09.09.2019
Terza
puntata de Sul fallimento del
rafforzamento del Centro clandestino del (n)PCI
Prima
di tutto una correzione rispetto alla seconda puntata (Ancora sul fallimento…) pubblicata su uniforcom.blogspot.com e
diffusa anche a vari compagni della carovana del (n)PCI.
All’inizio
affermiamo: “Storicamente vi sono state minoranze che sono uscite dal partito
di cui facevano parte (es. i marxisti-leninisti dal PCI). In queste battaglie a
volte la sinistra ha vinto (es. Mao Tse-tung nel corso della guerra contro il
Giappone), altre volte ha perso (es. la sinistra nel PCI, e nel PCUS, ecc.).”
Per chiarezza: Mao Tse-tung e la sinistra del PCI (esclusi quei compagni che
poi formarono gli gruppi M-L) e del PCUS non sono tra quelle forze che sono
uscite dai rispettivi partiti. Qui, rispetto al vecchio PCI ci si riferiva alla
sinistra rappresentata da Secchia e altri. Con questo esempio così corretto
vogliamo attirare l’attenzione anche su un aspetto della lotta tra le due linee
susseguitasi nel movimento comunista: uscire o non uscire dal partito di cui si
è membri non è automaticamente, in quanto tale, una operazione sbagliata:
dipende dal contesto storico e dalle condizioni concrete. Non tutti quelli che
lasciano il partito sono da considerare dei disertori: i marxisti-leninisti e i
m-l-maoisti che uscirono dal PCI, i “massimalisti” come Gramsci che fondarono
il PCI “disertando dal PSI. D’altra parte è altrettanto vero che non sempre la
mossa giusta da fare è quella di lasciare il partito. Mao Tse-tung, pur finendo
in carcere, rimase nel partito e, quando le condizioni lo permisero,
dall’interno, lanciò la parola d’ordine “fuoco sul quartier generale”. Quindi
il rimanere dentro al partito non significa nemmeno e automaticamente
sottostare alla disciplina qualunque cosa accada. Come vedete, è solo l’analisi
concreta della situazione concreta che permette di ricavare la linea giusta ed
è solo il bilancio dell’esperienza che permette decidere se procedere sulla
stessa linea o se correggere il tiro.
Il
bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto? Il bicchiere è da riempire!
Riportiamo
uno dei documenti prodotto da Dario, dimessosi dal (n)PCI nel 2009 nel corso della
terza Lotta Ideologica Attiva (quella derubricata!) prodotto verso la fine di
febbraio ’09 al quale non è seguita nessuna risposta. Anche questo metodo proprio
soprattutto di Ulisse, ma anche di altri dirigenti CC del (n)PCI, di non mettere
mai per iscritto o di non fornire addirittura mai in nessuna forma risposte alle
obiezioni sollevate è un metodo meschino, da vigliacchi, non da comunisti!
Questo
documento illustra bene il nostro punto di vista a proposito di alcuni temi
della L.I.A.: il ruolo della critica, il rapporto quantità/qualità e “i
compagni che scoppiano”. Con questo intervento intendiamo mettere in luce non tanto
un dettaglio della nostra esperienza, quanto piuttosto un’errata concezione dei
metodi di direzione e della formazione dei quadri propri del Centro del (n)PCI che
ricadono anche sulla direzione del Partito dei CARC; in particolare si evidenzia
il metodo dello scaricare sui diretti le responsabilità dei dirigenti. Queste concezioni
sono emerse chiaramente e anche dai videomessaggi di Angelo D’Arcangeli e nel documento
della compagna Chiara De Marchis, a riprova del fatto che spesso il lupo perde il
pelo ma non il vizio.
Partiamo
dalla lettera di Giacomo (un membro del Partito) pubblicata su La Voce n. 31 a pag. 60.
“Cari compagni
della Redazione,
vi scrivo per chiedere
il vostro parere sulla questione del compagni che “scoppiano”. Ci sono
effettivamente compagni che si trovano in difficoltà ad assumere i compiti che
la situazione pone, a trasformarsi per elevare la qualità del proprio lavoro e
adempiere ai compiti posti dalla linea della costruzione del Governo di Blocco
Popolare, della creazione delle tre condizioni necessarie perché le
organizzazioni operaie e popolari formino un governo d’emergenza.
Questi compagni
arrancano e affermano che questo loro malessere e momento di difficoltà (il
fatto che “scoppiano”) è frutto principalmente delle “troppe cose da fare”. A
mio avviso però le cose non stanno così. Il nocciolo della questione è
l’adozione del Nuovo Metodo di Lavoro frutto della campagna per una superiore
assimilazione del Materialismo Dialettico: imparare a fare analisi concreta
della situazione concreta, imparare a tradurre la linea generale del Partito
nella situazione particolare in cui si opera (unità generale/particolare) e nel
concreto di luogo e di tempo, fare piani di lavoro che tengano conto delle
proprie forze (contrastando così l’idealismo) e che poggino sul principio “ogni
cosa ne contiene una seconda, una terza e a volte una quarta: suoniamo il
pianoforte con dieci dita!”, far seguire all’azione il bilancio dell’esperienza
e su questa base fare la CAT
[Critica, Autocritica, Trasformazione, ndr].
Alcuni compagni restano ancora ancorati al vecchio metodo che abbiamo cercato
di superare con la campagna di assimilazione del Materialismo Dialettico [VO 28
pag. 17]. Non a caso di regola si tratta di compagni che hanno incontrato
particolare difficoltà nel corso di questa campagna.
In altre parole, il
problema principale che in questa fase si trova alla base del fatto che alcuni
compagni “scoppiano” non sono le “troppe cose da fare”, ma la concezione con
cui si fanno le cose: il problema è ideologico. Per essere più preciso, a mio
avviso il problema poggia sulla contraddizione Teoria/Pratica: non tradurre la
teoria nella pratica, non applicare la teoria nella pratica.
La soluzione
decisiva non sta quindi nel ridurre gli impegni ai compagni che “scoppiano” e
dare loro meno cose da fare. Il problema di fondo, di tipo ideologico, infatti
resta e prima o poi tornerà a farsi vivo, magari ad un livello superiore
(quello che non viene trattato nel modo opportuno e per tempo si sviluppa
negativamente: niente resta fermo!). Pensare di risolvere il problema
“riducendo gli impegni”, significa voler affrontare un problema ideologico con
una misura organizzativa. Questa è una linea sbagliata e arretrata, frutto di
un’errata e arretrata comprensione della questione. La CAT , finalizzata all’adozione
del Nuovo Metodo, è la strada per “prendere per le corna” il problema dei
compagni che “scoppiano”.
A mio avviso, se
mettiamo in relazione con la linea della costruzione del GBP l’errata posizione
“il problema dei compagni che ‘scoppiano’ è frutto delle troppe cose da fare e,
quindi, la soluzione sta nel togliere impegni ai compagni”, arriviamo alla
negazione della linea della costruzione del GBP: “teoricamente la linea è
giusta, ma praticamente ci sono troppe cose da fare e noi non ce la facciamo”.
Bisogna sempre mettere in relazione una posizione con i compiti che la
situazione pone, per capire cosa realmente significa, vedere “dove va a
parare”. Come emerge, la linea arretrata sui compagni che “scoppiano” porta
alla negazione della linea del GBP: in altre parole, questa posizione porta a
“conservarsi” come FSRS [forza soggettiva della rivoluzione socialista], anziché trasformarsi in comunisti, in agenti
trasformatori della realtà assumendosi i compiti che la situazione pone. Voi
cosa ne pensate su tutta questa questione?
Saluti comunisti
Giacomo di Livorno”
Risposta
di Dario alla Lettera alla redazione sui compagni che scoppiano, ovvero sul
rapporto quantità/qualità [proposta come risposta a Giacomo e da pubblicare,
insieme alla lettera di Giacomo, sulla pagina Dibattito Franco e Aperto del sito del (n)PCI, ma mai pubblicata!]
“Recentemente
nel Partito è stato avviato un interessante dibattito a proposito dei “compagni
che scoppiano”. Su La Voce
n. 31 è stata pubblicata una lettera del compagno Giacomo su questo tema. Entro
anche io nel merito.
La
“scoppiatura” non è un problema recente, ma finalmente lo affrontiamo con più
decisione, a partire dalla testa.
Per
pulire il campo di fattori che ci porterebbero fuori strada, preciso subito che
il genere di compagni di cui parlo (e a cui è utile riferirsi) sono i compagni
che non si risparmiano, che sono cioè costantemente attivi e impegnati a dare
il meglio nel loro lavoro. Per quelli che non lavorano, il problema è d’altro
tipo: non di rivendicazionismo si tratta, ma di lassismo. E come tale va
trattato.
Scoppiare
significa giungere ad una situazione in cui cominci a fare male, con
difficoltà, senza risultati significativi, a un certo punto anche mal
volentieri, anche quello che fino a quel momento riuscivi a fare ad un livello
significativamente migliore. Sei frustrato da questo stato di cose e non riesci
a saltarci fuori perché è come un cane che si morde la coda: peggio stai peggio
fai; peggio fai peggio stai. In queste condizioni, quando non viene affrontato
per tempo il problema, avviene un salto qualitativo… all’indietro.
Perché
alcuni compagni di tanto in tanto “scoppiano” o dicono che stanno per scoppiare
oppure dicono che alcuni loro diretti sono scoppiati o stanno per scoppiare?
Nello
sviluppo del dibattito sono emerse due posizioni contrapposte. Una posizione
sostiene che la causa di queste difficoltà (la scoppiatura) è principalmente
nella quantità di cose da fare: che vengono indicate troppe cose da fare, che
il Partito cerca di fare troppe cose contemporaneamente, che i piani contengono
una quantità di cose insostenibile. Questa posizione argomenta la sua tesi
sostenendo che cercare di fare molte cose nello stesso tempo vuol dire fare
ognuna di esse peggio di come la si farebbe se si dedicassero ad essa più energie
e risorse che invece (per stare ai piani) devono essere dedicate alle altre
cose.
Un’altra
posizione contrappone alla conclusione della prima posizione che la causa non è
nella quantità di cose da fare ma nel metodo di lavoro. La seconda posizione sostiene
che i compagni della prima posizione hanno una concezione sbagliata del metodo
di lavoro perché non hanno compreso il giusto legame (dialettico) tra Teoria e
Pratica; sostengono, per usare le parole del compagno Giacomo, che “il nocciolo
della questione è l’adozione del Nuovo Metodo di Lavoro frutto della campagna
per una superiore assimilazione del Materialismo Dialettico”.
Giacomo
è un compagno della seconda posizione. Il compagno Giacomo nella sua lettera
afferma che l’errore dei compagni della prima posizione è un problema di
comprensione del giusto metodo di lavoro che deriva da una errata concezione
del rapporto tra Teoria e Pratica. Però non spiega (cioè non illustra) come con
questo Nuovo Metodo di Lavoro (quindi con la sua giusta concezione) si risolve
il problema (reale) dei compagni che scoppiano.
La
contrapposizione che i compagni della seconda posizione hanno posto è una
forzatura. Cioè alla conclusione che la causa della “scoppiatura” c’è un
problema di quantità di cose da fare (prima posizione) è ovvio che ne deriva
che esiste un problema di metodo (seconda posizione): è proprio quello che
sostengono i compagni della prima posizione! Questi ultimi indicano però anche
dov’è che il metodo è applicato male: nella pianificazione.
Quando
c’è un problema di metodo vuol dire che c’è un problema di concezione del
metodo: cioè o il metodo definito è sbagliato oppure esso è giusto ma non è
stato compreso, assimilato abbastanza e quindi i compagni non lo applicano
adeguatamente: il metodo è giusto ma la sua applicazione no. La teoria è giusta
ma la pratica no: non è conseguente alla teoria.
Un
metodo di lavoro deve comprendere per forza la valutazione delle forze e delle
risorse. Infatti lo stesso compagno Giacomo dice “fare piani di lavoro che
tengano conto delle proprie forze (contrastando così l’idealismo)”. Verissimo!
I compagni della prima posizione hanno infatti posto l’accento sui limiti della
nostra (della direzione del Partito e, a cascata, degli altri livelli del
Partito) capacità di fare piani che tengano conto delle nostre forze.
Nell’articolo Il piano di azione del (n)PCI in questa fase su La Voce n. 31 si mette
giustamente in rilievo l’importanza dei comunisti di 1. fare piani, 2. fare
piani giusti, 3. attuare i piani fatti (vedi a pag. 5).
I
compagni della prima posizione indicano anche qual è la concezione sbagliata da
cui deriva un’applicazione sbagliata del metodo: indicano l’idealismo come
deviazione. È giusto. Bisogna combattere questa tendenza perché il nocciolo
della questione è “fare piani di lavoro basati su una giusta analisi concreta
della situazione concreta (esterno) e delle nostre forze (interno), applicando
con il Materialismo Dialettico il giusto rapporto tra Teoria e Pratica”.
I
compagni della seconda posizione hanno posto il problema in termini generali,
per voce del compagno Giacomo sostengono che in generale il nostro metodo di
lavoro consiste in:
fare
analisi concreta della situazione concreta;
tradurre
la linea generale del Partito nella situazione particolare in cui si opera
(unità generale/particolare) e nel concreto di luogo e di tempo;
fare
piani di lavoro che tengano conto delle proprie forze (contrastando così
l’idealismo) e che poggino sul principio “ogni cosa ne contiene una seconda,
una terza e a volte una quarta: suoniamo il pianoforte con dieci dita!”;
far
seguire all’azione il bilancio dell’esperienza e su questa base fare la CAT.
Questi
4 punti sintetizzano bene il metodo di lavoro generale che dobbiamo applicare.
Nessuno per ora ha messo in discussione la loro validità. Quindi in teoria
siamo tutti d’accordo! Riusciamo ad adottare questo metodo? Riusciamo cioè a
metterlo in pratica? Se non riusciamo a metterlo in pratica, non significa che
il metodo è sbagliato. Quante volte nella vita si sostiene (a ragione) che
bisognerebbe fare così, ma prima di riuscirci passa molto tempo e molti
tentativi e poi a volte nemmeno ci si riesce?
Dobbiamo
fare l’analisi concreta della situazione concreta e distinguere i casi in cui
il metodo è stato applicato e che quindi ha portato ai risultati voluti, dai
casi in cui questo non è avvenuto. Se anche i casi riusciti sono pochi, non
importa: non è in discussione il metodo generale. Quello che dobbiamo fare è
andare a vedere dove abbiamo successo con la sua applicazione e dove invece non
abbiamo successo nonostante la sua applicazione. Così ricaveremo dal positivo
gli strumenti per combattere il negativo.
Noi
comunisti dobbiamo fare in modo che il nostro Partito diventi effettivamente lo
Stato Maggiore della classe operaia che lotta per il potere. Per raggiungere
questo obiettivo le cose che dobbiamo arrivare a fare sono molte di più di
quelle che oggi facciamo. Dobbiamo reclutare di più, dobbiamo fare più
formazione, dobbiamo raccogliere più soldi, dobbiamo diffondere più materiale
di propaganda, fare più irruzioni, dare più battaglie, sviluppare più campagne,
ecc. ecc.
Ma
il nostro problema non è fare un numero elevato di cose: è soprattutto fare
meglio! Cioè: per ricavare il massimo da quello che facciamo dobbiamo farlo
bene. Per farlo bene dobbiamo, in ogni attività, applicare ciascuno dei 4 punti
indicati dal nostro metodo di lavoro. Infatti i 4 punti sono legati tra loro:
senza un’analisi concreta della situazione concreta non possiamo tradurre la
linea generale del Partito in linee particolari, senza analisi concreta della
situazione concreta e senza definire una linea particolare non possiamo fare
piani di lavoro adeguati alle nostre forze, senza analisi, senza linea e senza
piano non è possibile fare il bilancio e nel migliore dei casi esso si traduce
in un elenco di cose fatte senza un legame tra loro.
Le
conclusioni che si dovrebbero trarre dalla seconda posizione sono che qualsiasi
piano è realizzabile se la sua applicazione segue il Nuovo Metodo di Lavoro
(NML). Invece il NML comprende la pianificazione! Ecco perché la seconda
posizione è una posizione idealista: prescinde dalla pianificazione, la
pianificazione è proprio la traduzione in pratica (quello che ci mettiamo a
fare) della teoria (quello che bisogna fare).
Se
nella pianificazione non teniamo conto del rapporto dialettico tra quantità e
qualità, faremo dei piani campati in aria. In genere, siccome siamo ottimisti,
li facciamo esagerati.
Se
infatti andiamo a prendere qualche piano ben riuscito (qualcuno c’è) vedremo
subito che esso ha il pregio di non estendersi troppo oltre quello che
l’esperienza ci ha insegnato a fare. Però un po’ oltre ci va, perché punta allo
sviluppo.
Anche
i compagni della seconda posizione non hanno assimilato bene il NML, perché
altrimenti non opporrebbero alla preoccupazione delle troppe cose da fare
l’obiezione che … basta sapere come farle! È tanto ovvio quanto inutile. Se
vari compagni che non si risparmiano dicono che non riescono a fare tutto e
bene, vuol dire si sono proposti o abbiamo loro proposto un obiettivo che non
possono ancora raggiungere.
Quindi,
da dirigenti, dobbiamo chiederci prima di tutto: abbiamo noi applicato il NML
nel fare in nostri piani nei quali sono coinvolti i nostri diretti? Abbiamo
tenuto conto di tutti e 4 gli elementi del NML? Questo è partire dalla testa e
non scaricare sui diretti i nostri limiti.
Ora,
è evidente che l’aspetto quantitativo ha il suo peso. Quantità e qualità sono
inseparabili, tra loro esiste un rapporto dialettico. Ad un determinato accumulo
quantitativo corrisponde un salto qualitativo da cui è possibile un nuovo
accumulo quantitativo di natura superiore. Ma l’accumulo quantitativo non è una
cosa assoluta: solo ad una determinata natura corrisponde un processo di
accumulo dello stesso livello. Per capirci faccio un esempio.
In
una campagna di reclutamento mi propongo di curare i rapporti con una serie di
contatti. Curare questi rapporti vuol dire fare incontri e riunioni,
conoscerli, dare loro indicazioni e seguirne l’esecuzione, programmare e fare
formazione, ecc. A svolgere questo compito ci sono solo io e posso avvalermi di
collaboratori ancora molto inesperti. Quanti contatti posso curare bene? 20,
30, 40? Se di contatti in cantiere il Partito ne ha 40, devo decidere che
alcuni di questi non li devo curare, almeno non certo allo stesso livello di
quanto curerei solo 20 di essi. Farò una selezione tra i 40 e deciderò di
includere nella campagna di reclutamento solo 20 di essi. Gli altri saranno
oggetto di una prossima campagna (che non vuol dire che nel frattempo vengono
abbandonati). Il perché è semplice: il livello qualitativo che il Partito ha
raggiunto permette di curare bene nell’ambito di una campagna e fino al
reclutamento solo 20 compagni alla volta. Dipende dalle mie capacità, dalle
condizioni organizzative, dal livello dei miei collaboratori, dal livello dei
contatti e da una serie di altri fattori interni ed esterni al Partito. Quando
avrò concluso bene la campagna avendone reclutati 17 o 18 (qualche limite
emergerà sempre) allora il Partito si sarà rafforzato. Io e chi ha collaborato
avremo imparato diverse cose dall’esperienza e alla prossima campagna il
livello del Partito sarà tale da poter trattare 30 o 40 contatti in una sola
campagna. Cioè il nuovo livello qualitativo raggiunto con il salto compiuto a
conclusione della prima campagna, permetterà un accumulo quantitativo di
portata maggiore (cioè un tipo di attività di qualità superiore). Indubbiamente
sarà migliore anche la stessa natura del nuovo processo di reclutamento. Cioè i
reclutati nella seconda campagna avranno fatto un’esperienza di formazione
superiore a quella fatta dai reclutati della prima campagna. Altrettanto vale
per noi reclutatori.
Sarebbe
stato invece idealista fare un piano della campagna di reclutamento che
prevedeva la cura al massimo livello di tutti i 40 contatti.
Torniamo
ai compagni che scoppiano. I compagni che scoppiano sono coloro ai quali
chiediamo costantemente di reclutare 40 contatti in una campagna. Quando
provano a reclutarne 40 fanno inchieste e analisi approssimative, incontri e
riunioni preparate e fatte male, formano in modo superficiale e non arrivano
nemmeno a fare il bilancio della campagna. A lungo andare, se le nostre (della
direzione) indicazioni e richieste continuano su questa onda, il morale di
questi compagni crolla. È la loro fiducia nel Partito che lo fa crollare, non
il contrario (come a volte affermiamo). Perché l’ultima cosa sui cui questi
compagni cominciano ad avere dei dubbi, proprio perché hanno fiducia nel
Partito, è che sia il Partito a non applicare bene un buon metodo di lavoro.
Per
capire bene come ci muoviamo dobbiamo misurare realisticamente, senza
concederci scusanti, il risultato dei nostri lavori. Un compagno generoso cerca
sempre di fare il massimo e di farlo al meglio. È naturale ed è un segno
positivo che si senta toccato dagli insuccessi del suo lavoro. Solo colui a cui
importa poco del Partito, resta indifferente di fronte agli insuccessi. Quindi
i compagni che si lamentano che non riescono a fare quello che viene loro
chiesto e quello che loro stessi pensano di poter fare, lanciano un segnale
positivo. Dobbiamo ascoltarli perché probabilmente ci indicano che abbiamo
fatto dei piani idealisti. Non dobbiamo essere insofferenti verso le loro
lamentele.
L’insofferenza
di noi dirigenti di fronte alle lamentele di difficoltà e di insoddisfazione
per gli scarsi risultati che alcuni compagni ci presentano, è una forma di
scarica barile. Noi non possiamo negare che reclutiamo ancora poco, che
raccogliamo pochi soldi, che mobilitiamo poco all’esterno del Partito, che non
studiamo abbastanza, ecc. ecc. Noi non siamo ancora riusciti ad applicare e a
fare applicare adeguatamente il NML. I compagni che ci segnalano che i limiti
sono ancora lì, sono i compagni più preziosi, perché ci indicano in che misura
stiamo avanzando nell’applicazione del NML. Non c’è contrapposizione tra chi si
lamenta e chi deve dirigere l’applicazione del NML: spesso sono gli stessi
compagni. Siamo complementari. Invece di dire ai compagni che si lamentano che
“non hanno ancora capito”, prendiamo in mano i loro piani e osserviamo,
facciamoci spiegare come hanno cercato di realizzati. Indichiamo quindi loro
come avrebbero potuto fare anche quello che non sono riusciti a fare (e di
questo si dispiacciono). Facciamogli vedere cosa avremmo fatto noi. Questo è
dirigere! Questa è direzione di dettaglio! Così verifichiamo anche noi se
abbiamo capito bene come si applica il Nuovo Metodo di Lavoro.
In
sintesi i compagni della prima posizione segnalano proprio che è dalla testa
che applichiamo male il NML. E invece di essere generici nel lamentarsi che
stanno per scoppiare, indicano proprio dov’è che sbagliamo: non genericamente
nel NML, non genericamente nella concezione del rapporto tra Teoria e Pratica,
ma esattamente nel rapporto tra quantità e qualità: dicono che dobbiamo puntare
a fare bene, non a fare tanto! E non è quello che anche il Centro ha sempre
sostenuto?
I
compagni della prima posizione quindi, in buona sostanza, muovono una critica.
A questa critica è stato risposto spesso con insofferenza.
Perché
a volte siamo insofferenti verso le critiche? Perché siamo noi stessi ad essere
insicuri, a non avere abbastanza fiducia nel Partito. Per questo la critica ci
mette in agitazione. Qui non c’entra nulla il discorso sulla libertà di critica
che Lenin fa sul Che fare? Lì Lenin si riferisce ad una contrapposizione tra
linee diverse dove i sostenitori di una linea (di destra) affermavano in sostanza
che ogni posizione aveva pari dignità. Qui stiamo trattando del caso in cui
tutti vogliamo perseguire una linea giusta, ma alcuni segnalano che ci sono
difficoltà nell’applicarla e pretendono, giustamente, che il problema sia
affrontato con decisione, non bypassato dicendo loro di studiare il Nuovo
Metodo di Lavoro. Nessuno sostiene pari dignità per tutte le concezioni:
bisogna avere una concezione giusta e lottare per farla valere.
Un
tempo partecipai ad una discussione che verteva sul come dobbiamo considerare
la nostra situazione. I termini della discussione si sintetizzavano in “il
bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto?” La conclusione di allora fu che i
pessimisti vedono il bicchiere mezzo vuoto e gli ottimisti lo vedono mezzo
pieno. L’ho esposto banalizzando, ma il senso concreto era che per lavorare
meglio è necessaria la fiducia nelle nostre forze e che quindi è meglio vedere
il bicchiere mezzo pieno. Giusto. Oggi ho fatto (e penso che dobbiamo fare) un
passo avanti: il nostro problema non è come vediamo il bicchiere, il nostro
problema è riempirlo!
Oggi
noi abbiamo bisogno della critica (legata ai compiti della fase), abbiamo
bisogno di mettere il dito nella piaga, abbiamo bisogno di tutti quei compagni
che, proprio perché vogliono contribuire a far sì che il Partito superi i
propri limiti, proprio perché li sentono anche come limiti loro, non sanno
essere indifferenti e scalpitano. In particolare abbiamo bisogno di quei
compagni che portano critiche, segnalano limiti e errori perché si impegnano e
toccano con mano la materia del nostro lavoro.
Compagni!
Cos’è che demoralizza di più? Vedere che abbiamo dei limiti e constatare che
facciamo fatica a superarli (ma un po’ alla volta ci riusciremo) o dire che
abbiamo già definito e compreso quasi tutto e poi non avere spiegazioni
plausibili per gli insuccessi che comunque arrivano?
Nel
corso del dibattito che si sta svolgendo, ho spesso sentito dire (come si dice
anche nella nota 5 del numero 31 della rivista La Voce ) che ci sono compagni
che si lamentano, ma che non fanno nulla per fare andare meglio le cose, (cioè
che sono rivendicativi), che scaricano sui diretti la responsabilità dei limiti
e degli errori perché non sono disposti a trattarli loro, per come si
manifestano in loro stessi. Non credo che il Partito abbia raccolto dei
compagni di questo tipo! Potrei sbagliarmi, forse qualcuno c’è. Nel caso
bisogna indicare chiaramente e concretamente dove questi compagni non fanno e
invece dovrebbero fare (sono incaricati di fare, si sono assunti l’impegno di
fare), capire perché non sono dediti alla causa quanto le loro risorse
permetterebbero e lavorare per formarli e per farli avanzare. Il modo peggiore
per trattare questi compagni è restare sul generico, non dirigere nel
dettaglio.
Conosco
invece molti dei compagni che si lamentano che vorrebbero fare meglio, che
vorrebbero che il Partito facesse meglio e non sanno darsi pace per questo. Io
sono tra questi. La prima cosa da fare verso questi compagni è analizzare
concretamente le loro critiche (analisi concreta della situazione concreta),
vedere dove sono fondate e dove non lo sono,
ascoltare le loro proposte (perché di proposte ne fanno, eccome!),
trovare insieme a loro, con il DFA, la soluzione ai problemi concreti che
pongono. Invece, rispondere loro che non hanno assimilato ancora bene il nostro
Nuovo Metodo di Lavoro senza fare nel dettaglio e nel concreto l’analisi delle
loro critiche, è come scaricare su di loro la responsabilità di non aver ancora
formato il Partito ad adottarlo.
Il
Partito in questa fase è impegnato nella mobilitazione per creare le condizioni
affinché le organizzazioni operaie e le organizzazioni popolari instaurino un
governo di emergenza, un governo di Blocco Popolare.
È
indubbio che questa situazione presenterà mille occasioni di lavoro, mille
ambiti in cui intervenire. Le forze del Partito però sono ancora limitate e per
questa ragione il Centro del Partito ha individuato il metodo delle leve come
il metodo più adatto ad affrontare la situazione e anche per rafforzare lo
stesso Partito.
L’adozione
di questo metodo richiede maestria. Pensare di applicarlo bene senza curarsi di
selezionare accuratamente cosa, dove e come fare; cosa, dove e come scartare, è
idealismo.
Attualmente
il nostro Partito sconta un relativamente lungo periodo di trascuratezza del
lavoro esterno: è dalla mancanza di risultati significativi e di adeguati
bilanci in questo campo che derivano anche i nostri limiti interni. Non
risolveremo i nostri limiti di sviluppo concentrandoci su noi stessi per
assimilare più a fondo il Nuovo Metodo di Lavoro: dobbiamo cominciare ad
applicarlo facendo piani realistici, la cui riuscita infonde entusiasmo e da
cui ricaviamo più insegnamenti di quanti ne ricaviamo dagli insuccessi (che a
volte facciamo fatica ad ammettere).
Per
lo sviluppo dell’influenza del Partito sulla classe operaia, sulle masse e
sulle forze ausiliarie dobbiamo rafforzare l’unità del Partito a partire da una
sana autocritica sui nostri limiti e con l’analisi concreta della situazione
concreta, andarli a stanare soprattutto dove hanno comportato il mancato
sviluppo verso l’esterno.
Anche
se il bicchiere non è ancora pieno… un brindisi alla lotta ideologica come
strumento fondamentale per il rafforzamento del Partito!
Dario”
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