[Tratto dal sito del (nuovo) Partito Comunista Italiano]
Avviso ai naviganti n° 34 del 3 dicembre 2013
A tutti quelli che si dichiarano comunisti e vogliono
instaurare il socialismo nel nostro paese e contribuire così alla seconda
ondata delle rivoluzione proletaria!
In questi giorni individui e gruppi animati dalla sincera volontà di essere
comunisti sono in gran fermento, pullulano riunioni, convegni, iniziative,
dibattiti e congressi per costituire organismi comunisti e per “unire i
comunisti”. Nel giro di poche settimane vi sarà il congresso del PRC (6-8
dicembre 2013), l’assemblea costitutiva di Ross@ (14-15 dicembre 2013), il
congresso del PCL (3-6 gennaio 2014), il congresso di CSP-PC (17-19 gennaio
2014).
A tutti quelli che si dichiarano comunisti dovrebbe essere chiaro che dalla
crisi attuale usciremo solo instaurando il socialismo: cioè imponendo un
sistema di potere che ha come suoi organi locali le organizzazioni operaie e
popolari (OO e OP) e sostituendo all’azienda capitalista che produce merci per
fare profitti l’agenzia pubblica che produce beni e servizi per soddisfare i
bisogni individuali e collettivi della popolazione, all’anarchia di interessi
la pianificazione della produzione e delle attività, alla concorrenza tra paesi
la collaborazione internazionale con tutti i paesi disposti a collaborare con
noi.
Quello che nel prossimo futuro farà la differenza è il consolidamento e il
rafforzamento di un partito comunista qualitativamente all’altezza dei suoi
compiti. Non “sponda politica” delle masse popolari nelle istituzioni della RP
né principalmente animatore di lotte rivendicative (in prima istanza non
importa se più o meno combattive), ma Stato Maggiore che dirige la lotta di
classe come una guerra popolare rivoluzionaria contro la RP e la CI. Solo un
simile partito comunista è in grado di ribaltare la situazione attuale in cui
sono ancora i Marchionne & C. ad avere l’iniziativa in mano, a condurre con
la scienza di cui sono capaci la lotta di classe per prolungare l’esistenza del
loro sistema sociale, mentre le masse popolari e gli operai ancora subiscono la
loro iniziativa. Solo il consolidamento e il rafforzamento di un simile partito
comunista consentirà alla classe operaia e alle masse popolari organizzate di
condurre la lotta di classe con l’iniziativa in mano.
Per questo non basta un partito comunista con la falce e martello né la
semplice unità di quelli che si dichiarano comunisti. Occorre un partito
comunista con caratteristiche ben precise che non si inventano, ma si ricavano dall’esame
delle condizioni, delle forme e dei risultati della lotta di classe in corso e
dall’esperienza della prima ondata della rivoluzione proletaria mondiale
iniziata con la Rivoluzione d’Ottobre e, all’interno di essa, del movimento
comunista italiano, in particolare del vecchio PCI prima e dopo la Resistenza. Occorre
un partito che ha compreso e superato i limiti che hanno impedito al movimento
comunista di instaurare il socialismo nei paesi imperialisti nel corso della
prima ondata della rivoluzione proletaria mondiale, nonostante i miracoli di
eroismo dispiegati dalle larghe masse delle classi sfruttate e dei popoli
oppressi.
Nell’articolo Quale partito
comunista? è esposta la lezione che i fondatori del nuovo Partito comunista
italiano hanno tratto dalla lotta in corso e dall’esperienza del secolo scorso.
Lo abbiamo ripubblicato sul numero 45 di La
Voce del (n)PCI uscito a metà di novembre e ne proponiamo lo studio a tutti
i comunisti decisi a trovare la strada per uscire dal marasma attuale.
L’articolo è stato pubblicato la prima volta quasi 15 anni fa su La Voce n° 1 del marzo 1999. Proprio perché pubblicato ben prima che nel
2007-2008 entrassimo nella fase acuta e terminale della crisi generale del
capitalismo, questo articolo conferma che la concezione comunista del mondo (la
scienza sperimentale della trasformazione della società capitalista nel
comunismo, il marxismo-leninismo-maoismo) permette di capire il corso delle
cose. Auguriamo che questa dimostrazione inciti tutti quelli che si professano
comunisti a studiare la concezione comunista del mondo con energia e ad
assimilarla per usarla come guida della loro attività e che li porti ad
arruolarsi nella GPR che sia pure con forze ancora molto limitate stiamo
conducendo contro la Repubblica Pontificia e la Comunità Internazionale dei
gruppi imperialisti europei, americani e sionisti.
Abbiamo corredato il
vecchio articolo degli indirizzi Internet dove leggere o prendere i testi
citati.
La settima discriminante
Quale partito
comunista?
Un partito che sia all’altezza del
compito che il procedere della seconda crisi generale del capitalismo e la
conseguente situazione rivoluzionaria in sviluppo pongono ad esso e che tenga
pienamente conto dell’esperienza della prima ondata della rivoluzione
proletaria
Una introduzione necessaria
Tra le Forze Soggettive della Rivoluzione Socialista
(FSRS) operanti in Italia questa formula è stata posta al centro del dibattito
sul partito già nel 1995, con l’opuscolo pubblicato dai CARC in occasione del
centenario della morte di F. Engels.(1) Nel dibattito tra le FSRS nessuno ha contestato apertamente e
direttamente questa formulazione. In realtà vi è però una divergenza che pesa
nel lavoro che le FSRS conducono per la ricostruzione del partito comunista e
nelle linee che lo guidano. La divergenza è stata ben espressa nel recente (15
novembre
1998) Coordinamento Nazionale (http://www.laltralombardia.it/public/docs/confed5.html) della CCA
(Confederazione dei Comunisti/e Autorganizzati) da G. Riboldi che ha affermato:
“Noi oggi non siamo in una situazione né rivoluzionaria, né prerivoluzionaria”.
Questa sua affermazione è strettamente connessa al suo ripetuto richiamo,
sempre nello stesso contesto (la relazione che ha presentato al Coordinamento),
alla “stabilità di questo potere politico”, al “programma della stabilità
capitalistica” che sarebbe impersonato dal governo D’Alema, al “processo di
normalizzazione [che] rischia di affermarsi stabilmente in assenza di
opposizione sociale che ne ostacoli la realizzazione”, alla “concertazione
neocorporativa [che] rischia di funzionare regolarmente e di stabilizzarsi
in assenza di soggetti politici e sindacali che rifiutano e combattono
l’accettazione dei parametri economici, politici e istituzionali imposti dagli
accordi di Maastricht”: in sintesi, alla stabilità che secondo GR hanno gli
attuali regimi borghesi e l’assetto delle loro relazioni internazionali,
stabilità che solo la lotta (delle classi o dei soggetti politici e sindacali:
qui la differenza non ha importanza) potrebbe scuotere.
1. PCARC , F.
Engels/10, 100, 1000 CARC per la ricostruzione del partito comunista, 1995,
Edizioni Rapporti Sociali, pagg. 17 e segg. e pagg. 38 e segg.
http://www.carc.it/index.php?option=com_content&view=article&id=865
Il merito della relazione di GR è di aver posto
nettamente e apertamente un’obiezione che in altri progetti, proposte e
relazioni (ad esempio nella relazione presentata allo stesso Coordinamento da
Leonardo Mazzei) è sottintesa o solo accennata di sfuggita. Facciamo quindi
riferimento alla relazione di GR per esaminare anche le obiezioni di altri.
G. Riboldi fa alcune altre affermazioni preziose per
questa analisi. Dice: “L’aspetto principale della fase ... non è solo
la “crisi ideologica del riformismo”,(2) ma [anche] la “crisi economica del capitalismo” e
l’accentuarsi delle contraddizioni dei poli imperialisti”. E ancora: “Sarebbe
un errore credere che la crisi e il progressivo peggioramento delle condizioni
di vita di per sé possono condurre a una mobilitazione rivoluzionaria delle
masse”.
2. Di passaggio
osserviamo che qualificare di ideologica la crisi del riformismo è
sminuire l’importanza politica del fatto. Da quando a metà degli anni
‘70 è iniziata la seconda crisi generale del capitalismo, la borghesia sta
eliminando una a una, pezzo a pezzo tutte le conquiste di civiltà e di
benessere, sta cancellando o svuotando tutti i diritti che le masse popolari
avevano strappato nel periodo precedente. Questa inversione di tendenza è un
fatto pratico, è un processo che avviene nella realtà, non nelle coscienze. Non
è venuta meno la fiducia nel riformismo, non si tratta di “aver cambiato idea”.
Si tratta che la borghesia cancella quel tessuto di civiltà e di diffuso
benessere che le masse avevano costruito e via via esteso (e che i revisionisti
moderni assicuravano che sarebbe stato possibile estendere in continuazione: la
linea delle “riforme di struttura” di Togliatti). Da qui ha origine la crisi
del PCI, dei sindacati di regime e dello stesso regime DC.
Infatti l’egemonia del
PCI sulle masse popolari non era principalmente basata sulle chiacchiere di
Togliatti e di Berlinguer sulle “riforme di struttura” e sul “socialismo sotto
l’ombrello della NATO”, ma sul fatto che sotto la direzione del PCI dal 1945 al
1975 le masse popolari italiane avevano strappato reali riforme. Queste reali
riforme avevano anche dato stabilità al regime DC, perché avevano attenuato
fino a quasi estinguerla la lotta della classe operaia per il potere. A partire
dalla metà degli anni ‘70 la lotta politica in Italia è tra chi vuole eliminare
le riforme e chi le vuole difendere, tra chi le difende a parole e chi le
difende con accanimento, tra chi le difende in maniera inconseguente e chi le
difende in maniera coerente. Classificare la svolta degli anni ‘70 come una
svolta ideologica, è assolutamente sbagliato. Non sono le idee che sono andate
in crisi, ma un regime politico, un corso pratico della società (quello del
capitalismo dal volto umano).
Classificare come ideologica
la crisi del riformismo vuol dire lasciare avvolto nel fumo anche il periodo
precedente: non erano le parole e le idee del PCI sulle riforme ciò che gli ha
permesso di mantenere la direzione del proletariato italiano, ma le effettive
reali conquiste strappate sotto la sua direzione grazie alla forza acquisita
dalle masse popolari nel precedente movimento rivoluzionario e alla forza del
movimento comunista internazionale (a conferma che le riforme non sono il
prodotto di un pensiero riformista, ma il sottoprodotto delle rivoluzioni
mancate). Questo (non la religiosità degli italiani e l’influenza morale del
Vaticano) era anche la base principale su cui fu possibile alla borghesia
instaurare il regime DC (che aveva alla sua testa il Vaticano) e su cui
poggiava la stabilità dello stesso regime.
Va da sé che quelle
riforme erano frutto della lotta delle masse popolari: chi ha l’età necessaria,
si ricorda le lotte, le dimostrazioni, gli scontri, i feriti, i caduti, la
galera, i processi e il resto del corollario da cui nacquero le riforme (altro
che pensiero riformista o piano del capitale per integrare le masse!). Quelle
riforme erano però compatibili con il dominio della borghesia imperialista
perché il capitalismo attraversava un periodo di ripresa dell’accumulazione e
di espansione dell’apparato produttivo, per cui le lotte rivendicative erano
produttive di riforme e conquiste, erano efficaci. Da qui è chiaro che il
periodo del capitalismo dal volto umano (il periodo delle conquiste) era
connesso con la ripresa e che la crisi del riformismo è connessa con la crisi
economica del capitalismo, è un prodotto, un effetto di essa.
La crisi del
riformismo non è cioè un fenomeno accanto a un altro (la crisi economica del
capitalismo). Vi è tra i due fenomeni una connessione dialettica (uno genera
l’altro) il cui disconoscimento impedisce a G. Riboldi, e a quanti altri lo
condividono, di comprendere il reale processo pratico in corso su cui si deve
fondare ogni linea politica realistica. La stessa connessione dialettica esiste
anche tra crisi economica del capitalismo e accentuarsi delle contraddizioni
tra i gruppi imperialisti. La crisi economica è madre della crisi del
riformismo (cioè della eliminazione delle riforme già strappate e della
inconsistenza dei progetti e delle promesse di riforme) e dell’accentuarsi
delle contraddizioni tra i gruppi imperialisti. Esse corrispondono ai due tipi
di contraddizioni (tra borghesia imperialista e masse popolari e tra gruppi
imperialisti) che la crisi per sovrapproduzione assoluta di capitale rende
antagoniste, in cui si esprime e che aggrava e aggraverà continuamente nel suo
procedere fino a che dall’una o dall’altra delle due sorgerà il movimento che
porrà fine alla crisi: la mobilitazione rivoluzionaria o la mobilitazione
reazionaria delle masse.
Le relazioni
presentate al Coordinamento Nazionale della CCA da cui attingiamo le citazioni
sono pubblicate in nuova unità, n. 8/98.
(http://www.laltralombardia.it/confed.html)
3. Vedere in proposito
Per il dibattito sulla causa e sulla natura della crisi attuale, in Rapporti
Sociali n. 17/18, 1996 e Le fasi in cui si divide l’epoca imperialista,
in Rapporti Sociali n. 12/13, 1992. (http://www.nuovopci.it/scritti/RS)
Osserviamo ora gli avvenimenti reali
alla luce e con lo strumento del materialismo dialettico. La storia degli
ultimi decenni mostra
- che da un certo periodo in qua,
all’incirca dalla metà degli anni ‘70, il meccanismo della valorizzazione del
capitale ha incominciato a perdere colpi;(3)
- che da qui sono nate l’eliminazione
delle conquiste di benessere e di civiltà che le masse popolari avevano
strappato nei trent’anni precedenti (“i gloriosi trenta” della pubblicistica
borghese),(4) la
ricolonizzazione dei paesi semicoloniali (piano Brady e simili) e lo sfruttamento
della loro popolazione e delle loro risorse ambientali fino all’estinzione, il
crollo (1989) e la devastazione dei paesi socialisti che il lungo dominio dei
revisionisti moderni aveva reso economicamente, finanziariamente e
culturalmente dipendenti dall’imperialismo, il gonfiarsi del capitale
finanziario fino a sovrastare e schiacciare il capitale produttivo di merci
(beni e servizi) (l’economia reale), la privatizzazione delle aziende
pubbliche, l’eliminazione dei “lacci e lacciuoli” - le regole di salvaguardia
del pubblico interesse,(5)
la corsa alla costituzione di un numero ristretto (poche unità) di monopoli
mondiali nei settori più importanti, le lotte sempre più aspre tra i gruppi
imperialisti, la crescita delle differenze economiche tra paesi, regioni,
gruppi e classi;
- che da qui è nata anche la crisi di
tutti i regimi politici dei paesi imperialisti e del sistema delle loro
relazioni internazionali (cioè la crisi politica);
- che da qui sono venute anche la
crisi culturale che sconvolge miliardi di uomini da un capo all’altro del
mondo, l’incertezza del futuro, l’insicurezza generale, la precarietà, la
mancanza di stabilità, proprio di quella stabilità contro cui G. Riboldi e soci
chiamano a lottare come Don Chisciotte chiamava a lottare contro i mulini a
vento.(6)
4. L’ultima conquista strappata dalle masse è stato l’accordo del 1975 tra
Confindustria (presidente G. Agnelli) e Sindacati per il punto unico di
contingenza che migliorò molto la dinamica dei salari più bassi. Di lì a poco
subentrò la “linea dell’EUR” (1978).
Sulla eliminazione
delle conquiste, vedere CARC, Le conquiste delle masse popolari, 1997,
Edizioni Rapporti Sociali
(http://www.carc.it/index.php?view=article&id=866) e G. Pelazza, Cronache
di diritto del lavoro 1970-1990, Edizioni Rapporti Sociali.
(http://www.carc.it/index.php?view=article&id=1157)
5. Vedere sulle Forme
Antitetiche dell’Unità Sociale (FAUS), Rapporti Sociali n. 4, pagg.
20-25, 1989. (http://www.nuovopci.it/scritti/RS)
6. Sul carattere
economico, politico e culturale della crisi in corso, vedere CARC, La
situazione e i nostri compiti, 1994/1995, Edizioni Rapporti Sociali.
http://www.carc.it/index.php?view=category&id=104
7. Il movimento di
resistenza delle masse popolari al procedere della crisi della società borghese
e i compiti delle Forze Soggettive della Rivoluzione Socialista, in Rapporti
Sociali n. 12/13, 1992. (http://www.nuovopci.it/scritti/RS)
Dove porta questo corso delle cose?
Esso accentua la contraddizione tra borghesia imperialista e masse popolari e
le contraddizioni tra i gruppi imperialisti. Le masse sono costrette a cercare
nuove soluzioni ai loro problemi di vita e di lavoro, dato che la borghesia
imperialista distrugge essa stessa (nei paesi imperialisti, nelle colonie,
negli ex paesi socialisti) le vecchie soluzioni. Sono cioè costrette a
mobilitarsi. Noi abbiamo dato un nome a questa mobilitazione delle masse
indotta dalla crisi generale del capitalismo, l’abbiamo chiamata “resistenza
delle masse popolari al procedere della crisi”.(7) Che la si chiami come si vuole. È però
incontestabile che essa è il fattore politico più importante del presente, è il
terreno su cui si danno battaglia tutte le classi, le forze e i gruppi che
lottano per il potere. Quindi di per sé “la crisi e il progressivo peggioramento
delle condizioni di vita non producono la mobilitazione rivoluzionaria
delle masse”, come giustamente osserva GR che però omette di aggiungere che di
per sé producono la mobilitazione delle masse che è il fattore
principale e indispensabile della trasformazione della società e quindi la base
oggettiva di ogni progetto politico realistico, di ogni progetto politico che
non si riduca a declamazione e a vaniloquio. Non è forse vero? Chi ha generato
e genera la migrazione di milioni di persone da un continente a un altro? Chi
ha generato e genera la ribellione crescente di milioni di persone a questa
“invasione”? Chi ha generato e genera l’abbandono delle organizzazioni di
regime e delle istituzioni (elezioni, ecc.) del regime? Chi ha generato e genera
l’esplosione di religioni, sette, volontariato, doppio e triplo lavoro,
violenze gratuite, ecc.? Chi ha generato e genera quell’insieme di fenomeni che
si riassumono nell’imbarbarimento: la malavita, l’esplosione della delinquenza
giovanile, gli scandali, l’insofferenza, la “ingovernabilità delle metropoli”?
Quindi la crisi generale produce di per sé la mobilitazione delle masse:
non mobilitazione rivoluzionaria, ma mobilitazione!
La crisi, proprio perché è crisi
generale per sovrapproduzione assoluta di capitale, genera anche la lotta
antagonista tra gruppi imperialisti perché ognuno deve valorizzare il suo
capitale e il capitale accumulato è troppo e il plusvalore estorto ai
lavoratori, per quanto grande e crescente, non basta a valorizzarlo tutto. Ogni
capitalista per valorizzare il suo capitale oltre a spremere a morte i
lavoratori deve anche “uccidere” un altro capitalista, deve appropriarsi del
suo capitale. Questo rende antagonisti i contrasti tra gruppi imperialisti.
Queste tendenze che ognuno può constatare,
creano forse stabilità? No, di per sé generano instabilità, sconvolgono
regimi e relazioni tra classi, paesi, nazioni e Stati. Non è quello che avviene
sotto i nostri occhi?
Ebbene, a questa situazione la cui
comprensione nell’insieme e nei dettagli è essenziale per ogni attività
politica autonoma (cioè che non sia a rimorchio e al servizio di altri che
pensano e decidono al nostro posto), che nome diamo?
Noi la chiamiamo situazione
rivoluzionaria in sviluppo.(8)
È una situazione in cui i vecchi poteri crollano e crolleranno e altri poteri
si affermeranno lottando e imponendosi ai loro avversari: come è avvenuto nel
corso della prima crisi generale del capitalismo (1900-1945). In questa
situazione la mobilitazione delle masse può diventare rivoluzionaria o
diventare reazionaria, ma non una terza cosa!
8. La situazione
rivoluzionaria in sviluppo, in Rapporti Sociali n. 9/10, 1991.
(http://www.nuovopci.it/scritti/RS)
L’affermazione di G.
Riboldi e altri “non siamo in una situazione rivoluzionaria né
prerivoluzionaria” diventa meno fuori posto se intesa come “non siamo in una
situazione insurrezionale né preinsurrezionale”: cosa che (a quanto pare)
nessuno contesta. Ma così intesa l’affermazione di GR comporta una concezione
schematica e ristretta del lavoro delle FSRS del tipo: “La rivoluzione si fa
con l’insurrezione; finché non c’è l’insurrezione o non si è nell’imminenza
dell’insurrezione, la politica rivoluzionaria si riduce a fare da “sponda
politica” al lavoro sindacale, a sostenere, promuovere e organizzare le lotte
rivendicative dei lavoratori e a sostenere le loro ragioni presso le autorità,
nelle istituzioni”. Che è la concezione della politica rivoluzionaria che ha
dato la triste dimostrazione della sua impotenza all’inizio di questo secolo,
nei partiti della Seconda Internazionale e, per quel che ci riguarda, nel PSI e
nel “biennio rosso” 1919-1920.
La mobilitazione delle masse, che la
crisi generale produce di per sé, deve crescere sotto una direzione, non
può crescere senza direzione: esiste e non può esistere che sotto una
direzione. Quale sarà la direzione che effettivamente si affermerà in un caso
concreto, non dipende dalla crisi, ma da altri fattori: come dire che ogni
uccello a primavera fa il nido e lo deve appoggiare da qualche parte, ma che lo
appoggi da una parte o dall’altra non dipende dalla primavera. Crescerà come
mobilitazione rivoluzionaria, certamente non di per sé, non ineluttabilmente,
ma solo se le FSRS, se il partito comunista della classe operaia (quindi le
FSRS oggi e il partito comunista domani) saranno capaci di far prevalere in
essa la direzione della classe operaia, rispetto a quella di tutti gli altri
pretendenti (i gruppi imperialisti promotori della mobilitazione reazionaria),
quindi se saranno capaci di trasformarla in lotta per il comunismo, in
rivoluzione socialista. In caso contrario la mobilitazione delle masse crescerà
come mobilitazione reazionaria, come mobilitazione delle masse diretta da
qualche gruppo della borghesia imperialista che mobilita le masse nella sua
lotta contro altri gruppi imperialisti che a loro volta mobilitano altre masse,
cioè nelle guerre imperialiste in cui i gruppi imperialisti e i loro clienti
scagliano le masse le une contro le altre.(9) È stato anche dimostrato dalla pratica, ed è
comprensibile anche teoricamente, che la mobilitazione reazionaria può essere
trasformata in mobilitazione rivoluzionaria e viceversa. Nel giugno-luglio 1919
la piccola borghesia urbana italiana portava le chiavi dei negozi alle Camere
del lavoro, la stessa piccola borghesia urbana due anni dopo forniva reclute
alle squadre fasciste che davano la caccia agli operai. Viceversa i soldati che
nel 1940 avevano applaudito Mussolini che li chiamava alla guerra, nel 1944 gli
davano la caccia come partigiani. La storia della prima crisi generale è folta
di trasformazioni di questo genere.
9. Le mille guerre
nazionalistiche, interetniche, ecc. che imperversano dall’Europa all’Asia sono
per la maggior parte un esempio di queste guerre che i gruppi imperialisti conducono
tra loro mobilitando ognuno masse al suo seguito e facendo a tale fine leva su
uno dei mille contrasti e differenze (nazionali, economiche, religiose, ecc.)
che la storia ci lascia in eredità. Sulla natura della mobilitazione
reazionaria, v. Rapporti Sociali n. 12/13 pagg. 25-31.
(http://www.nuovopci.it/scritti/RS)
Ma come possono le FSRS essere capaci
di far crescere la mobilitazione delle masse (la resistenza che le masse
oppongono al procedere della crisi generale del capitalismo) come mobilitazione
rivoluzionaria (cioè come lotta per il comunismo, come rivoluzione socialista),
se neanche si accorgono di questa mobilitazione che cresce di per sé, se
continuano a fare i loro chiacchiericci senza rendersi conto di questa
esplosione in arrivo, di questa colata lavica che va montando? Che cosa
significa il fatto che un autorevole esponente di una FSRS nasconde dietro la
negazione di una tesi (la tesi che la crisi produce di per sé
mobilitazione rivoluzionaria delle masse) che, a quanto risulta, nessuno
sostiene, il suo silenzio su una tesi (la crisi produce di per sé
mobilitazione delle masse) che, se è vera come lo è, in questa fase sta alla
base di tutta l’attività politica rivoluzionaria consapevole, di ogni progetto
realistico di politica rivoluzionaria? Stante che la crisi effettivamente in
corso fa mobilitare le masse, ogni piano di politica rivoluzionaria, ogni
concezione del divenire della società, ogni concezione della rivoluzione
socialista che non sono lavoro per far diventare rivoluzionaria la reale
mobilitazione delle masse, quella che effettivamente si sviluppa, ogni progetto
di creare un altro tipo di rivoluzione socialista sono un proposito sciocco,
uno sterile gioco intellettuale e una dispersione di forze.
Il ragionamento di GR in sintesi è:
“La crisi non produce di per sé la mobilitazione rivoluzionaria delle
masse, quindi non ha senso occuparsi della mobilitazione delle
masse che la crisi di per sé produce e di cosa dobbiamo fare per farla
diventare rivoluzionaria. Passiamo quindi a parlare d’altro”.
Proprio al contrario, le FSRS devono
studiare con la massima cura la reale mobilitazione delle masse che la crisi
produce di per sé, questa colata lavica che monta; devono scoprire le leggi
dello sviluppo della resistenza delle masse al procedere della crisi generale
del capitalismo; devono far leva sulle tendenze positive presenti in questa
resistenza per far prevalere in essa la direzione della classe operaia, cioè
per trasformarla in lotta per il comunismo.
Noi dobbiamo costituire un partito
comunista che sia in grado di adempiere a questo compito, perché questo e non
altro è il compito che gli sta di fronte.
Per chiunque vede la reale connessione
tra crisi economica per sovrapproduzione assoluta di capitale, crisi generale
(economica, politica e culturale), lotte tra gruppi imperialisti, crisi del
riformismo (delle politiche riformiste, dei riformisti, degli illusionisti
delle riforme) e mobilitazione delle masse, per costui è quindi chiaro che la
classe operaia, il proletariato, le masse popolari, la causa del comunismo
hanno bisogno di un partito che sia all’altezza del compito che il procedere
della seconda crisi generale del capitalismo e la conseguente situazione
rivoluzionaria in sviluppo pongono ad esso e che tenga pienamente conto dell’esperienza
della prima ondata della rivoluzione proletaria, perché siamo proprio in una
situazione rivoluzionaria in sviluppo, una situazione di grande instabilità e
precarietà degli attuali regimi politici borghesi, che va di per sé
verso la mobilitazione delle masse che sarà rivoluzionaria o reazionaria a
secondo della capacità delle forze politiche di capire e applicare a proprio
vantaggio le sue leggi di sviluppo.
La seconda crisi generale genera di
per sé un periodo di guerre e di rivoluzioni. Quali guerre, quali rivoluzioni, con
quali esiti provvisori, con quale esito finale? Questo lo “deciderà” lo scontro
tra la mobilitazione rivoluzionaria che le FSRS oggi e il partito comunista
domani promuoveranno e la mobilitazione reazionaria che vari gruppi
imperialisti a loro volta e in concorrenza tra loro promuoveranno.
Ma è chiaro che non abbiamo bisogno di
un partito comunista che si qualifichi principalmente come “sponda politica”
del “sindacato di classe” (per riprendere un’altra affermazione di G. Riboldi),
ma di un partito comunista promotore, organizzatore e dirigente della
mobilitazione delle masse popolari, che solo così diventa mobilitazione
rivoluzionaria, cioè lotta per la conquista del potere da parte della classe
operaia e per l’instaurazione del socialismo.
Posto questo, sono tre le questioni
che ne derivano.
1. Cosa significa in concreto, nella
nostra situazione, un partito che sia all’altezza del compito che il procedere
della seconda crisi generale del capitalismo e la conseguente situazione
rivoluzionaria in sviluppo pongono ad esso?
2. Cosa insegna al riguardo
l’esperienza della prima ondata della rivoluzione proletaria (1900-1945)?
3. Quali sono le caratteristiche che
rendono un partito quale lo vogliamo?
Ogni compagno che si pone responsabilmente
e concretamente il compito di ricostruire il partito comunista si pone queste
tre domande. Ogni compagno ha cercato e cerca di dare ad esse delle risposte.
Ricavandole da dove? Dalle sue credenze, dai suoi pregiudizi, dalla cultura
correntemente diffusa dalle università, dai centri studi, dalle fondazioni,
dalle case editrici, dalle riviste di prestigio, dai giornalisti ben pagati,
insomma dalla macchina ideologica della classe dominante? No, le ricava dalla
esperienza passata e presente del movimento comunista internazionale e del
nostro paese e dalle condizioni della lotta di classe che si svolge nel nostro
paese, studiando ed elaborando quelle esperienze con gli strumenti forniti dal
patrimonio teorico del movimento comunista internazionale che è sintetizzato
nel marxismo-leninismo-maoismo. Può darsi che questo scandalizzi alcuni critici
accaniti del “pensiero unico” della borghesia imperialista che però ad esso si
rifanno ogni volta che devono pensare qualcosa. Ma questa è la strada che noi
seguiamo.
Noi vogliamo essere materialisti
dialettici, comunisti, rivoluzionari proletari. Quindi le nostre risposte sono
criteri che ci guideranno nella nostra azione, sottoposti alla verifica della
realtà. Facciamo il bilancio delle esperienze, raccogliamo ed elaboriamo le
esperienze, le sensazioni, le aspirazioni sparse, diffuse e confuse delle masse
che sono effetto della vita che esse conducono e quindi rivelatrici (indizi)
del reale corso delle cose, traduciamo tutto ciò in una linea che riportiamo alle
masse perché diventi guida nell’azione. Dai risultati di questa azione
ripartiremo per ripetere il processo, elaborare una linea più giusta e più
conforme alle leggi oggettive del movimento della società, della lotta tra le
classi sfruttate e la borghesia imperialista. Il successo nella pratica è, in
definitiva, il criterio della verità di ogni nostra linea e di ogni nostra
idea.
In questo articolo vogliamo dimostrare
che l’esperienza della prima ondata della rivoluzione proletaria e l’analisi
della società attuale insegnano concordemente tre cose.
- 1. Che la rivoluzione proletaria che
dobbiamo e possiamo fare ha la forma della guerra popolare rivoluzionaria di
lunga durata.
- 2. Che il nuovo partito comunista
deve essere costruito in modo da essere la direzione della guerra popolare
rivoluzionaria di lunga durata che in maniera confusa e dispersa si sta già
sviluppando sotto i nostri occhi, onde renderla una guerra che le masse
popolari conducono in modo via via più organizzato, prendendo l’iniziativa
nelle loro mani, sotto la direzione lungimirante e capace della classe operaia
organizzata nel suo partito comunista, ponendosi l’obiettivo della vittoria e
dell’instaurazione del socialismo (passando insomma da una guerra che ora le
masse subiscono difendendosi alla meno peggio e in ordine sparso, a una guerra
che conducono come si deve condurla per vincere).
- 3. Che esso deve essere costruito
dalla clandestinità, come partito che non basa la sua esistenza sul margine di
libertà di azione politica che la borghesia imperialista reputa le convenga
consentire alle masse popolari, ma sulla sua capacità di esistere e di operare
nonostante i tentativi della borghesia di eliminarlo e che da qui sfrutta al
massimo anche quel margine per la sua azione: solo dalla clandestinità il
partito è in grado di raccogliere le forze rivoluzionarie che il corso della
lotta tra le classi gradualmente genera, di dirigerle a educarsi alla lotta
lottando e di accumularle fino a rovesciare l’iniziale sfavorevole rapporto di
forza.
Illustriamo in questo articolo le
risposte che noi diamo alle domande sopra indicate. Pubblicheremo via via nei
prossimi numeri della rivista le risposte che altri compagni daranno ad esse,
in modo da raccogliere e poterci giovare nel lavoro che ci sta davanti, del
massimo dell’esperienza e della elaborazione attualmente disponibile. Le idee
giuste vengono verificate dalla pratica e arricchite dal bilancio delle
esperienze; nel bilancio delle esperienze le idee giuste si affermano contro le
idee sbagliate: per questo sono indispensabili i dibattiti e le lotte
ideologiche.
Sulla forma della rivoluzione
proletaria
Incominceremo dalla forma della
rivoluzione proletaria, dal modo in cui la classe operaia prepara e attua la
conquista del potere, da cui parte poi la trasformazione socialista della
società.(10)
Alla fine del secolo scorso, cioè
all’inizio dell’epoca imperialista del capitalismo, i partiti socialdemocratici
nei paesi più avanzati avevano già compiuto la loro opera storica di costituire
la classe operaia come classe politicamente autonoma dalle altre. Avevano posto
fine all’epoca in cui molte persone di talento o inette, oneste o disoneste,
attratte dalla lotta per la libertà politica, dalla lotta contro il potere
assoluto dei re, della polizia e dei preti, non vedevano il contrasto fra gli
interessi della borghesia e quelli del proletariato. Quelle persone non
concepivano neanche lontanamente che gli operai potessero essi stessi agire
come una forza sociale autonoma. I partiti socialdemocratici avevano posto fine
all’epoca in cui molti sognatori, a volte geniali, pensavano che sarebbe
bastato convincere i governanti e le classi dominanti dell’ingiustizia e della
precarietà dell’ordine sociale esistente per stabilire con facilità sulla terra
la pace e il benessere universali. Essi sognavano di realizzare il socialismo
senza lotta della classe operaia contro la borghesia imperialista. I partiti
socialdemocratici avevano posto fine all’epoca in cui quasi tutti i socialisti
e in generale gli amici della classe operaia vedevano nel proletariato solo una
piaga sociale e constatavano con spavento come, con lo sviluppo dell’industria,
si sviluppava anche questa piaga. Perciò pensavano al modo di frenare lo
sviluppo dell’industria e del proletariato, di fermare la “ruota della storia”.(11) Grazie alla direzione di
Marx ed Engels i partiti socialdemocratici avevano invece creato nei paesi più
avanzati un movimento politico, con alla testa la classe operaia, che riponeva
le sue fortune proprio nella crescita del proletariato e nella sua lotta per
l’instaurazione del socialismo e la trasformazione socialista dell’intera
società. Iniziava l’epoca della rivoluzione proletaria.(12) Il movimento politico della classe operaia
era il lato soggettivo, sovrastrutturale della maturazione delle condizioni
della rivoluzione proletaria, mentre il passaggio del capitalismo alla sua fase
imperialista ne era il lato oggettivo, strutturale.
10. Sulla forma della
rivoluzione socialista, vedere pagg. 14-15 e pagg. 38-44 di CARC, F. Engels/10,
100, 1000 CARC per la ricostruzione del partito comunista, 1995, Edizioni
Rapporti Sociali.
http://www.carc.it/index.php?view=article&id=865
11. Su questi temi vedere
F. Engels, L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza, 1882,
Edizioni Rapporti Sociali.
http://marxists.anu.edu.au/italiano/marx-engels/1880/evoluzione
http://www.marxists.org/italiano/lenin/1895/biogra-e.htm
La classe operaia aveva già compiuto
alcuni tentativi di impadronirsi del potere: in Francia nel 1848-50 (13) e nel 1871 con la Comune
di Parigi,(14) in
Germania con la partecipazione su grande scala alle elezioni politiche.(15) Era ormai possibile e
necessario capire come la classe operaia sarebbe riuscita a prendere nelle
sue mani il potere e avviare la trasformazione socialista della società.
Erano riunite le condizioni per affrontare il problema della
forma della rivoluzione proletaria. Nel
1895, nella Introduzione alla ristampa degli articoli di K. Marx
Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, F. Engels (http://www.nuovopci.it/classic/marxengels/prlotfra.html)
fece il bilancio delle esperienze fino allora compiute dalla classe operaia ed
espresse chiaramente la tesi che “la rivoluzione proletaria non ha la forma di
un’insurrezione delle masse popolari che rovescia il governo esistente e nel
corso della quale i comunisti, che partecipano ad essa assieme agli altri
partiti, prendono il potere”. La rivoluzione proletaria ha la forma di un
accumulo graduale delle forze attorno al partito comunista, fino ad invertire
il rapporto di forza: la classe operaia deve preparare fino ad un certo punto
“già all’interno della società borghese gli strumenti e le condizioni del suo
potere”. Lo sviluppo delle rivoluzioni nel nostro secolo ha confermato,
precisato e arricchito la tesi di F. Engels.(16)
13. K. Marx, Le lotte
di classe in Francia dal 1848 al 1850, 1850, in Opere, vol. 10.
http://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1850/lottecf/
14. K. Marx, La guerra civile in Francia, 1871 e F. Engels, Introduzione, 1891. http://marxists.anu.edu.au/italiano/
marx-engels/1871/gcf/introduzioneengels.htm
marx-engels/1871/gcf/introduzioneengels.htm
15. F. Engels, Introduzione
a “K. Marx, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850”, 1895, in Opere,
vol. 10.
http://www.nuovopci.it/classic/marxengels/prlotfra.html
16. I revisionisti
dell’inizio del secolo (E. Bernstein & C) e i revisionisti moderni
(Kruscev, Togliatti, ecc.) hanno cercato ripetutamente di “tirare dalla loro
parte” l’Introduzione del 1895 di Engels. “Accumulo graduale delle forze
rivoluzionarie all’interno della società borghese? Certo! Ecco i nostri gruppi
parlamentari sempre più numerosi, abili, influenti e ascoltati dal governo, i
nostri voti in crescita di elezione in elezione, i nostri sindacati cui sono
iscritti milioni di lavoratori e che ministri e industriali ascoltano e
interpellano con rispetto, le nostre floride cooperative, le nostre buone case
editrici, i nostri giornali e periodici ad alta tiratura, le nostre
manifestazioni d’ogni genere sempre affollate, le nostre associazioni culturali
che raccolgono il fior fiore dell’intelligenza del paese, la nostra vasta rete
di contatti e di presenze in posti che contano, il nostro seguito in tutte le
categorie. Ecco l’accumulo delle forze rivoluzionarie che ci rende capaci di
governare!”.
È una grande violenza
far dire queste cose a Engels che, pur non avendo visto tutto quello che è
successo nel secolo XX, aveva messo in guardia dal farsi illusioni, aveva
avvertito che la progressione elettorale del partito socialdemocratico tedesco,
segno del progresso del socialismo nella classe operaia tedesca e della sua
crescente egemonia sulle masse popolari, non sarebbe continuata all’infinito,
aveva avvertito che la borghesia avrebbe “sovvertito la sua stessa legalità”
quando questa l’avrebbe messa in difficoltà.
Ma il problema
principale non è “quello che Engels ha veramente detto”. Il problema principale
è che i fatti, la realtà, gli avvenimenti hanno ripetutamente dimostrato che
quelle forze accumulate di cui parlano i revisionisti si sono sciolte come neve
al sole in ogni scontro acuto e crisi acuta della società che hanno posto
all’ordine del giorno la conquista del potere, in ogni caso in cui erano
dirette dai revisionisti ed erano le sole o le principali “forze
rivoluzionarie” che la classe operaia aveva accumulato (basti richiamare
l’Italia del 1919-1920, la Germania del 1914 e del 1933, l’Indonesia del 1966,
il Cile del 1973). Esse hanno potuto servire allo scopo solo quando erano le
propaggini legali, il braccio legale di un partito e di una classe operaia che
veniva altrimenti accumulando le vere e decisive forze rivoluzionarie (basti
citare la Russia del 1917).
Il processo della rivoluzione
socialista è complesso, ha le sue leggi, si svolge nel corso di un certo tempo.
Chi dice che la classe operaia non
può vincere, rovesciare la borghesia imperialista e prendere il potere,
sbaglia (i pessimisti e gli opportunisti sbagliano). I successi raggiunti dal
movimento comunista nella prima ondata della rivoluzione proletaria (1914-1949)
hanno confermato praticamente ciò che Marx ed Engels avevano dedotto
teoricamente dall’analisi della società borghese.
Chi dice che la classe operaia può
facilmente e in breve tempo vincere, rovesciare la borghesia imperialista e
prendere il potere, sbaglia (gli avventuristi sbagliano: da noi abbiamo visto
all’opera i soggettivisti e i militaristi). Le sconfitte subite dal movimento
comunista nella prima ondata della rivoluzione proletaria (tra cui in Italia
quella del “biennio rosso” 1919-1920 di cui ricorre quest’anno lo 80°
anniversario), le rovine prodotte dal revisionismo moderno dopo che negli anni
‘50 ha preso la direzione del movimento comunista e la sconfitta subita in
Italia dalle Brigate Rosse all’inizio degli anni ‘80 hanno confermato
praticamente anche questa tesi.
La classe operaia può vincere,
rovesciare la borghesia imperialista e prendere il potere, ma attraverso un
lungo periodo di apprendistato, di dure lotte, di lotte dei tipi più svariati e
di accumulazione di ogni genere di forze rivoluzionarie, nel corso del processo
di guerre civili e di guerre imperialiste che durante la crisi generale del
capitalismo comunque (inevitabilmente, indipendentemente dalle teorie e dalle
decisioni di uomini e partiti) sconvolgono il mondo fino a trasformarlo. Per
condurre con successo questa lotta, per ridurre gli errori che si compiono,
bisogna capire la natura del processo, le contraddizioni che lo determinano, le
leggi secondo cui si sviluppa.
Non per nostra scelta ma per le
caratteristiche proprie del capitalismo, il processo di sviluppo dell’umanità
si è posto in questi termini: o guerre tra masse popolari dirette da gruppi
imperialisti o guerre tra classe operaia e borghesia imperialista. È un dato di
fatto, un fatto a cui non possiamo sfuggire per forza dei nostri desideri o
della nostra volontà se non ponendo fine all’epoca dell’imperialismo;(17) è un fatto reso evidente
dallo studio dei 100 anni dell’epoca imperialista già trascorsi e dallo studio
delle tendenze attuali della società. La situazione è resa ancora più complessa
dal fatto che nella sua guerra contro la borghesia imperialista la classe
operaia deve sfruttare le contraddizioni tra gruppi imperialisti. I due tipi di
guerre (la guerra della classe operaia contro la borghesia imperialista e le
guerre tra gruppi imperialisti) in sostanza si sviluppano entrambi e si
intrecciano.(18) Il
problema è quale prevale. I comunisti devono fare in modo che gli antagonisti
nella guerra siano la classe operaia e la borghesia imperialista in modo che
alla sua conclusione la classe operaia emerga come nuova classe dirigente, come
la classe che ha vinto la guerra. D’altra parte devono condurre la guerra in
modo tale che i gruppi imperialisti si azzuffino tra loro onde non uniscano e
concentrino le loro forze, all’inizio prevalenti, contro la classe operaia.
Questo è un problema della relazione tra strategia e tattica nella rivoluzione
proletaria.
17. Non è un caso che ripetutamente si vedono pacifisti
dichiarati diventare nel corso degli avvenimenti fautori della guerra.
Clamoroso il caso di A. Sofri che divenne fautore dell’intervento militare
degli imperialisti USA ed europei nei Balcani. Le cose procedono nonostante le
volontà dei pacifisti e diventano tali che essi o si schierano contro la causa
(l’imperialismo) che determina il corso delle cose o si schierano con una delle
parti in guerra, giustificando in qualche modo il venir meno del loro
pacifismo.
Il loro pacifismo non
può trasformare il corso delle cose e quindi è il corso delle cose che
trasforma il loro pacifismo. Il pacifismo non è una “terza via”. In alcuni è
uno stadio transitorio verso lo schieramento nella guerra, per altri è una
politica per impedire che le masse popolari prendano le armi contro la
borghesia imperialista: predicano il disarmo e la pace alle masse che non hanno
armi in modo da lasciare libero il campo d’azione alla borghesia imperialista
che è armata fino ai denti e continua ad armarsi. Esponente tipico di questa
seconda specie di “pacifismo” è Papa Woityla.
18. Esemplare al riguardo fu la Seconda guerra mondiale. Essa fu
contemporaneamente guerra tra gruppi imperialisti e guerra tra classe operaia e
borghesia imperialista. La contraddizione tra i due aspetti ha caratterizzato
la natura, l’andamento e l’esito della Seconda guerra mondiale. Tra quelli che
non comprendono questa contraddizione o per opportunità politica la negano,
alcuni pongono unilateralmente un aspetto (guerra interimperialista), altri
l’altro (guerra di classe), gli uni e gli altri facendo a pugni con i fatti e
impelagandosi in un intrico di contraddizioni logiche da cui non riescono a
uscire.
Su questa
contraddizione che caratterizza la Seconda guerra mondiale, vedere l’articolo
di M. Martinengo Il movimento politico degli anni trenta in Europa, in Rapporti
Sociali n. 21, 1999. (http://www.nuovopci.it/scritti/RS)
Vedere anche Un
libro e alcune lezioni di Umberto C. in La Voce n. 24 (novembre
2006). http://www.nuovopci.it/voce/voce24/librlez.html
In contrasto con la tesi di Engels
(che la classe operaia può arrivare alla conquista del potere solo attraverso
un graduale accumulo delle forze rivoluzionarie), alcuni presentano la
rivoluzione russa del 1917 come un’insurrezione popolare (“assalto al Palazzo
d’Inverno”) nel corso della quale i bolscevichi hanno preso il potere. In
realtà l’instaurazione del governo sovietico nel novembre del 1917
1. è stata preceduta da un lavoro
sistematico di accumulazione delle forze diretto dal partito che a partire dal
1903 si era costituito come forza politica libera, che esisteva e operava con
continuità in vista della conquista del potere nonostante che l’avversario
mirasse a distruggerla e quindi come forza politica indistruttibile
dall’avversario;
2. è stata preceduta dal lavoro più
specifico fatto tra il febbraio e l’ottobre 1917;
3. è stata seguita da una guerra
civile e contro l’aggressione imperialista conclusa nel 1921 e conclusa solo in
un certo senso perché lo sforzo della borghesia imperialista per soffocare
l’Unione Sovietica è proseguito nelle lunghe e molteplici manovre
antisovietiche degli anni ‘20 e ‘30 e nell’aggressione nazista del 1941-1945.
La rivoluzione russa del 1905 quella
sì aveva avuto più la forma di un’esplosione popolare non preceduta
dall’accumulo delle forze attorno al partito comunista; ma non a caso non aveva
portato alla vittoria.(19)
19. Lenin, Rapporto sulla rivoluzione del 1905, 22.1.1917, in Opere
complete, vol. 23. http://www.nuovopci.it/classic/lenin/raprivol.htm
Una conferma esemplare della giustezza
e della profondità della teoria di Engels è data dalla storia del “biennio
rosso” (1919-1920) in Italia. La mancata accumulazione delle forze
rivoluzionarie nel periodo precedente, la “insufficienza rivoluzionaria” del
PSI come venne chiamata, impedirono di trasformare in rivoluzione socialista la
mobilitazione delle masse che pure erano in larga misura orientate dal PSI
(aderente alla Internazionale Comunista) e dalla Rivoluzione d’Ottobre e nelle
quali molti erano gli uomini che nel corso della Prima guerra mondiale, appena
finita, erano stati addestrati all’uso delle armi e alla guerra.
Alcuni sostengono che la colpa del
mancato successo va attribuita ai capi riformisti (Turati, Treves, Modigliani,
D’Aragona, ecc.) presenti nel PSI e alla testa della CGL. Altri sostengono che
in generale mancarono i capi rivoluzionari. Altri ancora sostengono che la
mobilitazione delle masse non era sufficientemente ampia e rivoluzionaria ...
da poter fare a meno di capi.
Il problema è un altro.
Il movimento socialista e sindacale
italiano si era sviluppato solo nei campi parlamentare, sindacale, cooperativo
ed educativo. Gran parte dei partiti della Seconda Internazionale avevano di
fatto ridotto il loro lavoro socialista a questi soli campi. I revisionisti e i
riformisti avevano addirittura rivendicato e giustificato teoricamente questa
limitazione. Il movimento italiano non si era distinto dal grosso della Seconda
Internazionale. Negli altri campi aveva fatto solo magniloquenti dichiarazioni
e appelli e alimentato generose aspirazioni, ma nulla di più.
Era un movimento capace di
moltiplicare e migliorare i voti nelle elezioni, il numero dei rappresentanti
eletti, i periodici, le cooperative, le organizzazioni sindacali, le
associazioni culturali, ecc. ma incapace di avere anche un solo distaccamento
di uomini armati o alcuni degli altri strumenti di potere di cui la classe
dominante si avvale per il suo dominio e di cui tutela per legge il monopolio. Tutto
il movimento socialista e sindacale italiano era ricco di esperienze nelle
lotte rivendicative e nelle iniziative consentite dalla legge dello Stato
borghese, ma incapace di accumulare qualsiasi esperienza nei campi di cui la
classe dominante si riservava il monopolio. Esso fuoriusciva dai limiti delle
leggi dello Stato borghese solo per iniziative episodiche, estemporanee,
istintive e circoscritte, nei tumulti e negli scontri di piazza prodotti
dall’indignazione delle masse o dalle provocazioni delle forze della
repressione, episodi che coinvolgevano parti più o meno ampie del movimento
socialista, ma a cui restava estranea la sua direzione che così non veniva
educata a svolgere il suo compito specifico né sul piano strategico né sul
piano tattico. I riformisti non volevano la rivoluzione e cercavano di
evitarla con tutte le loro forze e i massimalisti (G. Menotti Serrati,
ecc.) non sapevano cosa fare per passare dalla rivendicazione alla rivoluzione
e più volte si mostrarono disposti a farsi da parte. Ma neanche i comunisti
(Gramsci, Bordiga, Terracini, Tasca, ecc.) sapevano cosa fare. Questi
alimentavano e spingevano avanti il movimento delle masse e chiedevano che “il
partito”, che essi non dirigevano né cercavano di dirigere, desse il via a una
rivoluzione di cui nessuno aveva mai pensato e tanto meno sperimentato i passaggi
attraverso i quali doveva svolgersi e di cui nessuno aveva approntato gli
strumenti.(20) Quando
nella riunione del 9-10 settembre 1920 a Milano della Direzione del PSI e del
Consiglio Generale della CGL venne chiesto a Tasca e a Togliatti (che vi partecipavano
come rappresentanti degli operai torinesi che occupavano le fabbriche) se i
torinesi erano in grado di incominciare con una sortita offensiva dalle
fabbriche, essi dovettero convenire che no, non erano in grado. In modo analogo
erano andate le cose anche durante lo sciopero generale e la serrata
nell’aprile 1920 quando al Consiglio Nazionale del PSI riunito a Milano il
20-21 aprile come portavoce degli operai torinesi avevano partecipato Tasca e
Terracini. Più volte negli anni successivi A. Gramsci dovette riconoscere che
essi non erano in alcun modo preparati a una offensiva che avesse probabilità
di successo, non sapevano da dove incominciare un’azione per la conquista del
potere e chiedevano ... che lo facesse “il partito”.
20. Da notare che gli
stessi erano invece sicuramente sperimentati e capaci di predisporre un piano
per uno sciopero generale, per la fondazione di una cooperativa, per
organizzare una casa editrice, per condurre una campagna elettorale, ecc.
Insomma per tutti quei campi in cui si era svolta fino allora l’attività del
movimento socialista e sindacale italiano e quella di gran parte dei partiti
della Seconda Internazionale.
Tutto il
movimento socialista italiano si connotava da una parte per
l’estremismo e il massimalismo sul piano tattico, nelle iniziative singole
spesso frutto dell’improvvisazione e dell’indignazione di individui e gruppi a
cui il partito non dedicava né addestramento pratico né orientamento politico e
ideologico e tanto meno direzione e dall’altra parte per il riformismo
nella strategia per cui gli obiettivi generali del movimento si configuravano
sempre come richieste che la direzione rivolgeva al governo o allo Stato
borghesi che per loro natura né volevano né potevano soddisfarle.
Non vi erano nel PSI alcuna
iniziativa di partito né alcuna direzione relativa all’armamento e
all’addestramento all’uso delle armi e ad operazioni militari: tutto quanto fu
fatto sul piano dell’armamento era frutto di iniziative individuali e
l’addestramento o era frutto di iniziative individuali o derivava dal servizio
militare che i lavoratori prestavano nelle forze armate della borghesia: ciò
tra l’altro comportava che il partito non svolgeva alcuna elaborazione di
concezioni militari tattiche e strategiche appropriate al carattere della
classe operaia e delle altre classi popolari, distinte da quelle della
borghesia e derivate dall’elaborazione della esperienza militare che le masse
facevano nel corso dei tumulti, delle rivolte, degli scontri di strada.
Giova infine ricordare che entrambe le
maggiori prove di forza del biennio (lo sciopero di aprile e l’occupazione di
settembre 1920) iniziarono per iniziativa dei padroni e che la risposta alla
loro iniziativa venne decisa dagli organismi dirigenti della FIOM, a conferma
della impreparazione del PSI a ogni azione rivoluzionaria.(21)
21. Vedere in proposito:
le due lettere (10 gennaio e 2 aprile 1924) di A. Gramsci a Z. Zini pubblicate
in Rinascita n. 17, 25 aprile 1964; il capitolo 6 della Storia del
Partito comunista italiano di P. Spriano vol. 1; i capitoli 14 e 15 di R.
Del Carria, Proletari senza rivoluzione.
La mancanza di una accumulazione delle
forze rivoluzionarie, di un processo nel corso del quale la classe operaia
avesse preparato fino ad un certo punto già all’interno della società borghese
gli strumenti e le condizioni del suo potere, risalta evidente come causa della
sconfitta anche nelle rivoluzioni tedesca, austriaca, finlandese, ungherese del
1918-1919: rivoluzioni popolari che portano alla dissoluzione del vecchio
Stato, ma non portano all’instaurazione di un nuovo Stato fino a quando non lo
fa la borghesia. Lo stesso confermano le vicende delle altre acute crisi
politiche (Polonia, Bulgaria, Romania, Cecoslovacchia, Jugoslavia, Turchia,
USA, Inghilterra, Francia, ecc.) che segnano la fine della Prima guerra
mondiale e gli anni immediatamente successivi.
Anche la successiva storia europea di
questo secolo conferma l’indicazione di Engels. Fondamentalmente è la storia
della guerra tra classe operaia e borghesia imperialista. Tutte le crisi
politiche borghesi e i contrasti tra gruppi e Stati imperialisti sono
condizionati da questa guerra sottostante. Ma i partiti comunisti non
affrontano la situazione in questi termini.
Negli anni ‘30 e ‘40 “meglio Hitler
che i comunisti” fu la parola d’ordine dei gruppi imperialisti francesi di
fronte al sorgere del nazismo in Germania e alla sua espansione in Spagna, in
Cecoslovacchia, ecc. “Meglio Hitler che il bolscevismo”, “meglio i giapponesi
che i comunisti” fu la regola dei gruppi imperialisti inglesi e americani. Lo
schieramento degli “Stati democratici” (USA, Inghilterra, Francia) contro il
governo repubblicano durante la guerra civile spagnola (1936-1939) fu
determinato dallo stesso motivo.
La borghesia imperialista infine,
nonostante la guerra in corso tra gruppi imperialisti, condusse la Seconda
guerra mondiale in funzione anticomunista, con l’obiettivo di stroncare il
movimento comunista in Europa e il movimento antimperialista di liberazione
nazionale nelle colonie e nelle semicolonie e di soffocare l’Unione Sovietica.
Strategicamente la contraddizione tra la borghesia imperialista e la classe
operaia era antagonista, la contraddizione tra gruppi imperialisti era
secondaria benché anch’essa antagonista. Sul piano tattico il rapporto tra le
due contraddizioni fu variabile durante l’intera Seconda guerra mondiale.
Se cerchiamo oggi una risposta alla
domanda: “Perché durante la prima crisi generale del capitalismo i partiti
comunisti dei paesi imperialisti non sono riusciti a guidare le masse popolari
fino alla conquista del potere e all’instaurazione del socialismo?”, la
risposta che ci viene dal bilancio dell’esperienza è: “Perché non compresero
che la forma della rivoluzione socialista era la guerra popolare rivoluzionaria
di lunga durata”. A causa di questa incomprensione essi o dispersero le loro
forze in insurrezioni sconfitte (Amburgo - ottobre 1923, Tallin - dicembre
1924, Canton - dicembre 1926, Shangai - ottobre 1926, febbraio 1927, marzo
1927) o subirono l’iniziativa della borghesia e le sue provocazioni (Germania
1919, Ungheria 1919, Italia 1920, Austria 1934, Asturie 1934) o ebbero una
linea incerta e contraddittoria (Germania 1933, Spagna 1936-1939, Francia
1936-1939).
I limiti dei partiti comunisti nei
paesi imperialisti durante la prima crisi generale (1900-1945) in sintesi si
riducono alla incomprensione della forma della rivoluzione socialista, a non
aver compreso (e tradotto in azione politica la comprensione) che la guerra
civile tra classe operaia e borghesia imperialista era la forma principale
assunta dalla lotta di classe in quegli anni. I partiti comunisti dei paesi
imperialisti non si posero mai su questo terreno come loro terreno strategico
principale, dal quale e in funzione del quale sviluppare tutto il loro lavoro,
anche quello pacifico e legale. Affrontarono con forza e con eroismo la
clandestinità e la guerra quando l’avversario le impose (in Italia e in
Jugoslavia nel 1926, in Portogallo nel 1933, in Germania nel 1933, ecc.), ma
come un evento straordinario, una pausa in un processo che “doveva” svolgersi
altrimenti. Allora anche i comunisti ritenevano che la rivoluzione proletaria
assumeva la forma principale della guerra nelle colonie e nelle semicolonie,
non nei “civili” paesi imperialisti, benché la borghesia nei “civili” paesi
imperialisti avesse a più riprese mostrato che era capace di radere al suolo
città e paesi, di passare per le armi decine di migliaia di uomini disarmati (a
Parigi nel 1871 le forze reazionarie dopo la resa avevano passato per le
armi circa 30.000 comunardi o supposti tali), di ricorrere a ogni mezzo pur di
conservare il proprio potere, di preferire l’occupazione straniera (“meglio
Hitler che il comunismo”) al potere della classe operaia. La storia della
Francia nel 1935-1940 è esemplare. Eppure J. Duclos, uno dei maggiori esponenti
del PCF di quegli anni assieme a M. Thorez, riassume così i compiti del partito
comunista nel 1935 in Francia “porre come obiettivo del movimento operaio la
lotta per la difesa e l’ampliamento delle libertà democratiche di fronte al
fascismo”.(22) La linea
del Fronte unico proletario e del Fronte popolare antifascista (approvata dal
VII Congresso dell’Internazionale Comunista, agosto 1935) nei paesi
imperialisti fu applicata come linea di alleanza con forze politiche e
sindacali e con classi senza l’autonomia del partito e senza la
direzione del partito comunista nel Fronte. Quindi portò il partito comunista a
essere continuamente ricattato dai partiti socialdemocratici e borghesi; a
dipendere, in una certa misura e in certi periodi, nella sua azione verso le
masse popolari dalla collaborazione dei dirigenti e dei partiti
socialdemocratici e riformisti; a subordinare al loro consenso la sua
iniziativa; a porsi compiti la cui attuazione dipendeva dal loro concorso; a
non assumere in prima persona la direzione e a non concepire il movimento come
guerra.
22. Dalla Prefazione di J.
Duclos del 1972 a G. Dimitrov, Oeuvres Choisies, Editions Sociales, pag.
XXI/XXII.
Sulla forma della
rivoluzione socialista il Centro dell’Internazionale Comunista ebbe una
posizione non definita. Per un certo periodo esso attese che in alcuni paesi
dell’Europa occidentale (in particolare Italia e Germania) la classe operaia
riuscisse a prendere il potere con partiti comunisti improvvisati o con
partiti, come il PSI, che avevano aderito all’Internazionale Comunista solo
formalmente, come ci si iscrive a un club.
In un secondo tempo
cercò di promuovere movimenti insurrezionali regolarmente falliti: espressione
di questa tendenza è la pubblicazione A. Neuberg, L’insurrezione armata.(http://scintillarossa.forumcommunity.net/?t=53107085)
In un terzo tempo
(1935 - VII Congresso) lanciò la linea dei Fronti popolari antifascisti di cui
i singoli partiti diedero interpretazioni molto diverse.
La concezione della
rivoluzione socialista come insurrezione (come conquista del potere in
un’azione di breve durata - cosa diversa è l’insurrezione come operazione
tattica nell’ambito di una guerra, come le insurrezioni della primavera del
1945 in Italia), ingabbia il partito comunista in una condizione in cui la
conquista del potere da parte della classe operaia diventa impossibile, salvo
casi eccezionali. Infatti nel periodo precedente l’insurrezione il partito e le
forze rivoluzionarie compiono grandi esperienze ma in campi che con la
conquista del potere hanno direttamente poco a che fare. Esse escono dalle
attività legali, che appunto hanno poco da vedere direttamente con la conquista
del potere e con l’instaurazione di uno Stato, solo in casi circoscritti e
occasionali, sulla spinta dell’emozione, nei tumulti o negli scontri di piazza,
con azioni autonome di individui o di piccoli gruppi, sulla spinta di
provocazioni delle forze della repressione, come frutto dell’indignazione. Non
si tratta mai di operazioni coordinate e combinate di una guerra di cui il
partito tira le fila e che dirige, di operazioni tattiche di un piano di guerra
predisposto dal partito, in cui le nostre forze hanno l’iniziativa e di cui
raccolgono con cura i risultati e gli insegnamenti.
Questo partito e le
forze rivoluzionarie raccolte attorno ad esso, che non hanno alcuna esperienza
di guerra e che non sono state formate da alcuna esperienza pratica alle arti
dell’attacco, della guerra, dell’organizzazione e della direzione degli uomini
in azioni militari, dovrebbero improvvisarsi come forze capaci di un’azione
rapida ed energica il cui esito si decide in pochi giorni, se non in poche ore
come un’insurrezione!
Il crollo dello Stato francese del
maggio-giugno 1940, la liquefazione di vari Stati nazionali davanti
all’avanzata di Hitler dopo il 1938 (Cecoslovacchia, Austria, Polonia, Belgio,
Olanda, Danimarca, Norvegia, Jugoslavia, Grecia, ecc.), il crollo del fascismo
nel luglio 1943 in Italia, ecc. non solo non portarono all’instaurazione della
dittatura del proletariato, ma il partito comunista non fu neanche in grado di
dare una direzione alle forze popolari che il crollo del vecchio Stato
liberava: perché non si era posto in condizioni tali da poter prendere la testa
del movimento politico nella nuova situazione; non si era preparato e non aveva
accumulato esperienza e strutture per dirigere la guerra; non aveva concepito
la forma della rivoluzione proletaria secondo la sua reale natura; non si era
abbastanza liberato, nella realtà e non solo nelle dichiarazioni, dalla
concezione valida al tempo della Seconda Internazionale (di partito più a
sinistra tra i partiti della società borghese, di partito che lotta per far
valere gli interessi della classe operaia nella società borghese, di portavoce
nella società borghese della sua parte più avanzata). Sarà solo
successivamente, nel corso della Seconda guerra mondiale che un po’ alla volta
i partiti comunisti assumeranno in una certa misura la direzione delle masse
popolari nella guerra contro il nazifascismo, nella Resistenza.
Persino nel settembre 1943 in Italia
manca ancora una linea di partito per spostare l’attività sul piano della
guerra. Dalle caserme che restano per alcuni giorni abbandonate o scarsamente
presidiate, i singoli comunisti recuperano armi ma per iniziativa individuale;
ai soldati, che a causa della vergognosa diserzione del re e di gran parte
degli ufficiali superiori, si sbandano, il partito per alcune settimane non dà
direttive né fornisce organizzazione e direzione. Solo nel corso del mese il
partito incomincia a svolgere il suo compito di promotore, organizzatore e
dirigente della guerra antifascista con i grandi risultati che conosciamo. Per
la prima volta nella loro storia le masse popolari italiane vedono all’opera un
partito comunista che dirige sul piano strategico e sul piano tattico una vasta
azione politica (che comprende anche il suo aspetto militare): per questo
giustamente abbiamo detto che la Resistenza è stata a tutt’oggi “il punto più
alto raggiunto finora nel nostro paese dalla classe operaia italiana nella
sua lotta per il potere”.
(http://www.carc.it/index.php?view=article&id=869)
Facendo il bilancio dell’esperienza
della guerra civile spagnola (1936-1939), il Partito Comunista di Spagna (ricostruito)
è arrivato alla conclusione di “indicare la via della guerra popolare
rivoluzionaria di lunga durata come la via verso la quale conduceva
l’esperienza del PCE, ma che il PCE non scoprì”. E in questo limite, che il PCE
non riuscì a superare, il PCE(r) vede la causa principale della sconfitta delle
masse popolari spagnole.(23)
Perché il crollo di uno Stato porti
all’instaurazione della dittatura del proletariato, occorre che essa sia
preceduta da un periodo di “accumulazione delle forze rivoluzionarie attorno al
partito comunista” e che il crollo dello Stato borghese avvenga nel corso di un
movimento diretto dal partito (l’avanzata dell’Armata Rossa in Europa Orientale
nel 1944-45; la Cina del 1949; Cuba nel 1959; i tre paesi dell’Indocina nel 1975).
Mao Tse-tung ha sviluppato in modo
approfondito gli aspetti universalmente validi dell’accumulazione delle forze
rivoluzionarie attorno al partito comunista nel partito stesso, nel fronte
delle classi rivoluzionarie e nelle forze armate rivoluzionarie e ha chiamato
guerra popolare rivoluzionaria di lunga durata questo processo in cui le forze
che il corso della vita sociale gradualmente suscita, vengono via via
raccolte dal partito comunista che le educa impiegandole nella lotta (secondo
il principio di “imparare a combattere combattendo”), le organizza, le unisce
in modo che crescano fino a prevalere sulle forze della borghesia imperialista.(24)
23. PCE(r), La guerra
di Spagna, il PCE e l’Internazionale comunista, 1993-1995, Edizioni
Rapporti Sociali. http://www.carc.it/index.php?view=article&id=1126
24. Mao Tse-tung, Sulla
guerra di lunga durata, 1938, in Opere di Mao Tse-tung, Edizioni
Rapporti Sociali, vol. 6. http://www.nuovopci.it/arcspip/articleab67.html
Mao ha studiato e indicato anche le
grandi fasi attraverso cui si sviluppa la guerra popolare rivoluzionaria di
lunga durata.
La fase della difensiva strategica: le
forze della borghesia sono preponderanti, le forze rivoluzionarie deboli; il
compito del partito è quello di raccogliere, addestrare e organizzare forze
impiegandole nella lotta evitando però di essere costretto a uno scontro
frontale e decisivo e mirare a preservare e accumulare le sue forze; la
borghesia cerca lo scontro risolutivo, il partito lo evita tenendo in pugno
l’iniziativa sul piano tattico.
La fase dell’equilibrio strategico: le
forze rivoluzionarie hanno raggiunto le forze della borghesia imperialista.
La fase dell’offensiva strategica: le
forze rivoluzionarie hanno raggiunto la superiorità rispetto alle forze della
borghesia; il compito del partito è quello di lanciare le forze rivoluzionarie
all’attacco per eliminare definitivamente le forze della borghesia, distruggere
il potere della borghesia e instaurare il nuovo potere in tutto il paese.
Ovviamente sta a noi comunisti italiani
trovare, con la riflessione e con la verifica nella pratica, i passaggi e le
leggi concrete della rivoluzione nel nostro paese. Ma noi troviamo illustrate
nelle opere di Mao Tse-tung le leggi universali della guerra popolare
rivoluzionaria di lunga durata, elaborate sulla base dell’esperienza della
prima ondata della rivoluzione proletaria e confermate dai vari episodi che la
compongono.
Il maoismo non è il marxismo-leninismo
applicato alla Cina o alle semicolonie o alle colonie e semicolonie. È la terza
superiore tappa del pensiero comunista, dopo il marxismo (Marx-Engels) e il
leninismo (Lenin-Stalin). Giustamente Stalin in Principi del leninismo
(1924) (http://www.bibliotecamarxista.org/stalin/prindellen.htm) aveva mostrato
che il leninismo non era l’applicazione del marxismo alla Russia o ai paesi
arretrati, ma era il marxismo dell’epoca in cui la rivoluzione proletaria
incominciava. Non era più possibile essere marxisti senza essere leninisti.
Analogamente oggi non si può più essere marxisti-leninisti senza essere
maoisti: vorrebbe dire non tenere conto dell’esperienza della prima ondata
della rivoluzione proletaria, di cui ovviamente Lenin non ha potuto fare il
bilancio. Ma tutti i tentativi di affermare il maoismo come terza superiore
tappa del pensiero comunista si impantanano in discorsi e riflessioni fumosi se
non poggiano sulla tesi che “la guerra popolare rivoluzionaria di lunga durata
è la forma universale della rivoluzione proletaria”. Questa tesi emerge
chiaramente dagli articoli Per il marxismo-leninismo-maoismo. Per il maoismo
e Sulla situazione rivoluzionaria in sviluppo pubblicati in Rapporti
Sociali n. 9/10 (1991) a cui rimandiamo per alcuni sviluppi particolari
(http://www.nuovopci.it/scritti/RS).
Mao Tse-tung non ha criticato negli
anni ‘30 e ‘40 la concezione della rivoluzione proletaria prevalente nei
partiti comunisti dei paesi imperialisti, anzi ha indicato la loro linea di
“allargamento della democrazia” (per la quale rimandiamo all’affermazione di J.
Duclos sopra riportata) come linea normale nelle loro circostanze (salvo
criticare quei comunisti cinesi che volevano adottare anche in Cina la parola
d’ordine del PCF “Tutto attraverso il Fronte” negando così l’autonomia del
Partito comunista cinese nel Fronte antigiapponese). Ciò attiene allo stesso
ordine di questioni per cui Lenin ha difeso l’organizzazione strategica
clandestina del partito russo in nome della particolarità russa fino a quando
il crollo della Seconda Internazionale nel 1914 dimostrò praticamente la
necessità universale di essa. Il marxista trae dalla pratica gli insegnamenti
che essa contiene, non inventa teorie. Le idee devono dar prova di sé nella
pratica, al negativo e al positivo, prima di poter essere rigettate le une e
valorizzate le altre. I partiti comunisti dei paesi imperialisti durante la
prima crisi generale del capitalismo hanno compiuto grandi opere, hanno
mobilitato grandi masse e hanno dato un contributo importante alla vittoria
contro il nazifascismo. Bisognava che i limiti di tutto questo grande lavoro
fossero mostrati dall’incapacità di valorizzare i frutti della vittoria sul
nazifascismo e di assumere il potere, perché essi potessero essere compresi e
criticati e la teoria maoista sulla forma universale della rivoluzione
proletaria assurgesse a parte del patrimonio teorico del movimento comunista.
La realtà dello svolgimento della
rivoluzione proletaria nel periodo 1900-1945 ha mostrato, anche nei paesi
imperialisti, che i partiti comunisti hanno unito la classe operaia e hanno
affermato la direzione della classe operaia sulle altre classi popolari quando
e nella misura in cui hanno saputo organizzare le masse popolari nella guerra
contro l’esistente regime della borghesia imperialista. Finché la loro azione
aveva al centro il tentativo di convincere socialdemocratici, cattolici, ecc. a
costituire un comune fronte di opposizione legale, un comune fronte
rivendicativo, un comune fronte antifascista, la loro azione ha avuto scarsi
risultati. Essi hanno diretto lavoratori cattolici, socialisti, senza partito
ecc. e hanno costretto anche i loro dirigenti a seguirli, quando si sono messi
alla testa della guerra cui le condizioni pratiche costringevano le masse.
Ma allora forse che noi comunisti
dobbiamo proclamare una guerra che non esiste, per affermare nel corso di essa
la direzione della classe operaia? Quando noi diciamo che la crisi generale
attuale ha la sua soluzione nello scontro tra mobilitazione rivoluzionaria e
mobilitazione reazionaria delle masse, noi diciamo che lo scontro tra le classi
e lo scontro tra i gruppi imperialisti si spostano sempre più sul terreno della
guerra. Oltre alle guerre dichiarate, è in corso una guerra non dichiarata
tra da una parte la borghesia imperialista che vuole e deve valorizzare il suo
capitale e che a questo fine deve schiacciare e torturare milioni di uomini e
donne e dall’altra le masse popolari che si difendono come possono e in ordine
sparso. La borghesia la combatte a suo modo, usando gli strumenti di cui
dispone (il denaro, le leggi “oggettive” dell’economia, i “normali” rapporti
sociali, l’autorità morale dei padroni e dei preti, la pressione delle
abitudini e della cultura corrente, le armi, i corpi ufficiali dello Stato, i
corpi extralegali, le istituzioni dello Stato, ecc.) per cacciare milioni di uomini
e donne nello stato di “esuberi”, per privare delle condizioni elementari di
vita - il cibo, la casa, il vestiario, l’istruzione, le cure mediche, ecc. -
milioni di uomini, per spogliare milioni di uomini di quanto avevano
conquistato, per stroncare i loro tentativi di emanciparsi e di organizzarsi,
per eliminare quei loro dirigenti che cercano di promuovere, organizzare e
dirigere la resistenza. A livello mondiale le vittime di questa guerra diffusa
e non dichiarata sono innumerevoli, maggiori di quelle di tutte le guerre
dichiarate che si svolgono nello stesso tempo, se è vero che solo i morti per
fame sono dell’ordine di 30 milioni all’anno. Anche nei ricchi paesi
imperialisti le vittime di questa guerra sono i milioni di uomini e donne
emarginati come esuberi, distrutti moralmente e fisicamente, abbrutiti,
depravati, prostituiti, in mille modi angariati e umiliati. È la famosa “lotta
di classe che non esiste più” nelle interessate dichiarazioni della borghesia
imperialista e dei suoi portavoce. Una lotta che noi comunisti dobbiamo
assumere come nostra, riconoscere, scoprirne le leggi, attrezzarci per
combatterla con successo portando sul campo di battaglia le forze che il corso
della vita sociale e lo sviluppo stesso della lotta suscitano. A nostra volta
dobbiamo combatterla a nostro modo: in conformità alla classe che la deve
dirigere, alle classi che la devono combattere e da cui provengono le nostre
forze, alle condizioni complessive dei rapporti tra le classi del nostro campo
e alle influenze reciproche tra il nostro campo e il campo nemico.
Il problema quindi è di essere
presenti e protagonisti sul terreno di questa guerra, di non farsi sorprendere
dagli eventi ma prevenirli, di orientare il nostro lavoro di oggi in vista di
questo corso inevitabile, di avere l’iniziativa in mano anche se il rapporto
delle forze oggi è largamente a favore dei nostri avversari e di capire le
leggi particolari di questa guerra (che non sono quelle della guerra in
generale né quelle delle guerre passate né quelle della guerra imperialista).
Questo è il terreno di scontro reale. Su questo terreno si decidono le sorti.
In funzione di questo terreno vanno decise e condotte tutte le campagne, tutte
le battaglie e ogni operazione. Occorre stabilire una giusta gerarchia strategica
tra le nostre campagne e battaglie e poi di passaggio in passaggio definire la
gerarchia tattica. Non si tratta oggi principalmente di propagandare la guerra,
di convincere con la nostra propaganda la classe operaia e le masse popolari a
prepararsi alla guerra. Non si tratta principalmente di “elevare la coscienza”
delle masse con la nostra propaganda. Si tratta principalmente di creare un
partito che lavori e sia capace di lavorare in funzione della guerra e che da
questa posizione diriga e promuova anche la lotta delle masse a favore della
pace contro la guerra imperialista verso cui la borghesia imperialista, con
tutte le sue misure concrete, ci sta trascinando anche se la teme e se ne
ritrae, resa timorosa dalle esperienze passate. Ovviamente per riuscire in
questo compito bisogna tra l’altro che noi impariamo a vedere che
effettivamente la borghesia imperialista, con le sue misure concrete in campo
economico, politico e culturale, 1. sta portando verso la guerra imperialista
(la mobilitazione reazionaria delle masse) e 2. sta conducendo una guerra di
sterminio contro le masse popolari. Chi non vede questo chiaramente, o ripiega
su illusioni opportuniste e conciliatorie (“non ci sarà alcuna guerra”) o
“proclama lui la guerra” .
A scanso di equivoci e visti i
precedenti delle Brigate Rosse che dalla propaganda armata per riunire le
condizioni per la ricostruzione del partito comunista sono passate a una
“guerra dispiegata” che esisteva solo nella fantasia dei militaristi (dove
quindi si sono trovate sole, abbandonate dalle masse, fino alla disgregazione e
alla corruzione anche delle forze che avevano già accumulato), occorre dire che
la guerra, in quanto forma principale della rivoluzione proletaria, è una
guerra particolare, differente dalle guerre che l’umanità ha conosciuto nei
secoli precedenti. Essa è una guerra di tipo nuovo perché ha un obiettivo
diverso da tutte le guerre precedenti: la conquista da parte della classe
operaia della direzione delle masse popolari nella loro mobilitazione contro la
borghesia imperialista per l’instaurazione del potere della classe operaia e
del socialismo. Essa si svolge in forme sue proprie. La comprensione delle
forme particolari di questa guerra nel nostro paese, l’elaborazione e
l’applicazione di linee e metodi conformi ad esse e la sua direzione
costituiscono il compito specifico del nuovo partito comunista.
Sulla natura del nuovo partito
comunista.
La classe operaia ha bisogno di un
partito comunista che,
1. abbia una linea giusta, cioè una
linea che raccolga e sintetizzi la tendenza positiva delle masse popolari nella
fase attuale (la seconda crisi generale del capitalismo),
2. abbia una forma organizzativa
adeguata alla attuazione della sua linea.
È sbagliato discutere della forma
organizzativa prima e senza avere risolto il problema della linea.
L’organizzazione nasce per attuare la linea.
L’organizzazione deve essere adeguata
alla linea. È la linea che determina l’organizzazione, benché ovviamente
l’organizzazione sia la condizione necessaria per attuare la linea. È la linea
che decide di quale organizzazione abbiamo bisogno oggi, non viceversa.
La classe operaia ha bisogno di un
partito comunista. Questa è la prima lezione che ci deve essere chiara e che
deriva sia dall’esperienza storica sia dall’analisi della società capitalista.
La classe operaia ha bisogno di un partito comunista perché il ruolo del
partito comunista non può essere assolto dalla classe nel suo complesso. Solo
l’avanguardia della classe operaia si organizza nel partito. La crisi della
forma-partito di cui tanto parlano i sociologi e i politologi borghesi e i loro
seguaci della sinistra borghese (Negri e negrini in testa), è la crisi dei
partiti riformisti e borghesi del vecchio regime. La crisi di quei partiti non
è la causa dei mali, l’evento da piangere, il guasto a cui porre rimedio: è un
aspetto della crisi del vecchio regime. Il riformismo è in crisi perché la
crisi generale impedisce che le masse possano strappare nuove riforme se non in
un movimento rivoluzionario per il quale i partiti riformisti sono inadatti: da
qui la crisi dei partiti riformisti che hanno perso il terreno oggettivo (le
riforme reali che nel periodo del capitalismo dal volto umano venivano
effettivamente strappate) su cui erano costruite le loro fortune. I partiti del
regime DC sono in crisi perché tutto il regime è in crisi. Esso era il regime
della conciliazione degli interessi (25) ed è in crisi come in tutti i paesi imperialisti sono in
crisi i regimi che avevano ben impersonato il dominio della borghesia nel
periodo della ripresa e dello sviluppo, i regimi impostisi alla fine della
Seconda guerra mondiale. Oggi sono all’ordine del giorno le forze borghesi che
si candidano a promotrici della mobilitazione reazionaria delle masse, benché
alle loro fortune si oppongano ancora sia l’arretratezza delle forze
rivoluzionarie sia la paura che tutta la borghesia ha della mobilitazione
reazionaria, avendo ripetutamente sperimentato che essa può trasformarsi in
mobilitazione rivoluzionaria.
La linea generale del futuro partito
comunista deriva dall’analisi della situazione che sopra abbiamo richiamato
trattando della forma della rivoluzione proletaria e che nella rivista Rapporti
Sociali è stata da più lati illustrata e che i CARC hanno ampiamente
propagandato.(26) Essa
può essere formulata nel modo seguente: “Unirsi strettamente e senza riserve
alla resistenza che le masse popolari oppongono e opporranno al progredire
della crisi, comprendere e applicare le leggi secondo cui questa resistenza si
sviluppa, appoggiarla, promuoverla, organizzarla e far prevalere in essa la
direzione della classe operaia fino a trasformarla in lotta per il socialismo,
adottando come metodo principale di lavoro e di direzione la linea di massa”.(27)
25. Sulla natura del
regime DC rimandiamo a Il fiasco del 27 marzo ‘94, in Rapporti
Sociali n. 16,
inverno 1994-1995. (http://www.nuovopci.it/scritti/RS)
26. La linea generale del partito, in F. Engels/10,
100, 1000 CARC per la ricostruzione del partito comunista, 1995, Edizioni
Rapporti Sociali. http://www.carc.it/index.php?view=article&id=865
27. Da Lo Statuto dei
CARC, 1997, Edizioni Rapporti Sociali, pag. 9. (http://www.carc.it)
28. Le formule esprimono
il concetto, ma il concetto non è interamente in nessuna formula. Se rendiamo
la formula autonoma dal concetto, facciamo quello che fanno i giuristi borghesi
rispetto alle formule delle Costituzioni, dei Codici, ecc., con il risultato
che ogni giurista e ogni organismo fa dire cose diverse a una stessa formula.
Se si scorrono le pubblicazioni dei CARC, si trovano via via formulazioni un
po’ diverse della linea generale del partito comunista, usate per esprimere lo
stesso concetto. Con esse via via si cerca di esprimere meglio il concetto, di
tenere meglio conto nella formula di un aspetto del concetto che è diventato
nella pratica importante, si pone cura ad elaborare ogni volta una formula
comprensiva di più aspetti, più esatta, più esauriente.
Questa linea è stata formulata anni
fa, la prima formulazione risale al 1992 (28) e non ha finora incontrato serie obiezioni da
parte di nessuna delle FSRS del nostro paese. Possiamo ritenere che sia
universalmente accettata, o si tratta di uno di questi casi in cui si continua
da una parte a dire che “bisogna fare un serio dibattito teorico e politico” e
dall’altra ci si guarda bene sia dal produrre qualcosa sia dall’entrare in
merito a quanto da altri prodotto? È comunque certo che nessuna FSRS ha
avanzato altre proposte di linea generale per il futuro partito comunista.
Abbiamo anche ripetutamente detto che
nessuna FSRS, e in particolare nemmeno i CARC che questa linea hanno formulato
e propagandano, erano in grado di attuare questa linea stante la qualità, la
natura delle forze in questione (quindi a prescindere da fattori quantitativi
che possono per un tempo più o meno lungo valere anche per il nuovo partito
comunista). In cosa consiste la qualità che, mancando alle FSRS, impedisce loro
di applicare la linea generale del futuro partito comunista se non in limiti
ristretti e monchi? Non è la composizione di classe, perché il partito
comunista lotterà per organizzare nelle sue file la parte d’avanguardia della
classe operaia, ma la composizione di classe del partito alla sua fondazione
avrà sicuramente dei limiti che solo con la lotta verranno superati.(29)
29. Tra le FSRS italiane
vi sono alcuni che sostengono che il nuovo partito comunista deve fin
dall’inizio avere tra i suoi membri folti e rappresentativi gruppi di operai
dei maggiori centri produttivi del paese.
Se questi compagni
pensano che il nuovo partito comunista debba nascere dal confluire e dal
mandato di varie organizzazioni operaie attuali (come “sponda politica” di
COBAS, SLAI-COBAS, ecc.), come all’inizio del secolo il partito laburista
inglese nacque per mandato e come “braccio politico” delle Trade Unions e come
nell’ultimo quarto del secolo scorso alcuni partiti socialisti, compreso il
PSI, nacquero dalle società operaie di mutuo soccorso e da altri organismi di
difesa della classe operaia, essi “vogliono riportare indietro l’orologio della
storia”.
Se invece vogliono che
si formino folti e rappresentativi gruppi di operai comunisti prima che si
costituisca il partito comunista, la loro è una pretesa arbitraria, simile a
quella dei compagni che vogliono un partito che nasca già riconosciuto dalle
masse come loro direzione. Questa pretesa contrasta sia con l’esperienza del
movimento comunista internazionale sia con il concreto sviluppo del movimento
comunista nel nostro paese. È una pretesa arbitraria che porta a rinviare a
tempo indeterminato la costituzione del partito comunista che è oggi necessaria
e possibile.
Noi condividiamo
invece pienamente la tesi che la formazione di folti e rappresentativi gruppi
di operai comunisti trasformerà il nuovo partito comunista e lo porterà a un
livello al cui raggiungimento i nostri attuali modesti inizi avranno
contribuito.
Noi riteniamo che la qualità che
distingue il partito comunista dalle FSRS è un insieme di caratteristiche la
principale delle quali consiste in questo: il partito comunista è un partito
clandestino, ma non è una società segreta. Vedremo di spiegare nel seguito il
senso e le ragioni di questa nostra tesi.
Il nuovo partito comunista ha il
compito strategico di essere il centro dell’accumulazione delle forze
rivoluzionarie: partito, fronte, esercito. Il suo compito è la raccolta e
l’impiego delle forze proletarie nella corsa alla mobilitazione rivoluzionaria
perché sopravanzi la mobilitazione reazionaria (o nella trasformazione della
mobilitazione reazionaria in mobilitazione rivoluzionaria), nella guerra
popolare rivoluzionaria di lunga durata, nella guerra civile che è la sintesi
della lotta delle masse popolari contro la borghesia imperialista. La classe
operaia per porsi come classe che lotta in proprio per il potere deve porsi come
contendente, forza politica sul terreno della guerra civile (sia che la
situazione che dovremo affrontare abbia per intero la forma di una guerra
civile, sia che abbia anche la forma di una guerra tra gruppi e Stati
imperialisti).(30)
30. In proposito v. Rapporti
Sociali n. 4, 1989, pagg. 26-31.
(http://www.nuovopci.it/scritti/RS)
Per condurre alla vittoria
l’accumulazione delle forze rivoluzionarie abbiamo bisogno di un partito che
sia fondato sulla classe operaia, che abbia come suo obiettivo l’instaurazione
del potere della classe operaia e l’eliminazione di quello della borghesia
imperialista, che subordini tutto a questo obiettivo, che selezioni e formi i
suoi membri, i suoi dirigenti, le sue organizzazioni e le sue relazioni con le
masse in funzione di questo obiettivo, che sia capace di resistere alla
controrivoluzione preventiva e all’aggressione scatenati dalla borghesia, che
faccia tesoro dell’esperienza dei 150 anni di storia del movimento comunista,
che impari dai successi e dalle sconfitte della rivoluzione proletaria, che
abbia quindi come teoria guida il marxismo-leninismo-maoismo.
Il partito deve quindi essere libero
dal controllo della borghesia. Non può vivere e operare nei limiti che la
borghesia consente, come un altro tra i partiti della società borghese. I
rapporti tra i gruppi imperialisti (e tra le rispettive forze politiche)
appartengono a una categoria diversa da quella a cui appartengono i rapporti
tra le masse popolari (e la classe operaia che ne è la sola potenziale classe dirigente)
e la borghesia imperialista: sono rapporti che si sviluppano secondo leggi
diverse. Quelli che in un modo o in un altro si ostinano a considerare questi
rapporti come rapporti dello stesso ordine, soggetti alle stesse leggi, o
cadono nel politicantismo borghese (parlamentare o affine) o nel militarismo,
infatti l’accordo alle spalle delle masse e la guerra imperialista sono le due
forme alterne con cui i gruppi imperialisti trattano i rapporti tra loro.
Questo vuol dire che la classe operaia
(e la sua espressione politica, il partito comunista) non è comunque
condizionata dalla borghesia? No. Vuol dire che il partito comunista non poggia
la sua possibilità di operare sulla tolleranza della borghesia, che il partito
assicura la propria possibilità di esistere e operare nonostante la
borghesia faccia ricorso alla controrivoluzione preventiva, che il partito,
grazie alla sua analisi materialista dialettica della situazione e ai suoi
legami con le masse, precede le misure della controrivoluzione preventiva
volgendole a proprio favore. Vuol dire che il partito è condizionato dalla
borghesia come in una guerra ognuno dei contendenti è condizionato dall’altro e
condizionato in ogni fase della guerra secondo il rapporto delle forze in
quella fase (difensiva strategica, equilibrio strategico, offensiva
strategica), ma non soggetto alle sue leggi e al suo Stato, come lo sono le
masse in condizioni normali.
Fin dal suo inizio il movimento
comunista (31) ha
chiaramente indicato che la classe operaia avrebbe preso il potere solo tramite
una rivoluzione.
Successivamente tutte le affermazioni
dei socialisti e dei revisionisti sulla via pacifica, democratica, parlamentare
al socialismo sono state nei fatti smentiti dalla borghesia stessa che, come F.
Engels già nel 1895 aveva ben indicato, non ha avuto alcuno scrupolo a
“sovvertire la sua legalità”, ogni volta che questa non assicurava la
continuità del suo potere. La partecipazione alle elezioni e in generale a una
serie di altre normali attività della società borghese, cui le organizzazioni
operaie partecipano in quanto libere associazioni tra le altre, sono stati
strumenti utili per affermare l’autonomia della classe operaia, ma da quando è
iniziata l’epoca della rivoluzione proletaria si sono trasformati in catene controrivoluzionarie
ogni volta che sono stati presi per strumenti per la conquista del potere.(32)
31. K. Marx-F. Engels, L’ideologia
tedesca, 1845-1846, in Opere, vol. 5.
http://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1846/ideologia
32. Questo concetto è ben
illustrato in Stalin, Principi del leninismo, 1924.
http://www.bibliotecamarxista.org/stalin/prindellen.htm
L’instaurazione della
controrivoluzione preventiva come cuore dello Stato borghese moderno
(http://www.nuovopci.it/scritti/mpnpci/01_03_03_contrivol_prev.html) rende
sistematico l’impegno della borghesia a prevenire e impedire lo sviluppo del
movimento comunista, prima di doverne reprimere il successo. Che quindi la
conquista del potere da parte della classe operaia debba realizzarsi per via
rivoluzionaria, non è una novità. Ciò che è nuovo, è che da quando la conquista
del potere da parte della classe operaia è storicamente all’ordine del giorno,
la direzione della sua lotta per il potere, cioè il partito comunista, deve
essere una struttura libera dal controllo della borghesia e dei suoi sistemi di
controrivoluzione preventiva, cioè deve essere un partito clandestino.
La classe operaia non può combattere
vittoriosamente la borghesia imperialista, non può porsi come suo contendente
nella lotta per il potere, non può condurre l’accumulazione delle forze
rivoluzionarie fino a rovesciare l’attuale sfavorevole rapporto di forza con le
forze della reazione, se ha una direzione che sottostà alle leggi e al potere
della borghesia.
Non si tratta solo di avere un
apparato illegale. Questo lo avevano già tutti i partiti della Terza
Internazionale: faceva parte delle condizioni per essere ammessi
nell’Internazionale Comunista, era la terza delle 21 condizioni, approvate dal
II Congresso (17 luglio - 7 agosto 1920). Essa diceva: “In quasi tutti i paesi
d’Europa e d’America la lotta di classe entra in un periodo di guerra civile.
In queste condizioni i comunisti non possono fidarsi della legalità borghese.
Essi devono creare ovunque, accanto all’organizzazione legale, un organismo
clandestino, capace di assolvere nel momento decisivo al suo dovere verso la
rivoluzione. In tutti i paesi in cui, a causa dello stato d’assedio o di leggi
d’eccezione, i comunisti non possono svolgere legalmente tutto il loro
lavoro, essi devono senza alcuna esitazione combinare l’attività legale con
l’attività illegale”.
L’esperienza della rivoluzione
proletaria durante la prima crisi generale del capitalismo (1900-1945) ha
mostrato che i paesi in cui i partiti comunisti possono svolgere tutto
il loro lavoro legalmente, se il loro lavoro ha successo nonostante la
controrivoluzione preventiva, si trasformano in paesi in cui i partiti
comunisti non possono svolgere il loro lavoro legalmente. Nei paesi dove la
borghesia imperialista non aveva la forza per operare autonomamente questa
trasformazione (ad es. la Francia degli anni ‘30), essa ha preferito
l’aggressione e l’occupazione straniera purché questa trasformazione si
attuasse. La lotta di classe è entrata in un periodo di guerra civile dovunque
la classe operaia non ha rinunciato alla lotta per il potere, quindi essa deve
condurre la sua lotta per il potere come una guerra civile e i partiti
comunisti, dovunque vogliono restare tali, non possono e non devono “fidarsi
della legalità borghese”. I partiti comunisti hanno potuto svolgere legalmente,
alla luce del sole tutto il loro lavoro solo dove la classe operaia
deteneva già il potere: nei paesi socialisti e nelle basi rosse.
L’esperienza ha mostrato che avere un
organismo clandestino che entri in azione “nel momento decisivo” non basta a
rendere i partiti comunisti capaci di dirigere con successo le masse e nemmeno
a evitare la loro decapitazione e decimazione. L’accumulazione e la formazione
delle forze rivoluzionarie deve avvenire “in seno alla società borghese”, ma
per forza di cose avviene gradualmente. Essa quindi non può avvenire
legalmente. Il partito deve evitare, con una conduzione tattica adeguata, di
essere costretto a uno scontro decisivo finché le forze rivoluzionarie non sono
state accumulate fino ad avere raggiunto la superiorità su quelle della
borghesia imperialista. Non basta quindi creare un organismo clandestino
“accanto all’organizzazione legale”. È il partito che deve essere clandestino,
è l’organizzazione clandestina che deve dirigere l’organizzazione legale e
assicurare comunque la continuità e la libertà d’azione del partito. Il partito
comunista deve essere un partito clandestino e dalla clandestinità muovere
tutti i movimenti legali che sono necessari e utili alla classe operaia, al
proletariato e alle masse: questa è la lezione della prima ondata della
rivoluzione proletaria.
L’esperienza ha dimostrato che i
partiti comunisti per adempiere con successo al loro compito devono “combinare
l’attività legale con l’attività illegale” nel senso preciso
che l’attività illegale dirige ed è
fondamento e direzione dell’attività legale,
che l’attività illegale è principale e
l’attività legale è ad essa subordinata,
che l’attività illegale è assoluta e
l’attività legale condizionata, relativa al rapporto delle forze tra classe
operaia e borghesia imperialista, relativa alle decisioni che la classe
dominante reputa convenienti per se stessa.
L’esperienza ha altresì dimostrato che
questo preciso genere di combinazione di attività illegale con l’attività
legale non deve essere fatta dai partiti comunisti solo nei paesi in cui “a
causa dello stato d’assedio o di leggi d’eccezione” la borghesia ha limitato
l’attività legale, ma deve essere fatta in ogni paese, prima che la borghesia
metta in atto stati d’assedio o leggi d’eccezione, prima che imponga
all’attività politica del proletariato limiti legali più ristretti di quelli
che impone ai singoli gruppi della classe dominante o comunque imponga limiti
più ristretti di quelli vigenti. La borghesia imperialista impone in ogni caso
all’attività politica della classe operaia, del proletariato, delle masse
popolari limiti di fatto che i membri della classe dominante non hanno (limiti
di tempo, di danaro, di spazi, di cultura, accesso alle armi, ecc.) e che fanno
sì che per la stragrande maggioranza delle masse popolari anche gran parte dei
diritti riconosciuti legalmente restino una presa in giro, diritti sulla carta.
La terza delle 21 condizioni di
ammissione alla Terza Internazionale era stata formulata per avviare la
trasformazione in partiti bolscevichi (bolscevizzazione) dei vecchi partiti
socialisti che, come il PSI, avevano aderito all’Internazionale Comunista
perché così lo comportava il vento che tirava tra le masse, ma restavano assolutamente
inadeguati a svolgere la funzione di direzione delle masse nel movimento
rivoluzionario del loro paese.(33)
Era stata introdotta per correggere la “insufficienza rivoluzionaria” dei
vecchi partiti socialisti che facevano la fila per aderire alla Terza
Internazionale. Ma era stata formulata in termini concilianti, con concessioni
alle resistenze presenti in questi partiti a trasformarsi in partiti adeguati
ai compiti dell’epoca. In conclusione l’esperienza ha dimostrato che la terza
condizione per l’ammissione alla Internazionale Comunista era inadeguata. Nei
paesi imperialisti i partiti comunisti che nacquero facendola propria si
dimostrarono incapaci di far fronte ai propri compiti, anche per la concezione
riduttiva, subordinata dell’azione clandestina che in essi permase e che la
terza condizione recepisce.(34)
33. Si veda in proposito
il Programma de L’Ordine Nuovo e della sezione socialista torinese,
aprile 1920. http://www.nuovopci.it/classic/gramsci/perinps.htm
34. Basta che un partito
comunista sia clandestino perché possa svolgere con successo il suo compito?
Ovviamente no. Il fattore principale del successo di un partito comunista è la
sua linea politica. Se la linea politica è sbagliata, la struttura clandestina
non salverà il partito dalla sconfitta. Tuttavia la struttura clandestina
renderà meno difficile al partito tirare la lezione delle sconfitta e
correggere la linea.
Il successo del
partito comunista in definitiva dipende dal suo legame con le masse: una linea
giusta sviluppa il legame con le masse, una linea sbagliata riduce il legame
con le masse, lo ostacola. Se un partito comunista clandestino mantiene una
linea sbagliata, alla lunga non riuscirà neanche a conservarsi come partito
clandestino e sarà sconfitto anche su questo terreno, perché la clandestinità
del partito comunista non è principalmente il frutto della applicazione di una
tecnica, ma può essere conservata solo grazie al legame con le masse, al
sostegno che il partito riceve dalle masse, cioè alla linea giusta del partito.
Ne segue che concepire l’azione del
partito comunista come un’azione strategicamente legale, considerare la
legalità come la regola e la clandestinità come l’eccezione che entra in azione
nei momenti d’emergenza, non prevenire il momento in cui la borghesia cerca di
stroncare il partito, non costruire il partito in vista e in funzione della
guerra civile, è non conformarsi alle leggi della rivoluzione proletaria. I
partiti comunisti che si sono comportati in questa maniera (da quello italiano
a quello cinese,(35)
tedesco, spagnolo, indonesiano, cileno, ecc. ecc.) hanno pagato dure lezioni.
La clandestinità non impedisce di
sviluppare un’ampia azione legale nella misura in cui le condizioni lo
comportano, anzi rende possibile ogni genere di azione legale, anche le
attività meno “rivoluzionarie”, che diventano strumento per legare
organizzativamente al campo della rivoluzione le parti più arretrate delle
masse popolari e influenzarle. D’altra parte la clandestinità non si improvvisa
e un partito costruito per l’attività legale o principalmente per l’attività
legale e che subisce l’iniziativa della borghesia, difficilmente è in grado di
reagire efficacemente all’azione della borghesia che lo mette fuori legge, che
lo perseguita. Un partito legale non è inoltre in grado di resistere
efficacemente alla persecuzione, all’infiltrazione, alla corruzione,
all’intimidazione, ai ricatti, alle azioni terroristiche della
controrivoluzione preventiva, della “guerra sporca”, della “guerra di bassa
intensità” e del resto dell’arsenale di cui si è munita la borghesia
imperialista per opporsi all’avanzata della rivoluzione proletaria. Un partito
legale non è in grado di raccogliere e formare le forze rivoluzionarie che il
movimento della società genera gradualmente e di impegnarle via via nella lotta
per aprire l’ulteriore strada al processo rivoluzionario, in questo modo
addestrandole e formandole.
35. Parliamo del Partito
comunista cinese fino al 1927.
Il partito comunista deve quindi
essere una direzione clandestina, deve essere un partito che si costruisce
dalla clandestinità e che dalla clandestinità tesse la sua “tela di ragno” e
muove la sua azione di ogni genere in ogni campo. Deve essere un partito che è
strategicamente clandestino (quindi ha sempre il suo retroterra strategico
clandestino), ma destina una parte dei suoi membri a svolgere compiti nella
lotta politica legale, nel lavoro legale di mobilitazione delle masse e crea
tutte le strutture legali che la situazione consente di creare. Il rapporto
numerico tra le due parti varia a secondo delle situazioni concrete;
attualmente e per un tempo ancora indeterminato nel nostro paese sarà
decisamente a favore della parte legale.
Il nuovo partito comunista italiano
deve avere una direzione strategica clandestina, ma attualmente la classe
operaia e le masse svolgono la stragrande maggioranza della loro attività
politica, economica e culturale non clandestinamente e sono pochi i lavoratori
disposti a impegnarsi in un lavoro clandestino. L’attività di difesa e di attacco
dei lavoratori si svolge oggi in gran parte alla luce del sole, con attività
legalmente tollerate dalla borghesia, scoraggiate e ostacolate ma non vietate.
È del tutto inconsistente ogni tentativo (fatto con l’esempio e/o con la
propaganda) di indurre gli operai e le masse popolari ad abbandonare questo
terreno (in questo vano tentativo consistette la deviazione militarista delle
Brigate Rosse). Ogni tentativo in questo senso porta solo a lasciare campo
libero ai revisionisti, agli economicisti, ai borghesi. Solo man mano che la
borghesia impedirà lo svolgimento legale delle attività politiche e culturali
che le masse sono abituate a svolgere legalmente, metterà fuori legge,
perseguiterà, ecc. (ed è sicuro che arriverà a tanto: basta vedere i “progressi”
che già ha fatto su questa strada per quanto riguarda la libertà di sciopero,
l’espressione del pensiero e la propaganda, la rappresentanza nelle assemblee
elettive; la borghesia non ha altra strada, benché per esperienza ne conosca i
pericoli e faccia mille sforzi per non imboccarla), solo man mano che i
progressi dell’azione del partito comunista, della classe operaia e delle masse
popolari, la loro resistenza organizzata al procedere della crisi e alla guerra
di sterminio che la borghesia imperialista conduce contro di esse, avrà
suscitato una controrivoluzione potente alla quale però il partito saprà tener
testa, solo allora, sulla base della loro esperienza, la classe operaia, il
proletariato e le masse popolari sposteranno una parte crescente delle loro
lotte e delle loro forze nella guerra, che solo allora diventerà la forma
principale in cui esse potranno esprimersi e nella quale il partito sarà in
grado di dirigerle vittoriosamente.
Il PCd’I nei primi anni venti aveva un
apparato clandestino, ma non la direzione clandestina; nel 1926 subì la messa
fuori legge; divenne clandestino perché costretto; perdette la direzione
(Antonio Gramsci); ancora nel luglio ‘43 non approfittò del crollo del fascismo
per costruire un esercito; si basò sull’alleanza con i partiti democratici per
un passaggio pacifico dal fascismo ad un nuovo regime borghese; nel settembre
‘43 lasciò disperdere il grosso dell’esercito costituito da proletari in armi
perché non era ancora in grado di dare ad essi una direzione concreta e non
approfittò del vuoto di potere e del materiale militare che la fuga del re e di
gran parte degli alti ufficiali aveva messo a disposizione di chi sapeva
approfittarne. Solo nei mesi successivi metterà la guerra al primo posto,
creerà le proprie formazioni armate antifasciste e antinaziste e costringerà a
seguirlo su questo terreno tutte le altre forze politiche che non vogliono
perdere i contatti con le masse e vogliono avere un ruolo nel dopoguerra.
Il KPD (Partito comunista tedesco) nel
corso degli anni ‘20 tentò varie insurrezioni (non casualmente fallite) e nel
1933 lasciò arrestare la direzione (Ernst Thaelmann); mantenne organizzazioni
clandestine, ma non riuscì a mobilitare sul piano della guerra né gli operai
comunisti (benché il KPD avesse avuto 5 milioni di voti alle ultime elezioni
nel 1933), né gli operai socialdemocratici, né gli ebrei e le altre parti della
popolazione che pure erano perseguitati a morte dai nazisti.
Il PCF (Partito comunista francese)
nel 1939 (il governo francese dichiarò guerra alla Germania il 1° settembre) si
trovò in condizioni tali che migliaia di suoi membri vennero arrestati dal
governo francese assieme a migliaia di altri antifascisti e l’organizzazione
del partito saltò quasi interamente. M. Thorez, segretario del PCF, rispose
alla chiamata alle armi! All’inizio del giugno 1940 il PCF “chiese” al governo
Reynaud di armare il popolo contro le armate naziste che dal 10 maggio
dilagavano in Francia e ovviamente la risposta fu il decreto del governo
“francese” che intimava a ogni “francese” che possedeva armi da fuoco di
consegnarle ai commissariati. Solo dal luglio 1940 in avanti, dopo che i
contrasti tra i gruppi imperialisti francesi erano sfociati in guerra civile
tra essi (il Proclama di De Gaulle da Londra è del 18 giugno 1940), il PCF
ricostruirà con eroismo e tenacia la sua organizzazione e solo a partire dal
1941 un po’ alla volta assumerà la guerra rivoluzionaria come forma principale
di attività.
Da tutta questa esperienza storica,
che lezione dobbiamo trarre? Che oggi dobbiamo costruire il nuovo partito
comunista a partire dalla clandestinità. La clandestinità è una questione
strategica, non tattica. È una decisione che dobbiamo prendere oggi per essere
in grado di far fronte ai nostri compiti di oggi e a quelli di domani. La
guerra popolare rivoluzionaria di lunga durata è la strategia del nostro
movimento comunista e oggi è l’aspetto dirigente della nostra attività. Le
lotte pacifiche sono un aspetto della tattica del movimento comunista e oggi
sono l’aspetto più diffuso dell’attività delle masse. Non dobbiamo subire
l’iniziativa della borghesia, né aspettare che la mobilitazione delle masse ci
abbia preceduto. Dobbiamo prendere l’iniziativa, precedere la borghesia e
predisporre le nostre attuali piccole forze in modo che siano in grado di
accogliere, organizzare e dirigere alla lotta le forze che il corso della crisi
generale del capitalismo produce di per sé tra le masse, ma con
fertilità che sarà accresciuta dalla giusta attività del partito comunista.
Lenin creò un centro stabile e
inattaccabile dalla polizia zarista per l’attività del partito nell’impero
russo, venendo in Europa quando ancora poteva viaggiare. Non attese di essere
costretto alla clandestinità dall’avversario. Dal punto di vista operativo, è
meno difficile impiantarsi nella clandestinità quando si è ancora legali, che
quando si ha già la polizia alle calcagna e si è stati sorpresi dall’iniziativa
dell’avversario.
Dobbiamo iniziare dall’esempio del
grande Lenin di cui la storia ha confermato la giustezza e adattarlo alla
nostra condizione.
Quanto abbiamo fin qui detto dovrebbe
bastare a tracciare chiaramente la discriminante tra da una parte l’impresa a
cui lavoriamo e a cui chiamiamo tutte le FSRS a lavorare e dall’altra tutti i
progetti di “partiti rivoluzionari nei limiti della legge”.
36. Su questo tema vedere
CARC, F. Engels/10, 100, 1000 CARC per la ricostruzione del partito
comunista, 1995, Edizioni Rapporti Sociali
(http://www.carc.it/index.php?option=com_content&view=article&id=865) e
Pippo Assan, Cristoforo Colombo, Edizioni della vite, 1988 Firenze.
(http://www.nuovopci.it/scritti/cristof/indlibr.htm)
Dovrebbe bastare anche a tracciare una
discriminante tra questa impresa e le varie società segrete che vivono e
operano nel nostro paese. Vale tuttavia la pena aggiungere qualche parola su
questo argomento. Dopo le sconfitte subite dalle Brigate Rosse all’inizio degli
anni ‘80, la linea della “ritirata strategica” non ha portato alla autocritica
della deviazione militarista che aveva generato la sconfitta e alla raccolta
delle forze per la ricostruzione del partito comunista,(36) ma alla nascita di un certo numero di
“società segrete”. In quell’epoca la borghesia cercava di consolidare la sua
vittoria e la destra del “movimento” con alla testa Negri e negrini, che ne
rappresenta gli interessi, era per la liquidazione dell’organizzazione
rivoluzionaria e il ritorno alla “lotta legale”. Ciò che la borghesia cercava
di ottenere con le persecuzioni, con le torture, con il regime carcerario
speciale e con i premi a delatori (“pentiti” o “dissociati”), la destra
costituita dai vari promotori della dissociazione, lo rafforzava con la linea
della liquidazione dell’attività e dell’organizzazione clandestina. Va dato
atto ai compagni che hanno costituito le società segrete di essersi opposti
alla destra e alla liquidazione dell’organizzazione rivoluzionaria. Questo è il
lato positivo della loro azione. Il lato negativo è comprovato praticamente
dalla generale sterilità della loro attività: questa deriva dal fatto che il
movimento comunista ha bisogno del partito comunista, non della società
segreta. Già Marx ed Engels negli anni ‘40 del secolo scorso avevano affrontato
e risolto questo problema su cui ora bisogna tornare. La critica di Marx ed Engels
alla società segreta come forma organizzativa è riassunta nella conclusione del
Manifesto del partito comunista: “I comunisti disdegnano di nascondere
le loro opinioni. Essi dichiarano apertamente che i loro scopi non possono
essere raggiunti che con l’abbattimento violento di ogni ordinamento sociale
esistente”. I tratti caratteristici e distintivi della società segreta sono che
la sua esistenza è nota solo ai membri, che i membri stessi sono iniziati per
livelli (livelli di iniziazione) alla conoscenza degli obiettivi, delle
concezioni, dei metodi, della struttura e della direzione della società. Una
struttura di questo genere è stata ed è adatta ad aggregare attorno a un capo o
a un gruppo ristretto una cerchia di persone ognuna delle quali ha un interesse
personale alla protezione e in generale ai vantaggi che la società segreta
offre ai suoi membri. Che una struttura del genere fosse adatta alla borghesia
per la concorrenza cui deve partecipare e che fosse adeguata anche alla
protezione degli addetti ad alcuni mestieri finché restavano un gruppo
ristretto i cui membri si assicuravano mutua protezione, è un dato
dell’esperienza storica oltre che un risultato a cui si può pervenire
riflettendo sui rapporti sociali reali (sulle “costituzioni materiali”) nelle
due situazioni indicate. È però altrettanto evidente che non è una forma adatta
a raccogliere e formare le forze rivoluzionarie che si conteranno, e si
dovranno contare, a milioni e a sollevare alla lotta politica una classe che i
correnti rapporti sociali della società borghese escludono dalla attività
politica. Va ricordato che i rapporti sociali materiali (effettivi) della tarda
società feudale europea non escludevano la borghesia dall’attività politica,
per la quale infatti la borghesia disponeva di tempo, di risorse materiali e di
cultura. La escludevano le leggi e le consuetudini del mondo politico che
riservavano le attività politiche ai nobili e al clero, non la escludevano le
relazioni sociali, la società civile. Nella società borghese invece i rapporti
sociali reali escludono dall’attività politica, legalmente dichiarata
accessibile a tutti, proprio gli operai e il grosso del resto delle masse
popolari, perché li privano del tempo, dei mezzi e della cultura necessari a
prendervi effettivamente parte: la partecipazione è limitata agli individui
capaci individualmente di uno sforzo particolare come i membri del partito
comunista. Quindi il partito comunista è un partito del tutto particolare.
Marx ed Engels entrarono nella Lega
dei Giusti (che poi divenne Lega dei Comunisti) all’inizio del 1847 dopo che i
suoi membri si convinsero ad eliminare i tratti della società segreta. La lotta
contro le società segrete è stata una costante di Marx ed Engels anche negli
anni successivi. Nella lettera a F. Bolte del 23 novembre 1871, nel pieno della
lotta contro la società segreta fondata da Bakunin nell’Internazionale, Marx
arriva ad affermare “L’Internazionale fu fondata per mettere al posto delle
sette socialiste o semisocialiste, la vera organizzazione di lotta della classe
operaia. ... Lo sviluppo delle sette socialiste e quello del vero movimento
operaio sono sempre in proporzione inversa. Sino a che le sette hanno una
giustificazione (storica), la classe operaia non è ancora matura per un
movimento storico indipendente. Non appena essa giunge a questa maturità, tutte
le sette diventano essenzialmente reazionarie. ... La storia
dell’Internazionale è stata una costante lotta del Consiglio generale contro le
sette ...”. La struttura della società segreta è inconciliabile con la raccolta
ampia delle forze della classe operaia, del proletariato, delle masse popolari
attorno al partito comunista, è inconciliabile con il centralismo democratico
come principio organizzativo del partito. Il partito comunista è vitalmente
interessato a far conoscere alle masse più ampie possibile la sua esistenza, il
suo programma, il suo statuto, i suoi orientamenti, le sue linee particolari:
esso non lotta per prendere in mano il potere esso stesso, lotta perché la
classe operaia prenda il potere e per costruire uno Stato “in via di
estinzione”, cioè in cui il governo delle masse da parte delle masse popolari
stesse abbia la massima estensione possibile. Nel libro Che fare? Lenin
difende la necessità di un partito clandestino di cui i rivoluzionari di
professione sono una componente essenziale: ma il progetto che egli delinea non
ha nulla a che vedere con una società segreta.
Noi possiamo e dobbiamo riconoscere i
meriti che le società segrete hanno avuto negli anni ‘80 come raccolta provvisoria
di compagni che la sconfitta aveva lasciato senza orientamento e in condizioni
organizzativamente molto deboli. Ma proprio la mancanza di risultati di rilievo
dell’attività da esse svolta da allora a questa parte conferma a ogni compagno
l’incompatibilità delle società segrete con il movimento comunista e, quello
che più ci importa chiarire, la differenza tra il partito comunista clandestino
e una qualunque società segreta.
Quale è la fonte principale delle
forze di un partito comunista? Le masse. E come possono le masse conferire la
loro forza a un partito di cui ignorano non solo il programma e gli
orientamenti, ma addirittura l’esistenza? La concezione del partito come
società segreta deriva da una concezione del mondo che sottovaluta le potenzialità
rivoluzionarie delle masse (l’attività della società segreta deve sostituire le
masse popolari e compiere l’attività che esse dovrebbero svolgere ma non
svolgono) e sopravvaluta la forza della borghesia (essa sarebbe in grado di
controllare completamente le masse, con i mass media e con i servizi segreti,
di annullare l’effetto dell’esperienza dello sfruttamento come fonte della
coscienza degli operai e dei membri delle altre classi oppresse e fruttate: le
tesi sulla sussunzione reale totale della società nel capitale espongono questa
concezione che legittima le società segrete). La società segreta deriva da una
concezione che, come quella militarista, pone la tecnica al primo posto; essa
porta quindi i rivoluzionari a scontrarsi con la borghesia sul suo terreno (le
tecniche delle operazioni segrete, i complotti, ecc.) su cui essa è più forte
di noi anziché a legarsi alle masse e a costringere la borghesia a scontrarsi
su un terreno che a noi è favorevole. Di conseguenza alla lunga porta i rivoluzionari alla
sconfitta.
Come il militarismo, la società
segreta è insomma figlia di una concezione del mondo interclassista: tutti
totalmente sussunti nel capitale e quindi moltitudine composta di individui.
Sul terreno dello scontro politico, questa concezione interclassista si esprime
in questo: la tecnica è la tecnica, è la stessa per ogni classe. La guerra
tutte le classi la fanno alla stessa maniera, dicono i militaristi; la
cospirazione e le operazioni clandestine tutte le classi le fanno alla stessa maniera,
dicono i seguaci delle società segrete. Noi invece riteniamo che ogni classe
combatte alla propria maniera, se vuole vincere e la classe d’avanguardia, la
classe operaia può costringere la classe reazionaria, la borghesia imperialista
a misurarsi sul suo terreno perché nella guerra popolare rivoluzionaria non si
tratta di un gruppo imperialista che vuole strappare qualche ricchezza a un
altro gruppo imperialista, ma si tratta di conquistare la direzione delle masse
popolari, conquistandone il cuore.
Ci resta da affrontare un’ultima
obiezione: è possibile costituire un partito clandestino?
Noi siamo convinti che la costituzione
di un partito comunista clandestino è necessaria e possibile. La classe operaia
ha avuto nel passato partiti clandestini in varie circostanze: nella Russia
zarista, nella Cina coloniale e nazionalista, nell’Italia fascista, nella
Germani nazista e in molti altri paesi. I revisionisti moderni hanno alimentato
e alimentano l’immagine terroristica della borghesia onnipotente quando hanno
voluto togliere alla classe operaia uno strumento indispensabile per la sua
lotta rivoluzionaria. “Dio è dappertutto”, “Dio vede tutto”, “Dio può tutto”
dicono i preti; i portavoce della borghesia e i revisionisti hanno sostituito
queste vecchie frasi minatorie dei preti con “La CIA vede tutto, è dappertutto,
può tutto”, “Non si muove foglia che la CIA non voglia” e hanno promosso uno
scalcinato carrozzone di assassini, di spioni e di mercenari assetati di denaro
e di carriera al ruolo di Dio onnipotente! Se i movimenti rivoluzionari negli
USA non sono riusciti a svilupparsi, secondo loro la colpa è della CIA e della
FBI. Se le Brigate Rosse sono state sconfitte, è “merito dello Stato che a un
certo punto ha incominciato a combatterle sul serio”. E così via. L’onnipotenza
della classe dominante è stato sempre un tema della propaganda terroristica
della stessa classe dominante (basti considerare la letteratura sulla Mafia e
sulle altre Organizzazioni Criminali) e una giustificazione sia degli opportunisti
sia degli sconfitti che non vogliono riconoscere i propri errori e fare
autocritica. Se la ferocia e l’intelligenza delle classi dominanti potessero
fermare il movimento di emancipazione delle classi oppresse, la storia sarebbe
ancora ferma allo schiavismo. La società borghese è ricca di contraddizioni, ha
in sé tanti fattori di instabilità, il suo funzionamento è costituito da un
numero illimitato di traffici e di movimenti e per il suo funzionamento la
borghesia è costretta ad avvalersi delle masse che nello stesso tempo calpesta:
insomma è una società che più delle precedenti società di classe presenta lati
favorevoli all’attività delle classi oppresse, che siano decise a battersi. La
possibilità per un partito comunista di costituirsi e operare clandestinamente
dipende in definitiva dal suo legame con le masse e questo a sua volta dipende
dalla linea politica del partito: se essa è o no conforme alle reali condizioni
concrete dello scontro che le masse stanno vivendo (pur avendone esse una
coscienza limitata). Questa è la chiave del successo o della sconfitta di un
partito comunista. Per quanto feroce e capillare sia la controrivoluzione
preventiva, essa non è mai riuscita a impedire la vita e l’attività di un
partito comunista che aveva una linea giusta e sulla base di questa linea
attingeva all’inesauribile serbatoio di energie e di risorse di ogni genere
costituito dalla classe operaia, dal proletariato e dalle masse popolari. È
quello che con tutte le nostre forze cercheremo che sia anche il nuovo partito
comunista italiano.
Manchette
I sei grandi apporti del maoismo al pensiero
comunista
1. la guerra
popolare rivoluzionaria di lunga durata, strategia universale della rivoluzione
socialista;
2. la rivoluzione di
nuova democrazia nei paesi semifeudali, componente della rivoluzione
proletaria;
3. la lotta di
classe nella società socialista, mezzo indispensabile per condurre avanti la
transizione al comunismo;
4. la linea di
massa, principale metodo di lavoro e di direzione del Partito verso le masse popolari;
5. la lotta tra le
due linee nel Partito, principio per lo sviluppo del Partito e la sua difesa
dall’influenza della borghesia;
6. il Partito e ogni
suo membro è oggetto della rivoluzione (processo di CAT) oltre che soggetto.
Per un’esposizione di dettaglio vedere L’ottava
discriminante in La Voce n. 9 (novembre 2001), n. 10 (marzo 2002) e
n. 41 (luglio 2012). La settima discriminante è illustrata nell’articolo
omonimo di La Voce n. 1 (marzo 1999) ripubblicato su questo numero della
rivista. Le sei discriminanti del partito comunista rispetto ai revisionisti
moderni, alla sinistra borghese e agli sterili aborti del movimento comunista
(trotzkisti, bordighisti, “comunisti di sinistra”, operaisti, ecc.) sono
illustrate nell’articolo Le sei discriminanti e i quattro problemi di Rapporti
Sociali n. 19 (agosto 1998) (http://www.nuovopci.it/scritti/RS). Ricordiamo
ai nostri lettori che presso le Edizioni Rapporti Sociali (http://www.carc.it)
sono disponibili le Opere di Mao Tse-tung.
Nessun commento:
Posta un commento