di conflitti etnici o religiosi.
Questa arretratezza
così profonda, improvvisa ed inaspettata va però spiegata in modo più
convincente. Non siamo solo di fronte ad uno “sbandamento” dovuto ad una
sconfitta, il crollo della coscienza di classe, soprattutto nell’occidente
capitalistico, è legato alla disgregazione di tutta l'organizzazione sociale
articolata e capillare che una lunga fase rivoluzionaria aveva sedimentato nel
corpo del proletariato. La perdita di coscienza collettiva, nonostante l'aumento
delle contraddizioni a tutti i livelli, è stata determinata dalla distruzione
organizzativa nel tessuto del proletariato causato anche dal disarmo politico
delle forze che avrebbero dovuto quantomeno garantire la resistenza alla
reazione. Affermare con chiarezza questa impostazione significa riconoscere il
nesso diretto tra coscienza ed organizzazione sociale e politica stabile nella
classe, che è l’unica concreta base materiale unitaria che il proletariato non
può trovare nello specifico della produzione capitalista; ma significa anche
capire che un processo di ricostruzione non può che essere un lavoro di lunga
lena in cui i comunisti ritrovano il loro spirito militante. In questo
ragionamento si chiarisce anche l’affermazione di Lenin, spesso letta in modo
ideologico o strumentale, che la coscienza viene dall’esterno; in realtà ha
scritto nel “Che Fare?” - ed intendeva - che viene dall’esterno della sola
dimensione economica e non dall’esterno della classe.
Nell'affrontare la
questione delle classi dal punto di vista della coscienza, determinante ai fini
della politica, la situazione è ancora più complessa, infatti nella nostra
società può accadere, e accade, che ad una condizione proletaria corrisponda
una percezione di se stessa del tutto opposta. Questo è possibile perché chi
appartiene alle classi dominanti è libero quanto vuole, mentre chi appartiene
alle classi subordinate è libero quanto può, cioè quanto gli permette la
società anche sul piano ideologico, ovviamente non in modo meccanicistico. Infatti
il controllo dei mezzi di informazione e di formazione non è altro che una
forma di lotta di classe "dall'alto" finalizzata a perpetuare la
"falsa" coscienza delle classi subalterne.
La coscienza di
classe è perciò innanzitutto la rottura di questa "gabbia d'acciaio"
che abbandona la dimensione individuale per ricollocarsi dentro una prospettiva
collettiva in cui l'organizzazione politica della classe in lotta e la pratica
della solidarietà sono la condizione fondante. Questo è un principio
importante in quanto se nella realtà materiale e "naturale" l'unico
livello di coscienza dato è quello corporativo, per acquisire la coscienza
collettiva non basta un enunciato politico giusto, una visione etica della
realtà o un’iniziativa di lotta o una serie di iniziative, ma è necessaria una
organizzazione stabile della classe, interna alla classe reale che esiste in un
dato paese, che sappia far crescere, con la pratica e la solidarietà, la
coscienza. Questo dato assume ancora più rilievo se si analizza l'aumentata
complessità e frammentazione della classe nelle attuali società avanzate dove
il vecchio blocco sociale, operai e contadini, è stato sostituito da una
molteplicità di figure sociali e lavorative che pure non perdono la loro
caratteristica di fondo dipendente e subalterna.
Ad una maggiore
differenziazione sociale deve corrispondere una maggiore capacità di
astrazione, per trovare i nessi unitari nella frammentazione sociale, ed una
maggiore, più forte capacità di organizzazionesoggettiva per fornire la base
materiale indipendente per la crescita della coscienza di classe. Non possiamo
dare per scontato nessun "orizzonte" comunista e nessuna evoluzione
"naturale" se non si dà il giusto peso al ruolo dell'organizzazione,
e dunque del partito, nella ricostruzione di una coscienza politica della
classe "qui ed ora"; così come oggi materialmente si manifesta in
relazione al livello di sviluppo generale, alle "nuove"
contraddizioni ed alla dimensione nazionale e sovranazionale.
3) Classe, Blocco
sociale e la necessità dell’Inchiesta.
Il confronto che
stiamo proponendo, ovviamente, non ha solo un obiettivo teorico; se infatti
parliamo di “funzione di massa”, di organizzazione della rappresentanza
politica ma anche di quella sindacale/sociale, dobbiamo anche individuare
i settori di classe e quelli più genericamente sociali a cui è possibile fare
riferimento per tali progetti. Non si tratta di fare l’elenco ma di analizzare
le condizioni generali di questi settori e poi cominciare a capire come operare
verso l’organizzazione di questi ambiti partendo, per quanto ci riguarda,
dall’approccio definito nella parte precedente nel rapporto tra organizzazione
e coscienza.
Nel porci questi
obiettivi dobbiamo partire da alcune condizioni che oggi condizionano l’insieme
dei nostri “interlocutori”, il primo dei quali è indubbiamente la complessità
dei centri imperialisti in cui viviamo ed in cui i processi di riorganizzazione
sono a tutti i livelli incessanti. Questa complessità non è un fatto nuovo ma
procede da decenni, dati processi produttivi e sociali sempre più complessi.
Dall’alleanza operai-contadini, così come è stata concepita fino agli anni ’60,
si è giunti alla internazionalizzazione della produzione ed alla
terziarizzazione dell’apparato produttivo. Questa complessità delle società
capitaliste entra dentro le relazioni sociali e di lavoro e le rende sempre più
frammentate, precarie e subalterne e dunque il problema si pone proprio a
partire dai posti di lavoro. L’altra condizione di cui tenere conto è che tale
frammentazione porta alla subalternità che non ha solo un aspetto materiale, di
ricatto, ma anche ideologico in quanto l’assetto di potere attuale usa in modo
scientifico gli strumenti di informazione e formazione a propria disposizione
per condizionare non solo gli atti ma anche il pensiero dei propri potenziali
antagonisti.
In questo senso non è
sufficiente fare “l’elenco” di massima dei settori di riferimento ma è
necessario un lavoro di indagine e di analisi per cogliere condizioni concrete,
contraddizioni e visioni del mondo, per capire poi come procedere
nell’organizzazione concreta dei settori e del blocco sociale. Comunque è
necessario definire gli ambiti a cui ci rivolgiamo e su questi fare un
confronto su come sia possibile avvicinarli a ipotesi politiche ed
organizzative alternative all’ideologia dominante.
La cornice dentro cui
svolgere questa funzione, intesa soprattutto come costruzione di movimento
politico che mira a rappresentare una parte della società, è la lotta contro
l’Unione Europea nei termini in cui la stiamo conducendo assieme ad altre
strutture e militanti con la Piattaforma Sociale Eurostop; essa ha ora la forma
del fronte politico-sociale che probabilmente è la più realistica per condurre
in questa fase una battaglia dove il discrimine della rottura dell’Unione
Europea produce a sua volta una rottura, salutare, in una sinistra abituata a
viaggiare nelle ambiguità.
Ma sono fondanti per
una simile prospettiva i processi di organizzazione dei settori sociali che
vengono penalizzati dallo sviluppo attuale impresso dalla UE. Rimane al centro
il mondo del lavoro nelle sue molteplici sfaccettature, dal lavoro stabile a
quello precarizzato in mille modi. Le fabbriche del nostro paese nelle loro
diverse dimensioni, sebbene non abbiano la funzione politica dei decenni
passati, sono un riferimento importante in quanto l’Italia è ancora il secondo
paese manifatturiero in Europa. Come sempre più peso assume la forza lavoro
nella logistica, nella circolazione e nella commercializzazione delle merci in
quanto è questo il settore su cui il capitale nei paesi imperialisti può
realizzare i profitti. Come pure la comunicazione ha i suoi “operai fordisti”
nei call center messi in produzione spesso in condizioni di schiavismo. Non
possiamo nemmeno dimenticare l’esercito industriale di riserva che riguarda i
giovani, il sud ed infine gli immigrati i quali svolgono un ruolo produttivo e
ideologico che è oggi un vero e proprio campo di battaglia strategico tra due
contrastanti interessi di classe e tra due diverse concezioni delle relazioni
sociali.
In questo accentuato
sfruttamento del lavoro troviamo appieno non solo il lavoro manuale ma anche
quello intellettuale, anch’esso oggi sussunto alle necessità di profitto; le
qualifiche superiori vengono anch’esse rese subalterne e senza una vera
professionalità che viene assunta invece dal sistema produttivo nel suo
complesso. La ricerca scientifica ad esempio viene parcellizzata e ridotta agli
interessi privati, gestiti dalle grandi società, spesso multinazionali, penalizzando
professionalità che invece ci dicono tutti i giorni essere fondamentali per il
sistema Italia. In questo tritacarne lavorativo rientra in pieno la
questione dei giovani e delle loro prospettive sempre più scarse; non è un caso
che venga sottaciuto dai mezzi di comunicazione di massa che l’emigrazione,
soprattutto giovanile, nel nostro paese ha raggiunto ormai i cinque milioni di
persone.
La sempre maggiore
importanza che il fattore “conoscenza” assume a partire dagli anni ’80 porta a
un’espansione globale senza precedenti che attraversa cultura, geografia e
classi, estendendo il dominio sociale oltre la sfera della produzione. Di
fronte a simili sconvolgimenti, tutte le teorie economiche, da quelle
classiche, alle neoclassiche e alle keynesiane non si adattano alle dinamiche
dello sviluppo nella produzione delle conoscenze.
Ragionando da una
prospettiva marxiana, il lavoro è sempre lavoro astratto, determinante del
valore della merce, ma sempre indistinto e indifferenziato. Da questo punto di
vista la conoscenza è classificabile come lavoro complesso o, nelle parole di
Marx, come lavoro semplice potenziato che si include al processo di
produzione con un elevato grado di produttività e dunque di competitività.
È vero, c’è il
rischio che perfino nella sinistra di classe si cominci a parlare di
post-capitalismo, sostanzialmente rinunciando al ruolo di forza rivoluzionaria
credendo che la società della conoscenza e della comunicazione deviante – allo
stesso modo di ciò che alcuni sostenevano con la società del Welfare State –
sia di per sé stessa già una forma di superamento del capitalismo e della
logica del profitto. Dobbiamo pertanto ribadire che la terza rivoluzione
industriale si mantiene e anzi è interna e necessaria al modo di produzione
capitalistico; la società neoliberista della conoscenza è, in poche parole, una
società peculiarmente capitalistica che si caratterizza per aver sottomesso
l’attività spirituale dell’uomo alla relazione mercantile. La produzione di
conoscenza risulta così essere nient’altro che produzione di merce; la
conoscenza diventa valore-lavoro al pari dell’applicazione di energia umana
fisica. Nei tempi della fallace teorizzazione della “società liquida”,
particolarmente importante diventa studiare la reale composizione e articolazione
della classe e della massa che deve porsi il ruolo storico di prendere il
potere. La domanda è con quali classi e frazioni di classi intendiamo costruire
il blocco sociale antagonista. L’epoca della seconda rivoluzione industriale è
finita e bisogna rivedere la concezione di produzione; detto ciò, la
fase post-fordista non elimina certamente il conflitto capitale-lavoro, ma anzi
lo riconfigura in una forma inedita che, pur non modificandone la natura,
impone alla forze anticapitaliste internazionali di ripensare le modalità e le
forme di intervento nella nuova classe.
Da tempo come Rete
dei Comunisti stiamo sviluppando anche un’analisi delle aree metropolitane, che
sono destinate sempre più a svolgere una funzione economica importante sia come
riserva di caccia delle privatizzazioni e dei tagli sociali a sostegno delle
politiche europee di bilancio, sia come “magazzino di forza lavoro” messa a
disposizione del capitale privato nazionale e multinazionale. Le aree
metropolitane del paese sono sempre più i punti dove quantità e qualità delle
contraddizioni, dal lavoro alla questioni dei servizi sociali fino a quelle
ambientali, si sommano e spingono verso il conflitto sociale. Questa condizione
strutturale ora si sta manifestando anche sul piano politico istituzionale e
non è certo un caso che le due aree metropolitane maggiori nel paese e con le
maggiori contraddizioni, Roma e Napoli, si stiano orientando per le prossime
elezioni comunali a dare rappresentanza a forze, quali De Magistris e M5S, che
sono fuori e contro il PD, forza politica che, abbandonata ormai la “veste”
democratica, si sta rapidamente evolvendo verso una funzione sempre più
reazionaria. Potremmo continuare delineando in modo più specifico i caratteri
dei diversi settori sociali che potenzialmente possono esprimere interessi ed
ideologie antagoniste, ma questo lavoro sarebbe comunque insufficiente in
quanto è necessario indagare statisticamente sulla condizione oggettiva della
classe nel suo complesso e dei suoi potenziali alleati ma anche sulla
percezione soggettiva che questa ha di se stessa, della propria condizione
collettiva o dei propri interessi specifici, individuali o corporativi.
Questo lavoro non può
che essere un lavoro collettivo di inchiesta di classe, che non è un fatto
sociologico ma, nella misura in cui si indaga anche sui cambiamenti d’identità
ed ideologia, permette di avere una visione più esatta del contesto in cui si
deve operare. Per questo la Rete dei Comunisti è oggi disponibile ed intende
partecipare alla costruzione di un movimento politico per l’inchiesta che serva
da orientamento nel lavoro per tutte quelle forze che vogliono resistere al
disarmo e rilanciare il conflitto politico e sociale in modo organizzato nei
termini fin qui detti.
Maggio 2016
Rete dei Comunisti
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