Paolo Babini
Partito dei CARC – Direzione Nazionale
A Unire le
Forze Comuniste
Cari compagni,
il Partito dei CARC ha ricevuto il vostro appello,
riportato subito qui di seguito. L'appello è rivolto a un insieme di forze, di
cui pubblicate documenti. Sia l'appello sia i documenti sono stati analizzati
in dettaglio, e commentati. Lo scrivere sui vari testi è, di fatto, una
risposta al vostro appello, perché scrivendo sullle questioni si mette ordine
nei pensieri, si distingue e (ci) si unisce. In La Voce del (nuovo)PCI, n.
46, marzo 1945, p. 26, leggo: "Chi oggi pensa di poter costruire la
rivoluzione e imparare a pensare senza scrivere, è come un muratore che vuol
costruire una casa senza cemento e malta." Scrivo dunque come un muratore
usa cemento e malta.
Vi inoltro l'insieme dei documenti con i commenti
(Note) contrassegnati con numero progressivo e tra parentesi quadre.
Paolo Babini
Partito dei CARC - Direzione Nazionale
Firenze, 11 aprile 2014
Appello
Questo
appello è rivolto a tutti coloro che hanno a cuore le sorti del movimento
comunista, non per nostalgia o per paura dell’oblio, ma perché stanno dalla
parte del popolo e riconoscono che la lotta per il comunismo è, in definitiva,
l’unica strada possibile per salvare l’umanità dalla rovina in cui sta
precipitando.
Nota 1
[L’appello
più che “per salvare l’umanità”, ha da essere per costruire una società nuova, e quindi per
costruire una nuova umanità. L’umanità si salva rinnovandosi. Più volte in
questa raccolta ci si richiama alla necessità del legame tra partito e masse, e
tale legame si costruisce nello slancio in avanti.
Questo
è un principio generale, di cui una definizione scientifica sta nel nome stesso
del Partito dei CARC. Questo è infatti partito dei comitati che appoggiano la
resistenza delle masse popolari, e quindi un movimento a difesa di qualcosa, ma
"per il comunismo", cioè per trasformare tale resistenza in
costruzione di una nuova società.
Il
principio è oggettivo (non è un dogma di qualche scuola di pensiero), e infatti
emerge spontaneo in dichiarazioni come la seguente: “Sono fiduciosa e
spero di raccogliere non quello che viene definito il malcontento della gente,
ma la voglia di partecipazione della gente” (Miriam Amato, candidata a sindaco
del M5S per le amministrative del 2014 a Firenze.)]
Bando
agli ottimismi di facciata e ai ridicoli trionfalismi: oggi il movimento
comunista italiano e della maggior parte del mondo è in crescente crisi. Il suo
destino sarà quello di sprofondare ulteriormente nell’oblio, se non interveniamo
soggettivamente, con un’azione volontaria e consapevole, tempestivamente e
guidati da una giusta concezione della situazione e dei suoi possibili
sviluppi.
Nota 2
[Noi
non siamo gli ultimi barlumi del vecchio movimento comunista, ma l’aurora del
nuovo. “Ottimismi di facciata e ridicoli trionfalismi” sono tali se espressioni
di chi vuole trasmettere passione senza averla e ripetere dogmi senza avere
scienza. Al di là di questi, però, la fiducia nella vittoria è ingrediente
fondamentale per ogni unità, sia essa entro un partito, sia tra formazioni
diverse che convergono in una, sia tra il partito e le masse popolari. Nel
Terzo Congresso del Partito dei CARC, nell’ottobre del 2013, abbiamo usato le
parole d’ordine “osare sognare” e “osare vincere”.]
Da
anni diciamo che la situazione di crisi del sistema capitalista presenta per
noi comunisti una situazione favorevole, ma ancora non riusciamo a sviluppare
le nostre forze. Purtroppo, ancora, ogni nostra (piccola) organizzazione pare
godere di sé e della sua pochezza.
Da
più parti e sempre più spesso, però, si sviluppano riflessioni sul nostro stato
attuale e appelli ad unire le forze. È un buon segno ma è ancora poco: non
siamo ancora nemmeno a livello di un serio dibattito, quindi per realizzare passi
avanti concreti ci vorrà ancora un po’. Ma non perdiamoci d’animo.
Lo
scambio di idee, concezioni ed esperienze e il dibattito costruttivo tra le
varie componenti è una premessa fondamentale per la loro unità. Di pari passo
può e deve procedere anche una pratica comune come banco di prova delle idee e
concezioni di ciascuno e della effettiva volontà e capacità di unire le forze
che sono concretamente disponibili a superare i limiti attuali e che per questo
sanno liberarsi dell'opportunismo e del settarismo che ancora le caratterizza.
Con
questo blog vogliamo contribuire allo sviluppo di un rapporto tra le varie
componenti del movimento comunista (singoli compagni e organizzazioni) tale da
favorirne l’unità per la costruzione di un partito comunista in Italia, del
partito della classe operaia organizzata.
Per
favorire l'avvio del dibattito abbiamo raccolto e pubblicato come post distinti
sul blog una serie di documenti già prodotti da alcune delle principali
organizzazioni comuniste del nostro paese. La scelta è incentrata
principalmente (ma non solo) su quei documenti che trattano soprattutto il
problema dell'unità (o della frammentazione) del movimento comunista.
Invitiamo
tutte le organizzazioni, i gruppi e i singoli compagni ad intervenire
costruttivamente nel dibattito, a segnalarci e/o inviarci ulteriori documenti
adatti ad essere inseriti un questo sito e a contribuire con commenti ai
documenti presenti.
Nella
pagina Testi inseriremo titoli e testi digitali che riteniamo interessanti
inerenti il movimento operaio, rivoluzionario, comunista. Anche per questo
ambito chiediamo la collaborazione più ampia a segnalare titoli, inviare testi
e digitalizzare ciò che è ancora su carta.
Se
volete ricevere email in ogni occasione in cui un post viene pubblicato, inviateci
la vostra email tramite il modulo Seguici tramite email. Se volete essere
contattati compilate il Modulo di contatto.
Buon
lavoro a tutti.
Collettivo Aurora – La crisi del
sistema capitalista e la ricostruzione del partito comunista in Italia
Un appello alla trasformazione dei rapporti tra i comunisti, per l’unione
delle forze e la rinascita del movimento comunista.
15 settembre 2013
Da dove veniamo?
Il secolo scorso è stato il secolo in cui le
rivoluzioni socialiste e proletarie hanno cambiato radicalmente la vita
dell’uomo sul pianeta.
Nota 3
[Il collettivo Aurora non indica quale differenza
c'è tra rivoluzioni socialiste e rivoluzioni proletarie. “Rivoluzione
proletaria” è termine che include “rivoluzione socialista” e “ rivoluzione di
nuova democrazia”. Stante che finora le rivoluzioni sono state tutte di nuova
democrazia, la rivoluzione socialista ancora ha da farsi(1). La questione non è
terminologica. La rivoluzione socialista si fa nei paesi imperialisti, e qui la
rivoluzione ancora non è stata fatta. La questione della mancata rivoluzione
nei paesi imperialisti è cruciale, nel senso che se non si comprende perché
il movimento comunista internazionale
non è avanzato in questo terreno nessun avanzamento è possibile, e nemmeno,
soprattutto, la ricostruzione del partito che è aspirazione comune di tutte le
forze a cui è stato rivolto l’appello sopra citato.]
NOTE
1. Vedi Manifesto programma del
(nuovo)PCI [in http://www.nuovopci.it/scritti/mpnpci/indicmp.html, [da qui in poi MP]: “Non la rivoluzione
socialista, ma la rivoluzione proletaria, combinazione di rivoluzioni di nuova
democrazia e di rivoluzioni socialiste, avrebbe posto fine al modo di
produzione capitalista.” (MP, ed. Rapporti Sociali, Milano, 2008, p. 42]
Sia dove l’ordinamento sociale è diventato socialista,
sia dove le rivoluzioni proletarie (di nuova democrazia, antimperialiste) hanno
abbattuto i regimi reazionari, sia dove l’ordinamento sociale è rimasto quello
capitalista, sia, infine, dove gli imperialisti sono riusciti a mantenere la
loro oppressione coloniale, praticamente in ogni angolo della terra nulla è
stato più come prima.
Nota 4
[Per il collettivo Aurora rivoluzione di nuova
democrazia e rivoluzione proletaria sono lo stesso. Intende "rivoluzioni
socialiste" quelle dove si è iniziata la costruzione del socialismo,
probabilmente.]
La lotta della classe operaia e delle masse popolari
dirette dai partiti comunisti rivoluzionari ha cambiato in meglio la vita di
miliardi di persone: negare questo è come affermare, oggi, che la terra è piatta.
Non vi è dubbio che l’esperienza della costruzione
del socialismo e della lotta per l’emancipazione dei popoli dallo sfruttamento
capitalista sia stata ricca di insegnamenti. Un’esperienza fatta di successi e
di sconfitte, di cose giuste e cose sbagliate, di concezioni giuste e di
concezioni sbagliate.
Nota 5
[Il collettivo Aurora non dice qui quali sono le
cose giuste e quali quelle sbagliate, quali sono le concezioni giuste e quelle
sbagliate. Lo dicesse, potremmo distinguere tra le varie forze comuniste cui qui
si fa appello perché si riuniscano. Infatti quelle forze si differenziano per
le concezioni, e le loro concezioni o sono giuste o sono sbagliate, visto che
fanno affermazioni diverse sullo stesso oggetto (esempio: delle due
affermazioni “la terra si muove” e “la terra è immobile” una sola è vera, e
l’altra è sbagliata). Unirsi non significherà certo mettere insieme giusto e
sbagliato, come in cucina non si mette insieme alimento sano e alimento marcio,
che se lo si facesse il cibo sarebbe veleno.]
In ogni caso
è stata complessivamente un’esperienza positiva che ha fatto fare un gran passo
in avanti all’umanità, un passo in avanti ben più ampio di qualsiasi altro
passo compiuto in precedenza e ancora mai eguagliato fino ad oggi. Miliardi di
individui si sono tirati fuori, ciascuno con ruoli diversi, dall’esistenza
praticamente e intellettualmente quasi primitiva in cui, ancora nel XVIII
secolo la classe borghese li teneva soggiogati e in pochi anni hanno compiuto
un balzo in avanti che nessuno avrebbe mai immaginato.
I detrattori delle rivoluzioni proletarie non fanno
altro che esaltarne i difetti (veri o presunti) e negarne i successi.
Essi, a qualsiasi classe appartengano,
non fanno altro che esprimere la gioia, la paura, l’interesse della borghesia –
classe di aguzzini e sfruttatori – che
se l’è vista brutta e che non è ancora tranquilla dopo il grande rischio che ha
corso: scomparire come classe.
Ma come per la borghesia è stato necessario più di
mezzo millennio per affermarsi come classe dirigente nel mondo, anche per il
proletariato saranno necessarie più ondate successive per rivestire quel ruolo.
La storia non procede in linea retta e non è nemmeno una serie di cicli
indistinti che si ripetono; è piuttosto una spirale che sale ininterrottamente
portando ogni anello ad un livello più alto di sviluppo.
Nota 6
[Il (nuovo)PCI afferma lo stesso. Vedi al riguardo
MP, P. 87.]
Dalle rivoluzioni vittoriose molta acqua è passata
sotto i ponti. La maggior parte dei partiti comunisti che le hanno condotte ha
abbandonato il ruolo rivoluzionario[1] che in passato aveva indubbiamente
svolto. Ma oggi, nel cuore di una crisi mondiale del sistema capitalista, di
fronte alla crescente sofferenza dei popoli del pianeta, non spiccano ancora
partiti e organizzazioni d’avanguardia a promuovere un nuovo e necessario
sconvolgimento radicale dello stato delle cose presenti.
Sono orami passati oltre 50 anni dall’inizio
“ufficiale” e dispiegato della svolta revisionista dei principali partiti
comunisti del mondo, con alla loro testa il Partito Comunista dell’Unione
Sovietica (PCUS). Il Partito Comunista Italiano (PCI) ha seguito anch’esso la
linea revisionista che prevalse al XX congresso del PCUS (1956).
In quella fase, spinto anche dall’opposizione
antirevisionista capeggiata dal Partito Comunista Cinese (PCC), anche nel
nostro paese prese corpo un lavoro tanto tenace e coraggioso, quanto purtroppo
ancora inconcludente, per ridare alla classe operaia un partito comunista che
non seguisse la svolta revisionista, cioè un partito comunista rivoluzionario.
Nota 7
[Non condividiamo questa affermazione. Consideriamo
il (nuovo)PCI un buon risultato del lavoro tenace e coraggioso di cui qui si
parla, indipendentemente dalla sua grandezza(1). Il partito comunista è
rivoluzionario se ha determinate caratteristiche che lo pongono in grado di
costruire la rivoluzione, di estendere il legame con le masse, ecc. È
rivoluzionario già a livello embrionale, come è già "uomo" o
"donna" l'essere umano appena nato.
Il collettivo Aurora forse ritiene che un partito è
tale solo se riconosciuto dalle grandi masse popolari. I casi sono due: o sorte
all’improvviso come tale, già riconosciuto dalle grandi masse, oppure è
costruito passo dopo passo, come succede in ogni attività che gli esseri umani
fanno, a partire da quelle con un minimo di complessità.]
NOTE
1. “Il (n)PCI, fondato nel 2004 e che nel 2010 ha
tenuto il suo I Congresso, è l’unico vero embrione di partito comunista
presente in Italia, l’unico che ha assunto con chiarezza e coerenza il compito
di guidare la classe operaia a fare dell'Italia un nuovo paese socialista
adottando la strategia della guerra popolare rivoluzionaria di lunga durata
(GPRdiLD) applicata ad un paese imperialista qual è il nostro e di cui la
clandestinità del partito è la traduzione in termini organizzativi.” (Tesi del Terzo Congresso del Partito dei
CARC, Tesi 16, novembre 2012, in http://www.carc.it/index.php?option=com_content&view=article&id=1517:le-tesi-approvate-al-iii-congresso&catid=148:concezione-del-mondo&Itemid=155
In Italia, anziché “salvare” l’allora PCI dalla
deriva revisionista e condurlo o riportarlo sulla via rivoluzionaria, la
maggior parte dei comunisti più avanzati (o che comunque si ritenevano
rivoluzionari) abbracciò la linea di fondare un nuovo partito. Già questa
considerazione, così come quella del ruolo del PCC nella lotta contro il
revisionismo, sono state fin dall’inizio fonte di profonde divisioni
all’interno del movimento comunista.
1.
.
Nota 8
[Il problema non era se la sinistra del movimento
comunista dovesse stare dentro o fuori del primo PCI, ma che quella sinistra,
dentro e fuori del PCI, avesse una concezione, una linea e una strategia
giuste. Che elaborasse concezioni giuste e togliesse concezioni sbagliate, per
usare i termini del collettivo Aurora. Le concezioni sbagliate invece
persistettero e sono riconducibili a due tendenze, cioè il dogmatismo e il
movimentismo.(1)]
NOTE
1. Utile al riguardo
l’articolo Secchia, due importanti
lezioni in http://www.nuovopci.it/voce/voce26/secchia.html-e
Il primo tentativo di portata significativa di
costruzione di un partito comunista rivoluzionario in opposizione alla deriva
revisionista fu la costruzione, da parte di alcuni compagni che uscirono dal
PCI, del Movimento marxista-leninista italiano che pubblicava il settimanale
Nuova Unità e che nel 1966 fondò il PCd’I (m-l).
Il PCd’I (m-l), che dalla sua fondazione aveva come
segretario Fosco Dinucci, ottenne nel 1968 il riconoscimento del PCC e del
Partito del Lavoro d’Albania. L’Unione della gioventù comunista (m-l) era
l’organizzazione giovanile del partito.
Dal 1966 in poi nel PCd’I (m-l) vi furono numerose
scissioni:
- nel
1969 da parte di Angiolo Gracci e Dino Dini (Partito Comunista d’Italia
(marxista-leninista) – Linea Rossa, scioltosi nel 1991 nel PRC);
- nel
1969 da parte dell’Organizzazione Comunista Bolscevica Italiana
marxista-leninista(OCBI m-l),
- nel
1970 da parte di Osvaldo Pesce che fonda l’Organizzazione Comunista
d’Italia-marxista-leninista (OCI m-l);
- nel 1979 da parte del gruppo raccolto attorno
al quotidiano Ottobre, su posizioni più attente all’Unione Sovietica e alla
sinistra del PCI;
- nel
1980 da parte di Ubaldo Buttafava (La nostra lotta) su posizioni filo-albanesi.
Un’altra importante componente che si distaccò dal
PCI fu l’Unione dei Comunisti Italiani (marxisti-leninisti) fondata nel 1968.
Pubblicava Servire il Popolo e aveva a capo Brandirali. Nel 1972 si trasformò
in Partito Comunista (Marxista-Leninista) Italiano. Negli anni successivi il
PC(m-l)I si frantumò in seguito a numerosi scissioni.
L’OCBI m-l nel 1977 fondò il Partito marxista-leninista
italiano (PMLI), con a capo Scudieri, che pubblica a tutt’oggi Il Bolscevico.
Nel 1991 PCd’I (M-L) e l’UGC (M-L) confluirono nel
Movimento per la Rifondazione Comunista.
Parallelamente le organizzazioni comuniste
combattenti, in primo luogo le Brigate Rosse, hanno condotto un processo che
pure ha visto una vasta partecipazione – in diversa misura e forma – di operai,
lavoratori, studenti ed elementi delle masse popolari alla lotta contro i
padroni, il loro Stato e le loro strutture repressive. Anche in questo ambito
il tentativo di ricostruzione del partito comunista ha trovato le sue spinte e
i suoi contrasti, ma è indubbiamente stata la questione centrale che,
insoddisfatta, ha portato alla crisi e infine al crollo di quelle
organizzazioni (che pure avevano raccolto anche quantitativamente un
significativo contributo di massa).
Da allora ad oggi il movimento comunista italiano è
stato via via sempre più costellato da una miriade di organizzazioni che si
formano, si frazionano, si sciolgono.
Le principali di queste organizzazioni hanno in
qualche modo quell’origine comune, un passato più o meno ereditato che ne
determina per certi versi le caratteristiche. Quindi una parte fondamentale
dell’attuale movimento comunista ha avuto un obiettivo comune: nasceva come
tentativo di dare alla classe operaia del nostro paese un partito comunista
rivoluzionario, per strappare la classe operaia stessa dall’influenza della
deriva revisionista della direzione del vecchio PCI. Questo tentativo non ha
dato i frutti sperati: abbiamo mancato l’obiettivo fondamentale. A distanza di
oltre 50 anni è necessario, oltre che onesto, ammetterlo e farci i conti.
D’ora in poi indicheremo con il termine componenti
del movimento comunista quei partiti, organizzazioni, gruppi, collettivi,
organismi, ecc. che in qualche modo si rifanno al comunismo e si dichiarano
comuniste.
Nota 9
[Partiti, organizzazioni, gruppi, collettivi,
organismi che si rifanno al comunismo e che si dichiarano comunisti sono anche
il PRC e il PdCI e quello che ne resta, il CSP di Rizzo, tutti i gruppi
trotzkisti. Quale relazione stabilire con essi? Quale ruolo (positivo,
negativo) possono avere nell’opera di ricostruzione del partito comunista (che
sarà uno, e non saranno tre e nemmeno due)? Al loro interno ci sono o no
elementi delle masse popolari il cui contributo è utile allo scopo?]
Oggi praticamente ogni componente del movimento
comunista si sta ponendo il problema della ricostruzione del partito comunista
o dell’unità dei comunisti. In sostanza ogni compagno che vuole ragionare con
la propria testa si pone il problema della frammentazione (frantumazione,
disgregazione o che dir si voglia) del movimento comunista e delle sue sorti
nel prossimo futuro.
Anche quelle componenti che ritengono di essere esse
stesse il partito comunista necessario (di averlo cioè già costruito) sono
costrette ad ammettere che il loro partito non è ancora all’altezza dei compiti
che spetterebbero ad esso, nonostante alcuni di questi partiti siano stati
fondati da 10, 20 anni o oltre (PMLI, (n)PCI, PCm, ecc.). È segno che nel
movimento comunista del nostro paese è in corso, apertamente riconosciuto o
meno che sia, un sano processo di autocritica. Dobbiamo afferrarlo
coscientemente e saldamente, condurlo a fondo per fare un significativo passo
avanti, se vogliamo riconquistare la perduta influenza sulle larghe masse, per
arrivare finalmente a individuare e quindi a smuovere le cause che ci
inchiodano ad un ruolo ancora sostanzialmente ininfluente nella lotta di
classe.
Quindi possiamo affermare che nel nostro paese manca
un partito comunista all’altezza dei compiti che la fase attuale pone di fronte
ad esso.
Nota 10
[Per stabilire se si è o no all’altezza dei compiti
bisogna definire quali compiti, come questi compiti si articolano e si pongono
uno di seguito all’altro. Il nostro compito principale non è difenderci
dall’attacco della borghesia imperialista, ma trasformare la difesa spontanea
delle masse popolari in attacco, e questo attacco si sviluppa come Guerra
Popolare, che si articola in campagne, che a loro volta si articolano in
battaglie. La domanda dunque è se esiste oggi un partito adeguato a condurre la
guerra e adeguato alla specifica battaglia da fare.]
Questa è una delle questioni fondamentali (dal punto
di vista soggettivo la principale) che noi comunisti dobbiamo affrontare. È una
questione che riguarda sostanzialmente tutti i comunisti dei paesi
imperialisti; risolvendo il problema nel nostro paese contribuiremo alla sua
soluzione anche negli altri paesi.
Ognuna delle diverse componenti del movimento
comunista sviluppa la propria attività rivolta alle masse popolari, ai
lavoratori, alla classe operaia, contro la borghesia, contro i padroni, contro
gli apparati repressivi dello Stato, ecc. Allo stesso tempo ognuna di esse
sviluppa una propria attività interna di formazione, di dibattito, ecc.
Organizzazioni e partiti, gruppi e collettivi
esistenti, nonostante i numerosi tentativi, raramente riescono a mettere in
campo iniziative comuni che producono un livello di unità superiore.
In Italia il numero delle componenti del movimento
comunista oscilla tra fondazioni e scioglimenti, divisioni (molte) e fusioni
(poche), espulsioni (molte) e reclutamenti (pochi). Indicativamente si aggirano
tra le 20 e le 30 organizzazioni che raccolgono ciascuna dai 3 – 4 fino a 80 –
100 militanti. Quelle oltre i 50 militanti sono comunque solo due o tre.
Complessivamente saremo, ad essere generosi con noi stessi, circa 2000 compagni
organizzati.
Naturalmente il grado di militanza è anch’esso molto
vario. Alcuni membri sono militanti a tempo pieno, qualcuno pure funzionario, e
questi svolgono un ruolo attivo permanente; altri, all’opposto, sono più che
altro collaboratori saltuari più o meno scoordinati, la terra di mezzo è la più
nutrita.
Parallelamente a questa situazione del movimento
comunista, i passi indietro che la classe operaia e le masse popolari sono
costrette a subire in termini di condizioni di vita e di lavoro, sono la
dimostrazione che la classe operaia ancora non è armata (cioè non ha il suo
reparto d’avanguardia: il partito comunista): quando combatte – e ancora capita
raramente in rapporto agli attacchi che subisce – lo fa disarmata.
Non bastano le buone intenzioni del membri e delle
componenti del movimento comunista: nessuna di esse esercita oggi una
significativa influenza politica sulla la classe operaia e sulle masse popolari
tale da favorire il suo armarsi. Nessuna di esse, nel corso della sua storia –
e per alcune si tratta anche di oltre 20 anni di esistenza sotto la medesima
sigla – si è sviluppata fino a diventare un punto di riferimento nazionale per
una cerchia di lavoratori e masse popolari che superino il qualche centinaio di
elementi. Non vale contare le sporadiche iniziative che periodicamente mettiamo
in piedi e alle quali arrivano a partecipare complessivamente qualche migliaio
di persone: queste non sono indice di influenza politica sulla classe, benché
restino comunque, in alcuni casi, una dimostrazione di dignitosa capacità
organizzativa e soprattutto di lodevole spirito di abnegazione dei membri che
più vi si impegnano.
Se la nostra influenza fosse reale, dalle diverse
iniziative che sviluppiamo dovremmo conseguentemente trovare risorse per
accrescere le nostre forze, anche di poco. Ma poco per poco, essere in 20 o 50
dopo 10 o 20 anni di lavoro non può significare altro che noi non siamo ancora
in grado di convincere un lavoratore – che per di più subisce crescenti
attacchi dai padroni – a lottare nelle nostre fila, cioè a combattere, almeno
in teoria, meglio organizzato, più forte, più incisivo. La nostra proposta,
nelle sue varie forme in cui si esprime per mano e bocca delle 20 o 30
organizzazioni comuniste, non convince.
Nota 11
[Il collettivo
Aurora non tiene conto del contesto in cui il lavoro si svolge. Si tratta di
fare la rivoluzione socialista, cioè di fare la rivoluzione in un paese
imperialista, cosa mai fatta in precedenza, e l’opera quindi richiede il tempo
necessario. Calcolando l’opera in termini quantitativi non si arriva a capo di
nulla. Il primo PCI, durante tutto il periodo fascista non ebbe crescita
quantitativa, né crebbe il suo legame con le masse, ma nemmeno sviluppò una
teoria adeguata su come fare la rivoluzione in un paese imperialista, tanto che
al momento in cui le masse popolari in grande numero si rivolsero a lui per
avere prospettive e armi, nel settembre del 1943, fu colto di sorpresa.
“Persino nel settembre 1943 in Italia manca ancora
una linea di partito per spostare l’attività sul piano della guerra. Dalle
caserme che restano per alcuni giorni abbandonate o scarsamente presidiate, i
singoli comunisti recuperano armi ma per iniziativa individuale; ai soldati,
che a causa della vergognosa diserzione del re e di gran parte degli ufficiali
superiori, si sbandano, il partito per alcune settimane non dà direttive né
fornisce organizzazione e direzione. Solo nel corso del mese il partito
incomincia a svolgere il suo compito di promotore, organizzatore e dirigente
della guerra antifascista con i grandi risultati che conosciamo. Per la prima
volta nella loro storia le masse popolari italiane vedono all’opera un partito
comunista che dirige sul piano strategico e sul piano tattico una vasta azione
politica (che comprende anche il suo aspetto militare): per questo giustamente
abbiamo detto che la Resistenza è stata a tutt’oggi “il punto più alto
raggiunto finora nel nostro paese dalla classe operaia italiana nella sua
lotta per il potere”. (http://www.carc.it/index.php?view=article&id=869)”(1)]
NOTE
1. Quale partito comunista? (da La Voce 45 del (nuovo)Partito
comunista italiano, anno XV novembre 2013, pubblicato in questa raccolta.
Ma ancora peggio possiamo dire se consideriamo per
un momento noi stessi come un unico corpo del movimento comunista: da alcune
decine di migliaia che eravamo negli anni 70 siamo rimasti meno di 2000
compagni! Con un seguito tra le masse che fatica a superare lo stesso numero
dei militanti.
Nota 12
[Perché Aurora paragona il numero odierno con quello
dei bei tempi che furono, e non con quello dei bei tempi che saranno? Il
passato dei proletari non è così bello da perderci tempo in nostalgie.]
La questione risulta ancor più grave se consideriamo
verosimile quello che molte componenti dichiarano: “la situazione è
favorevole”. Per fortuna!
Nota 13
[Se il contadino
dice: “la mucca è da mungere” che c’è di grave? Grave è non mungerla, non
quello che il contadino dice.]
Siamo pochi, divisi e non cresciamo! Per amara che
sia, questa verità la dobbiamo riconoscere, dobbiamo smetterla di ignorarla,
dobbiamo studiarla a fondo per capirne le cause e trovare la soluzione. Questo
è il nostro compito! Ogni altra cosa a cui dedichiamo risorse ed energie, non è
altro che una forma di tentativo di sopravvivenza, al di là delle nostra più
buona volontà: è un tirare a campare, anche se non ci sembra tale.
Nota 14
[Bisogna fare un bilancio, effettivamente. Magari
con entusiasmo, e non con l’amarezza di cui parla il collettivo Aurora,. Senza
pensieri felici non si vola, dice Peter Pan, e se non si vola la foresta dall’alto
non si vede. Pensiamo, dunque,
consapevoli che “quello che pensiamo, decide di ciò che facciamo”(1).]
NOTE
1. Dobbiamo
imparare a pensare, in
La Voce del (n)PCI, n. 46, marzo
2014, p. 23, in http://www.nuovopci.it/voce/voce46/lavoce46.html#Dobbiamo_imparare_a_pensare
L’accusa di pessimismo e di disfattismo rivolta a
chi si riconosce in questa visione della situazione del movimento comunista, o
comunque a chi mette in evidenza i nostri limiti, corrisponde al comportamento
da struzzi. Fingere che il bicchiere sia mezzo pieno ci mantiene fuori strada.
Non ci sono forse sufficienti motivi per combattere se viene a mancare
l’ottimismo di facciata che per tanto tempo molti di noi assumono? Forse che le
sofferenze e la rabbia di milioni di lavoratori non sono forza motrice
sufficiente a farci superare la nostra spiegabile demoralizzazione di fronte
alla nostra debolezza? È certamente più serio fare bene i conti con le nostre
debolezze e trovare la strada per superarle, ovviamente partendo dal vederle!
Nota 15
[La forza motrice non è la sofferenza dei
lavoratori. Il collettivo Aurora, a dispetto del proprio nome, privilegia i
toni oscuri. La demoralizzazione si supera quando abbiamo in mano (o in testa,
diciamo) sufficienti elementi per intraprendere con fiducia un’impresa che
l’umanità non ha mai compiuto, cioè fare la rivoluzione in un paese
imperialista. Il “primo motore” sta in questo. ]
È un problema di linea giusta?
In merito alle scissioni, espulsioni, fuoriuscite o
mancanza di crescita, ogni componente del movimento comunista dichiara
l’ineluttabilità della divisione da o dell’espulsione di sulla base di una
teoria giusta, più avanzata, più rivoluzionaria; oppure sostiene che la linea
seguita è giusta ma al proprio interno la volontà di applicarla è ancora
debole.
Non v’è dubbio che l’elaborazione teorica prodotta
dal movimento comunista nel suo complesso sia formata da idee giuste e idee
sbagliate, come è altrettanto vero (se pur non automatico) che da idee giuste
conseguono tattiche e strategie giuste e viceversa per le idee sbagliate.
La lotta ideologica nell’ambito del movimento
comunista è quel movimento cosciente determinato, in fin dei conti, dalla
contraddizione fondamentale tra borghesia e proletariato; è il riflesso nel
movimento comunista della lotta tra borghesia e proletariato; essa è pertanto
una forma della lotta di classe.
Quindi, ad un certo livello, la lotta ideologica
anche nel movimento comunista è lo scontro tra due poli di una contraddizione
antagonista.
Nota 16
[Ci sono idee giuste e idee sbagliate, dice il
collettivo Aurora, ma non dice quali. Non prende posizione, pensando che se lo
facesse non darebbe un buon contributo all’unità delle forze comuniste cui
aspira. Ma la realtà è dialettica, ed è dividendoci che ci uniamo, cioè
dividendo quelli che seguono una linea giusta da quelli che seguono una linea
sbagliata.
Il collettivo Aurora non dice nemmeno cosa distingue
le idee giuste da quelle sbagliate, cioè cosa distingue le idee che portano la
classe operaia alla vittoria da quelle che la portano alla sconfitta, le idee
della sinistra del movimento comunista dalle idee della destra. Una cosa che
distingue le une dalle altre è il fatto che le prime hanno da essere nuove,
hanno da essere costruite, non sono dogmi di scienza passata, lavoro morto (che
se bastasse quello non saremmo messi così male come il collettivo Aurora
ricorda) mentre le seconde non hanno bisogno di essere costruite, perché sono
null’altro che le vecchie idee della concezione borghese e della concezione clericale
del mondo, sono quelle del “si è sempre fatto così” o del fatto che “sì, in
teoria bisogna fare la rivoluzione, ma in pratica dobbiamo risolvere una serie
di problemi immediati e non abbiamo tempo da perdere in sperimentazioni
rischiose, per cui facciamo al modo antico.” Le idee della destra sono lì a
disposizione (come la mela che la strega dà a Biancaneve), quelle della
sinistra sono da farsi. Per questo ci
chiamiamo “carovana del (n)PCI”: perché avanziamo in terra nuova.]
La lotta ideologica è anche, più in generale, la
lotta per l’affermazione delle idee giuste e delle linee tattiche e strategiche
ad esse conseguenti. All’interno del movimento comunista, così come all’interno
del proletariato e di tutte le masse popolari in quanto classi, esistono anche
contraddizioni non antagoniste che determinano uno scontro di idee espressione
dei poli di quelle stesse contraddizioni. Si tratta di contraddizioni in seno
al popolo e non di contraddizioni antagoniste. Il loro superamento, a
differenza del superamento della contraddizione fondamentale tra borghesia e
proletariato, è un’unità superiore.
Oggi spesso nemmeno all’interno di ciascuna delle
componenti del movimento comunista di una certa dimensione (diciamo dai 20
membri in su) c’è una linea unitaria.
Nota 17
[La si condivida o meno, all'interno degli organismi
di organismi della carovana come il P-CARC e il (n)Pci una linea unitaria c'è.]
Spesso non c’è unità nemmeno sulle questioni più
generali: sulla mobilitazione delle masse, sul ruolo e i nostri compiti verso e
nei cosiddetti sindacati di regime e su quelli alternativi; sulle forme di
propaganda, sulle elezioni borghesi, sulla repressione, sull’ambiente, sui
movimenti di massa emergenti come ad esempio il Movimento 5 Stelle. Nemmeno c’è
unità sulla linea organizzativa, sulla linea della costruzione del partito
comunista. Questi sono solo alcuni esempi. Ognuna delle componenti del
movimento comunista attuale dovrebbe chiedersi: quanta unità abbiamo costruito
al nostro interno su questi punti fondamentali? Potremmo forse affermare con
certezza che l’unità costruita al nostro interno su questi punti è più forte
della divisone che ci separa da altre organizzazioni o da altri compagni?
Leggendo una serie di testi raccolti (vedi
Appendice) e di cui suggerisco l’analisi, emerge chiaramente che esiste, almeno
nelle dichiarazioni ufficiali, un’ampia convergenza – quando non un’identità di
vedute – su alcune questioni fondamentali (strategiche) e su numerose questioni
tattiche; una convergenza che spesso è anche più marcata di quanto lo sia
l’effettiva coerenza tra la teoria e la sua applicazione pratica di una stessa
organizzazione.
Probabilmente invece la frammentazione del movimento
comunista è ancora principalmente il frutto di una lunga serie di divisioni storiche
di bottega che nulla hanno a che fare con la lotta tra le linee all’interno di
un partito comunista.
Lenin esortava i sostenitori di vie alternative a
quelle espresse dai bolscevichi a non trascinare questi ultimi nel pantano
delle loro inconcludenti concezioni e strade. Ma oggi, qui in Italia (e in
parte anche altrove) siamo tutti nel pantano e nessuno ha ancora costruito quel
“piccolo nucleo compatto” che marcia deciso sulla giusta via.
Se non usciamo da questo pantano ci affogheremo
tutti. Dobbiamo iniziare a dedicare una parte importante del nostro lavoro a
tentare strade per superare la frammentazione, altrimenti il movimento
comunista finirà per avere un’influenza e quindi un’importanza nulla per le
masse popolari.
Forse 50 anni fa poteva avere un senso la linea del
“che vinca il migliore”, nel senso che tra varie organizzazioni del movimento
comunista che si erano formate poteva condursi una lotta che avrebbe portato
quelle guidate da una concezione ed una linea giusta a conquistare più delle altre
la fiducia e quindi l’adesione delle masse. Ma, cessata la prima spinta di
grande sviluppo del movimento comunista rivoluzionario (i primi 15 anni
dall’avvento del revisionismo) nessuno ha vinto, nessuno è stato il migliore,
nessuno ha raccolto e ha tutt’ora le larghe(!) masse al suo seguito.
Nota 18
[Limitare il movimento comunista rivoluzionario ai
primi 15 anni dall’avvento del revisionismo è un errore. Il movimento comunista
cosciente e organizzato copre l’intero arco di tempo dal 1848 a oggi, e in
questo arco di tempo si distingue in movimento che avanza verso la rivoluzione
e movimento revisionista. Quest’ultimo movimento si esprime nel primo
revisionismo e nel revisionismo moderno. Il revisionismo nella sostanza è
sempre uguale, mentre il movimento comunista rivoluzionario si trasforma, e
ogni volta risorge con superiore potenza, prima come movimento marxista, poi
marxista leninista, poi marxista leninista maoista. Ridurre il movimento
rivoluzionario a 15 anni di storia e qualificarlo come rivoluzionario solo
perché non era “non rivoluzionario”, cioè non era revisionista, porta poco
avanti nella comprensione della realtà.]
Allora potevamo dire che i fatti avrebbero
dimostrato chi era il migliore, chi era il più adatto a incanalare la
mobilitazione delle masse nella lotta per il socialismo. I fatti potevano
dimostrarlo perché la mobilitazione promossa da varie componenti del movimento
comunista era effettiva, corposa. La grande quantità era anche dimostrazione di
buona qualità.
Nota 19
[Fosse stata buona la qualità, la quantità non solo
si sarebbe mantenuta, ma sarebbe cresciuta. Quando mai la quantità è segno di
qualità? Quantitativamente, il PCI era superiore rispetto alle organizzazioni
antirevisioniste. I partiti socialdemocratici della Seconda Internazionale
erano molto grandi quantitativamente: perché si sono sfasciati a partire dalla
vigilia della Seconda Guerra Mondiale, con la sola esclusione del POSDR?
La grande quantità di cui si parla qui era aspetto
particolare della grande quantità del movimento comunista a livello
internazionale, e quella a sua volta era risultato dell'aver seguito una linea
fondamentalmente giusta, quella che aveva portato al successo della rivoluzione
in Russia, linea che si era fondata, a sua volta, su scoperte partite da un
nucleo quantitativamente ridotto, come quello del POSDR di Lenin, nucleo che
non si costituì per "rimediare alla frammentazione" che esisteva
anche a quel tempo, ma che anzi al suo interno si rinsaldò differenziandosi
anche da componenti interne. Ma di questo si parla oltre.]
Oggi siamo nella situazione in cui nemmeno le
iniziative giuste hanno i numeri per qualificarsi tali. Ciò non significa
meccanicamente che non siano giuste, che non siano guidate da giuste
concezioni, significa solo che ci è per forza difficile valutare la qualità
stante la scarsa quantità. È come fare un test con un solo campione scarso di
reattivo e di reagente: può riuscire o meno, ma non fa testo.
Nota 20
[Non concordo. È come dire che si può scegliere un
partito solo quando è grande e non, quindi, che se un partito grande non c'è si
opera per costruirlo, e a partire dal piccolo, perché ogni organismo, anche in
natura, nasce piccolo.]
Tra qualità e quantità c’è un rapporto dialettico.
Non è vero che una viene prima dell’altra, che la qualità viene prima della
quantità. L’una rafforza l’altra, l’una dimostra l’altra.
In molte componenti del movimento comunista, di
fronte alla critica (interna od esterna) di mancanza di unità dell’insieme del
movimento comunista, viene contrapposta la teoria che “il partito epurandosi si
rafforza”. Sebbene in determinate circostanze questa teoria sia giusta, essa,
come ogni teoria, vale in quanto corrispondente ad una situazione concreta.
Infatti è tutt’altro che automatico il rafforzamento dell’organizzazione
tramite la divisione di concezioni diverse all’interno dell’organizzazione
stessa. In certe situazioni vale il principio che se togli lo zucchero al succo
d’uva non ottieni il vino: per ottenere il vino bisogna che lo zucchero
fermenti e produca alcool!
Così, soprattutto nel contesto attuale (in cui cioè
il movimento comunista è al suo minimo storico delle forze), le divisioni che
non riguardano i compiti contingenti sono inutili nel migliore dei casi e
dannose nella maggior parte.
D’altronde l’esperienza dei principali partiti
comunisti vittoriosi ci ha mostrato fasi alterne di unità di forze non omogenee
e di divisioni indispensabili. Il POSDR (Partito Operaio Socialdemocratico
Russo) si formò come fusione di diversi partiti addirittura di paesi diversi,
tra i quali esistevano differenze significative che al momento
dell’unificazione non erano fondamentali o dirimenti rispetto all’obiettivo
principale. In seguito Il POSDR si epurò dei soggetti più arretrati o destri
quando si divise dai menscevichi e dai Socialisti Rivoluzionari di destra, ma
rimase unito ai SR di sinistra e con alcuni soggetti che pure avevano reso
incerto il successo dell’insurrezione (Kamenev e Zinoviev che preannunciarono l’imminente
insurrezione non furono espulsi ma solo sollevati dai loro incarichi più
importanti). Poi ancora il POSDR si epurò dei soggetti che non combattevano
adeguatamente la controrivoluzione scatenata dai bianchi e dagli imperialisti.
Ecc. ecc.
Nota 21
[E’ vero che in certi momenti ci si unisce, in altri
ci si divide, ma perché, e quali sono gli snodi cruciali? Senza di questo
abbiamo la narrazione di percorso storico e non ne traiamo un percorso logico,
utile a chi deve intraprendere di nuovo il cammino. L’unico principio espresso
è che è male dividerci quando siamo pochi. Eppure oggi una miriade di coppie si
dividono, e sono tutte unità di sole due persone.]
In sostanza anche la questione della “purificazione”
nelle file del partito del proletariato è sempre una questione concreta, non è
un principio assoluto e astratto.
Oggi nei paesi imperialisti il compito principale
per il rafforzamento o la creazione di partiti comunisti è la ricostruzione del
legame con le masse che è diventato praticamente inesistente.
Nota 22
[Oggi nei paesi imperialisti il compito principale
per il rafforzamento o la creazione di partiti comunisti è un livello adeguato
di elaborazione scientifica dell’esperienza della lotta di classe. Con questo,
si crea il legame tra partito e masse che consente l’esistenza del partito e il
suo rafforzamento. Qui e altrove, parlando di masse il collettivo Aurora
ragiona in termini quantitativi: le masse sono da lei intese come “grandi
quantità di esseri umani”. Non considera l’importanza di stabilire un legame
anche con nuclei minimi delle masse popolari, cosa che agli inizi è inevitabile
e anzi è un passo avanti notevole. Sono un esempio qui in Toscana la
costituzione di due sezioni del Partito dei CARC, una a Siena e una a Pisa,
basate sul legame intrecciato con pochi elementi.]
La nostra influenza tra esse, il loro seguirci o
meno, non dipendono solo dalla giustezza delle nostre idee, ma dalla
corrispondenza tra queste e la pratica, soprattutto dai risultati pratici.
Nota 23
[A essere precisi, la giustezza delle idee sta nella
corrispondenza tra queste e la pratica. Se un’idea è giusta, influenza le masse
popolari nel senso che le orienta o che diventa un mano loro uno strumento che
funziona. Se tutto questo non avviene, l’idea non è giusta.]
Oggi i nostri risultati sono praticamente nulli su
questo campo e questo significa o che nessuno ha una teoria generale – una
strategia – giusta (e ciò è anche possibile) oppure che per quanto giusta sia
essa comunque non comprende e non sviluppa quasi per nulla il nodo principale:
il legame con le masse. Un partito comunista senza un legame con le masse che
va progressivamente sviluppandosi non può chiamarsi tale.
D’altra parte come potremmo riuscire a costruire un
partito comunista cercando di evitare (come la maggior parte di noi fa oggi) il
dibattito e il confronto, che in fondo è l’anima del partito? Perché mai il
concetto di centralismo democratico sarebbe assurto alla posizione di principio
fondamentale per ogni partito comunista se non costituisse il nervo principale
della esistenza del partito stesso e del suo sviluppo come forma cosciente e
organizzata della classe?
Il settarismo che in diverse forme si manifesta oggi
tra le varie componenti del movimento comunista in fondo non è altro che il rifiuto
di ciascuna componente di accettare tutti gli aspetti che il centralismo
democratico comporta per la vita del partito e quindi di ogni suo militante.
Nota 24
[Il centralismo democratico vale all’interno di un
partito, non tra le varie componenti del
movimento comunista cosciente e organizzato.]
Ma se non diventiamo militanti e istanze capaci di
districarci tra le difficoltà dello scontro tra idee e regole che determinano
il nostro rapporto, come potremmo pensare di essere capaci di superare le
difficoltà determinate da una guerra reale, concreta e terribile contro un
nemico che, lo ha più volte dimostrato, userà ogni mezzo per eliminarci dalla
storia?
Che cosa sta succedendo oggi?
Il “fenomeno” della rapida ascesa del Movimento 5
Stelle che, diciamocelo, ha colto più o meno di sorpresa anche ogni componente
del movimento comunista, indica alcune cose importanti.
Innanzitutto vi è stata la manifestazione di una
diffusa voglia di partecipazione delle masse alla vita politica, cosa che
nessun altro partito o organizzazione (che sostenesse o meno che le masse
volevano partecipare) era stata fino ad ora in
grado di mettere in evidenza. Il voto e la partecipazione ai momenti
organizzativi del M5S non sono in se stessi dimostrazione di voglia di far
politica. Esprimono però oggettivamente una tendenza a mettersi in gioco,
ciascuno con le proprie idee, impressioni, capacità e storia.
Nota 25
[La volontà di partecipazione delle masse popolari
alla vita politica è, d’altro lato, necessità di questa loro partecipazione.
Infatti questa partecipazione per quanto riesce a esprimersi è segno della
necessità di abolire la divisione in classi, che è diventata obsoleta. È
espressione del comunismo come movimento oggettivo.
Questa partecipazione è effettivamente il carattere
positivo principale del M5S.]
Il M5S, diciamo tutti, non ha una strategia che
possa portare realmente le masse fuori dal marasma attuale. Grillo e i suoi
stretti collaboratori sono stati in grado “solo” di far leva sul malcontento
diffuso per incanalarlo principalmente in una opposizione contro l’esistente e
solo in parte e per aspetti particolari perla costruzione o l’aggiustamento di
alcune questioni importanti per la vita delle masse. Complessivamente però i
dirigenti del M5S non indicano la via per eliminare le cause che generano e
continueranno a perpetrare lo stato delle cose presente. Il M5S è cioè guidato
da una concezione soggettivista che lo rende sostanzialmente un movimento
riformista radicale. Per migliorare lo stato di cose presente, per il M5S
occorrono una serie di personaggi piazzati nei posti chiave e che siano buoni,
onesti, competenti e certo anche un po’ filantropi.
In un certo senso esiste una possibile sovrapposizione
tra questa strategia e la lotta di classe, ma solo dal punto di vista
soggettivo: c’è una classe di cattivi e una classe di buoni. Al posto delle
caratteristiche del modo di produzione, del legame contraddittorio tra forze
produttive e rapporti di produzione da cui deriva la divisione in classi della
società, per il M5S è una questione di buon senso e di onestà. Per eliminare lo
sfruttamento, la povertà, la guerra, l’inquinamento, l’ingiustizia, ecc.
bisogna mettere alla direzione della società “cittadini” che non siano (almeno
fino ad ora) mai stati sfruttatori, guerrafondai, distruttori dell’ambiente,
disonesti, ecc. Anche i ricchi possono andare bene: basta non guardare da dove
deriva la loro ricchezza!
Anche noi comunisti vorremmo mettere gente simile al
potere. Giusto. Però non ci illudiamo e non illudiamo le masse che questo basti
a cambiare le cose: se non si eliminano le condizioni materiali che determinano
i rapporti sociali da cui dipendono le possibilità di sfruttare, arricchirsi,
distruggere, inquinare, ecc. ecc. non facciamo altro che rimandare alle
prossime generazioni la soluzione dei problemi più gravi della società. Noi
comunisti infatti abbiamo una strategia: il nostro obiettivo è l’abbattimento
del capitalismo, che non esiste perché ci sono gli uomini cattivi al potere, ma
perché il modo di produzione capitalista presuppone una divisione in classi,
presuppone lo sfruttamento di una classe sull’altra.
Sul piano della mobilitazione delle masse emergono
poi tutte le contraddizioni che un movimento come quello dei grillini (e in
particolare i suoi dirigenti) esprimono. Alla manifestazione più o meno
spontanea raggruppatasi il 20 sera davanti a Montecitorio, Beppe Grillo ha
detto che andava, poi però ha detto che arrivava tardi, poi ha detto che
arrivava il giorno dopo e che la manifestazione si sarebbe tenuta in un’altra
piazza: con l’aiuto di Crimi si è dimostrato un bravo pompiere!
Noi comunisti quindi abbiamo una strategia per
uscire dal marasma attuale e il M5S non ce l’ha. Però…
Però i grillini si organizzano, si uniscono,
raccolgono consensi e in pochi anni sono riusciti ad ottenere 8 milioni di voti
alle elezioni politiche. Mentre il movimento comunista sta quasi scomparendo
dalla scena elettorale (e non solo).
Nota 26
[Nella scena elettorale gli unici comunisti ad avere
avuto accesso sono stati i revisionisti. Cosa intende il collettivo Aurora per
“movimento comunista”? Nessuna delle organizzazioni di cui vengono riprodotti
qui i testi ha mai avuto peso sulla “scena elettorale” e alcune anzi se ne
tengono a distanza. Il movimento comunista è limitato a queste forze, o è
altro, o è composto da tutti quelli che si dichiarano comunisti?
È meglio specificare cosa si intende con
l’espressione “movimento comunista”, altrimenti si rischia di fare affermazioni
che non sono diverse da quelle di tutta la parte di masse popolari che si
lamenta del fatto che elementi come il PRC o il PdCI non sono in parlamento.
Bisogna invece fare affermazioni diverse da quelle che fanno le masse popolari.
Dobbiamo avere, a differenza di loro, una scienza della realtà, e non una
opinione, o un punto di vista, come dirà più oltre la Rete dei Comunisti.
Dobbiamo distinguerci dalle masse, se vogliamo unirci a loro.
Quando parliamo di movimento comunista, distinguiamo
tra movimento comunista oggettivo e movimento comunista soggettivo.
Il movimento comunista è oggettivo, infatti. “Prima di essere una
teoria, prima di esistere nella coscienza dei comunisti, il comunismo ha
incominciato ad esistere come movimento pratico, come processo attraverso il
quale i rapporti sociali di produzione e le altre relazioni sociali si
trasformano per adeguarsi al carattere collettivo che le forze produttive hanno
assunto nell’ambito del modo di produzione capitalista.”(1)
Il movimento comunista soggettivo, invece, è “l’insieme dei partiti e
delle organizzazioni che si propongono la marcia verso il comunismo come loro
obiettivo, con il rispettivo patrimonio di concezioni, analisi, linee e metodi
per realizzare il proprio obiettivo, con un complesso di relazioni e con la
corrispondente divisione dei compiti (organizzazioni di massa e partito
comunista).(2)
Da questa prima, seppure
ancora molto astratta, distinzione, si può partire per una definizione
scientifica esatta di ogni espressione parziale del movimento comunista passate
e presente, nell’una o nell’altra parte del mondo.]
NOTE
1.
MP, p. 82.
2.
MP, pp.
254-255.
Possiamo
anche tentare di schivare il problema affermando che le elezioni non dimostrano
nulla. Ma non raccontiamoci balle! Supponiamo per un momento che una qualsiasi
organizzazione comunista avesse raggiunto lo stesso risultato di voti che oggi
hanno raggiunto i grillini (o anche solo uno ottavo!): quale componente del
movimento comunista non avrebbe gridato all’inconfutabile dimostrazione della
voglia di comunismo diffusa tra le masse? Anche quelli di noi che sono sempre
stati contrari alla partecipazione dei comunisti alle elezioni avrebbero
comunque esultato, indicando in milioni di voti ai comunisti una palese e
sacrosanta (per quanto ancora ingenua) dimostrazione delle masse di voler
abbattere la borghesia.
La realtà si incarica di dimostrarci in mille modi
che la nostra debolezza ha un carattere fortemente soggettivo a cui dobbiamo
mettere mano.
Non è facile trovare la via per risolvere la nostra
debolezza. Ma perché poi questa lotta dovrebbe essere facile, quando tutte le
lotte che conduciamo sono difficili? Indubbiamente per ogni componente del
movimento comunista è più facile sopravvivere che crescere e questo
atteggiamento (accontentarsi della sopravvivenza) è quello che oggi predomina
nel movimento comunista.
Le componenti del movimento comunista soffrono
tutte, chi più chi meno, di settarismo. Alcune manifestano apertamente
l’insofferenza per esso, altre no. Sono due tendenze, una delle quali
rappresenta la spinta a superare il problema. Quelle che non si pongono il
problema favoriscono il suo permanere, quelle che se lo pongono favoriscono il
suo superamento. E questa lotta esiste anche all’interno di ogni componente e
pure all’interno di ogni compagno. Quando affrontiamo il problema andiamo nella
direzione del suo superamento, quando lo ignoriamo o lo sottovalutiamo andiamo
nella direzione opposta.
Voglio introdurre un esempio a mio avviso
significativo dell’atteggiamento settario della maggior parte di noi.
Un’organizzazione comunista che non ha basi a Taranto e che vuole intervenire
sulla lotta dell’ILVA, solitamente che fa? Manda qualche compagno a contattare
direttamente gli operai dell’ILVA. Non capita praticamente mai che vengano
contattate le organizzazioni che hanno già stabilito un rapporto con questi
operai, in questo caso, ad esempio, i compagni di Proletari Comunisti. Eppure i
compagni di ProlCom hanno indubbiamente un’esperienza accumulata in anni di
lavoro in zona. Anche se l’organizzazione “esterna” (che non ha compagni a
Taranto) ritiene che i compagni di ProlCom abbiano deviazioni “gravissime” in
materia di intervento sulla classe operaia, queste deviazioni difficilmente
saranno peggiori di quelle espresse, ad esempio, dalla FIOM o, peggio ancora,
da altri rappresentanti dei sindacati di regime con i quali indubbiamente
l’organizzazione “esterna” si troverebbe ad aver a che fare di primo acchito.
In secondo luogo, anche gli stessi operai dell’ILVA vedrebbero di buon grado
l’unità di intervento da parte di diverse organizzazioni comuniste e farebbero
fatica a comprendere l’atteggiamento compartimentato.
Alla stessa stregua possiamo valutare esempi
riguardanti la Strage di Viareggio del 2009 e la mobilitazione del relativo
Comitato 29 giugno, situazione nella quale i compagni di Lotta e Unità hanno
indubbiamente accumulato una lunga e profonda esperienza e conoscenza. Così
pure per quanto riguarda la mobilitazione dei disoccupati di Napoli o degli
LSU, in questo caso i Comitati di Appoggio alla Resistenza – per il Comunismo
(CARC), o magari l’OCI avranno più esperienza di altri sul campo. Ciascuna
organizzazione può trovare da sé gli esempi adatti al caso.
Che fare?
Nota 27
[Poniamo che sia il P-CARC di andare a chiedere
informazioni a Proletari Comunisti se va a Taranto o a Lotta e Unità se va a
Viareggio. Il collettivo Aurora non tiene conto di due fattori, uno pratico e
uno teorico.
Quello pratico sta nel fatto che sia i tarantini che
i viareggini tengono le distanze rispetto al P-CARC. Rammentiamo che ai
viareggini fu proposta cooperazione appena conclusa la Prima Lotta Ideologica
Attiva, cosa che li stupì moltissimo, perché loro, praticando il metodo da
“gruppo di amici”, ritenevano e ancora ritengono che dopo la separazione sul
piano organizzativo amici più non si era, il che comportava il non rivolgersi
la parola.
Quello teorico sta nel fatto che con i due soggetti
nominati, così come con altri, la questione non sta tanto nel mettere a
disposizione informazioni, ma nel portare avanti il dibattito franco e aperto,
cosa tentata più volte da parte della carovana del nuovo PCI nei confronti di
Proletari Comunisti e non solo, ma senza mai avere avuto risposta.
Quanto al chiedere informazioni, la difficoltà ad
averne sta nella concezione concorrenziale dell’agire politico, per cui si sta
in campo come si sta al mercato, e ognuno cerca di accaparrarsi terreno e
clienti a scapito degli altri, per cui la disponibilità a dare informazioni
è minima o inesistente.]
Gran parte dei membri di ogni componente del
movimento comunista ha un’esperienza lunga fatta di confronto, scontro,
collaborazione, lotta con diverse organizzazioni del movimento comunista. Non
c’è dubbio che il lavoro degli anni passati di tanti compagni è una ricca fonte
di insegnamenti utili a trattare il problema del rapporto tra componenti del
movimento comunista al fine di superare la loro frammentazione.
Sicuramente tanti compagni che stanno ora leggendo
questo testo diranno che di tentativi di unificazione, riaggregazione, ecc. se
ne sono fatti a centinaia e che “non ci si cava un ragno dal buco”. Possibile
che tutto quello che oggi abbiamo da dire è che “non ci si cava un ragno dal
buco”?
Con lo stesso criterio potremmo allora dire che
nemmeno tra la classe operaia e le masse popolari si cava un ragno dal buco nel
tentativo di reclutarle nel lavoro dei comunisti. Certo, direte, la classe
operaia e le masse popolari sono più importanti delle altre organizzazioni del
movimento comunista! Perché?
Il nostro movimento comunista è forse composto da
borghesi e piccolo borghesi con cui non vale la pena perdere tempo? Non siamo
forse per la maggior parte provenienti dal proletariato? Non siamo forse, in
quanto militanti in questa o quella organizzazione, i soggetti più interessanti
proprio perché già avanzati sulla scelta della militanza, del dedicare una
parte o tutta la nostra vita alla lotta per il comunismo?
Dobbiamo smetterla di sentire la puzza sotto il naso
e iniziare seriamente a dedicare risorse ed energie alla ricerca di una via per
unire i comunisti, sì proprio quelli che si dichiarano tali, proprio a partire
anche solo da questa loro dichiarazione. Di fatto chiunque oggi dichiari che la
sua linea è la linea giusta vale
meno di quello che dichiara di non averla ancora trovata, stante gli
ancora insignificanti risultati qualitativi e quantitativi raggiunti. Ma per
quanto valga meno, è comunque un interlocutore con cui dobbiamo sforzarci di
stabilire un rapporto.
Nota 28
[Dire che chi dichiara di avere trovato una linea
giusta “vale meno” di chi dichiara di non averla trovata, perché i fatti ancora
non gli danno conferma, è come dire che nel Cinquecento chi diceva che la terra
si muoveva siccome la sua teoria non era stata confermata valeva meno di chi al
riguardo non diceva niente.
Il motivo per cui prendiamo sul serio un appello
come quello qui lanciato, e analizziamo con interesse, accuratezza e pazienza
posizioni politiche che abbiamo già esaminato molte volte, è che abbiamo una
linea con cui confrontarle, e che in questo confronto la linea che noi
apertamente dichiariamo giusta è sottoposta a sperimentazione, perché nessuna
verità è assoluta. Né è assoluta l’assenza di linea in chi dichiara di
“dubitare di tutto”. Mao dichiara che “dubitare è lecito, dubitare di tutto non
è lecito”. Da un lato quindi non è lecito, e dall’altro non è possibile:
secondo Gramsci, ogni uomo ha una sua “filosofia”. Secondo queste premesse,
quindi, chi dichiara di non avere una
linea o agisce secondo una linea di cui non ha conoscenza, e quindi è
passivo, o ha una linea che non dichiara apertamente.]
Dobbiamo quindi studiare, confrontarci e definire un
lavoro di lunga durata (una campagna, chiamiamola come ci pare) fatta
sostanzialmente di incontri, confronti, proposte, tentativi di attività comuni,
bilanci comuni, ecc. da cui individuare i canali di unione possibile. Non
importa quanto doppio gioco verrà fuori sul campo del confronto. Ci saranno
coloro che sono disponibili perché pensano di andare a pesca di militanti. Che
importa! A volte anche noi stessi tenderemo a fare altrettanto. È nella natura
delle attuali componenti del movimento comunista e noi non ne siamo immuni.
Lancio questo appello a tutti quei compagni che non
si accontentano della situazione attuale del movimento comunista, che non sono
pienamente soddisfatti dei risultati da esso complessivamente raggiunti e che
riconoscono che la forza dei comunisti non è solo nelle idee, ma soprattutto
nella pratica, da cui le idee si forgiano.
Potrei tentare di dilungarmi nel tentativo di
ipotizzare i dettagli di un possibile inizio di lavoro comune. Ma ritengo che
al momento l’appello a cercare di costruirlo, questo lavoro comune, sia quello
che realmente serve. La testa di tutti coloro che sono realmente disposti a
raccoglierlo o che riconoscono che questo appello è semplicemente espressione
di una volontà più volte espressa anche da altri compagni e organizzazioni è
una testa sufficientemente capace di dare risposte concrete al problema
organizzativo. Il resto verrà sulla base dei primi passi compiuti.
Si tratti di una serie di incontri, assemblee, scambi
di documenti, dibattiti aperti anche ai non organizzati, quello che si vuole:
non nascondiamoci dietro la forma. Molti di noi sono abbastanza navigati per
trovare la soluzione pratica più idonea, se c’è la volontà.
Nota 29
[Il
collettivo Aurora aspira a unire le forze comuniste per somma, e le pone come
poli di pari forza, che se così fosse le cose non cambierebbero mai. Perciò
dice che la teoria è importante ma lo è anche la pratica, che talvolta ci si
unisce e talaltra ci si divide, e così via. L’unità dei comunisti dipende anche
da loro, cioè dipende da quale posizione prenderanno. Si tratta di indicare
loro che non devono prendere la “posizione del P-CARC” oppure la “posizione
della Rete dei Comunisti”, ma la posizione che scoprono giusta, indipendentemente
dal fatto che l’abbia scoperta l’uno o l’altro. L’importante è sapere se la
terra gira o no, non se dobbiamo stare dalla parte di Galileo o del santo
Uffizio.
Al di là della divergenza di opinioni, l’appello a
unire le forze è positivo e quindi lo raccogliamo. L’esame di questi testi è
testimonianza dell’interesse che abbiamo nella proposta. Invitiamo quindi in primis i promotori dell’appello a
procedere, e a contattarci per approfondire la questione]
[1] Con ruolo rivoluzionario intendiamo sinteticamente
il ruolo di influenza e di direzione sulle masse basato su un concreto e
stretto legame del partito con esse e volto alla loro mobilitazione per
l’abbattimento dell’ordinamento sociale esistente e la costruzione di un nuovo
ordinamento sociale. L’attuale ordinamento sociale è basato sullo sfruttamento
del lavoro salariato (sullo sfruttamento della stragrande maggioranza della
popolazione) per l’interesse della classe che detiene la proprietà dei
principali mezzi di produzione (la borghesia) e a scapito degli interessi delle
masse. Il nuovo ordinamento sociale superiore è il comunismo: “dopo che è
scomparsa la subordinazione asservitrice degli individui alla divisione del
lavoro, e quindi anche il contrasto fra lavoro intellettuale e fisico; dopo che
il lavoro non è divenuto soltanto mezzo di vita, ma anche il primo bisogno
della vita; dopo che con lo sviluppo onnilaterale degli individui sono
cresciute anche le forze produttive e tutte le sorgenti della ricchezza
collettiva scorrono in tutta la loro pienezza, solo allora l’angusto orizzonte
giuridico borghese può essere superato, e la società può scrivere sulle sue
bandiere: Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni!” –
K. Marx – F. Engels, Opere scelte, Editori Riuniti, Roma, 1962, pag. 962
venerdì 29 novembre 2013
Per l’unità dei
comunisti aderisci al P.CARC
[Tratto da Resistenza n°
11-12 del 2013]
Da più parti e sempre più
spesso si sente invocare “l’unità dei comunisti” in un unico partito. Sono
tanti i compagni e le compagne che hanno subito la disfatta e la dissoluzione
dei partiti della sinistra borghese e che ora cercano riscatto, però nella
maggior parte dei casi in maniera velleitaria e idealista. Cosa che porta allo
scoraggiamento e, se non alla rassegnazione, almeno al pessimismo.
La verità è che di
partiti comunisti (o meglio sedicenti tali), nel nostro paese, ce ne sono tanti
e si susseguono pure i tentativi di costruire un “nuovo soggetto politico” che
raccolga la diaspora dei loro militanti in nome, appunto, dell’unità.
Noi siamo per l’unità dei comunisti, ma
quella che si basa
sull’adesione e sulla coesione attorno alle idee giuste, non sulla
generica volontà di “unirsi”. E le idee giuste non cadono da cielo, né nascono
dalle generiche ambizioni o dal radicalismo. Le idee giuste nascono dal
bilancio dell’esperienza e sono giuste se alla prova della pratica resistono,
si rafforzano, si sviluppano. Se riescono ad essere, per ogni elemento avanzato
delle masse popolari, un orientamento e una guida per l’azione (di un’azione
che, attraverso i passi necessari, costruisce la rivoluzione socialista).
Con questo articolo
puntiamo a definire i criteri e gli ambiti su cui occorre cercare “l’unità dei
comunisti” affinché ogni lettore possa trarre una conclusione utile e trovare
lo stimolo e la determinazione per assumere un ruolo attivo e positivo nella
rinascita del movimento comunista.
Siamo anche spinti, in
questo senso, ad affrontare le critiche che ci vengono mosse di non essere
capaci di mostrare nella nostra propaganda (cioè di far conoscere e
valorizzare) la ricca attività delle sezioni, delle compagne e dei compagni di
base. Questo limite, che esiste, è la combinazione di due aspetti: il primo è
la difficoltà ad elaborare le esperienze concrete, magari anche piccole e
circoscritte, in strumento di propaganda (che non è solo “far conoscere
l’attività”, ma ricavarne criteri e principi generali, mettere in comune
conoscenze, esperienze e strumenti), il secondo è che siamo pochi. Ossia: l’attività
complessiva è talmente ricca e articolata che per elaborarla e tradurla in
“materiale di propaganda” occorrono capacità e organizzazione che non abbiamo
ancora. Facciamo fronte a questi limiti puntando sulla formazione di compagne e
compagni che siano sempre più e sempre meglio all’altezza dei compiti e
sull’allargamento delle nostre fila, sulla raccolta dell’attivismo, del
contributo, delle capacità di tanti altri compagne e compagni che oggi sono
“liberi battitori” o “cani sciolti”.
Unità sulla concezione
del mondo, la strategia e la linea per fare dell’Italia un nuovo paese
socialista.
Quando qualcuno ci chiede
perché non aderiamo a nessuna delle costituenti che si sono create e che si
creano per l’unità dei comunisti, rispondiamo che prima di tutto bisogna vedere
quali sono le basi su cui poggia questa unità.
A differenza di Ross@,
CSP, Sinistra anticapitalista, ecc., l’area politica della Carovana del (n)PCI
a cui appartiene anche il P.CARC fa propria l’esperienza del movimento
comunista (sintetizzata nel marxismo-leninismo-maoismo). La usa non come un
dogma o una fede da professare o un ideale a cui restare fedeli, ma come metodo
per comprendere la realtà e come guida della lotta politica e sociale per
trasformare la realtà, per portare le masse popolari dalla situazione in cui
sono oggi a compiere passo dopo passo il percorso che le porterà a rafforzare
il nuovo potere fino a invertire i rapporti di forza rispetto ai centri di
potere della borghesia imperialista e a instaurare il socialismo.
A differenza dei
firmatari dei tre documenti congressuali del PRC, noi non partiamo dalla
dissoluzione del vecchio PCI o dalla disfatta elettorale del 2008 e la “crisi
della sinistra”. Siamo partiti dal perché il vecchio PCI e gli altri partiti comunisti non hanno
instaurato il socialismo nei paesi imperialisti durante la prima ondata della
rivoluzione proletaria mondiale, dal perché i primi paesi socialisti
(dopo un iniziale periodo di grandi conquiste) hanno perso vigore e sono
decaduti fino a crollare o a cambiare colore, dal perché i revisionisti moderni
sono riusciti a prendere la direzione del movimento comunista e a portarlo
fuori strada, dal perché la rinascita del movimento comunista (nell’ambito
della nuova crisi generale del capitalismo) procedeva così lentamente. Da qui
siamo partiti per arrivare passo dopo passo a comprendere le condizioni della
lotta di classe (in particolare la crisi generale del capitalismo che ha
origine nella sovrapproduzione assoluta di capitale, il regime di
controrivoluzione preventiva, la situazione rivoluzionaria in sviluppo), alla
strategia per fare la rivoluzione socialista (guerra popolare rivoluzionaria di
lunga durata e non la “rivoluzione che scoppia”), alla linea di massa (come
metodo principale di lavoro del partito verso le masse) e alla lotta tra due
linee nel partito (come metodo principale per sviluppare il partito e
difenderlo dall’influenza della borghesia e del clero), alla linea del Governo
di Blocco Popolare (come tattica per far avanzare le masse popolari verso
l’instaurazione del socialismo partendo dalle loro condizioni soggettive
attuali).
A livello organizzativo,
abbiamo iniziato da zero.
Non siamo nati come costola di qualcuno o qualcosa, per scissione, ereditando
parti di patrimonio, di strutture, di iscritti. Nel tempo abbiamo costruito
l’organizzazione, abbiamo aperto sedi e sezioni, abbiamo costruito il Centro
del Partito e la sua periferia, abbiamo condotto la lotta per l’autonomia e
l’indipendenza economica, oltre che politica, dalla borghesia. Abbiamo ideato,
prodotto, realizzato e distribuito materiale di propaganda e testi di studio. E
il tutto è avvenuto combattendo “all’arma bianca” contro una persecuzione
poliziesca con cui per più di 20 anni la borghesia ha cercato di metterci in
galera o di prenderci “per fame” (sequestri di strumenti e materiali, ingenti
spese legali, processi) con procedimenti e inchieste a intermittenza per
associazione sovversiva-terrorismo. Vi abbiamo fatto fronte, abbiamo messo a
punto la linea del “processo di rottura” (trasformarsi da accusati ad
accusatori) e della “lotta su due gambe” (mobilitazione delle masse popolari,
la principale, e intervento nei contrasti e nelle contraddizioni dei gruppi
borghesi). E su questa base adesso affrontiamo i circa 50 procedimenti contro
un centinaio di nostri militanti per “reati” legati all’attività politica
(antifascismo, occupazioni, cortei non autorizzati, scontri… fino anche agli
attacchinaggi o alla diffamazione). Non solo “abbiamo resistito”, ma abbiamo
costruito la struttura che siamo oggi e abbiamo posto le basi per quello che
saremo.
Quando parliamo di unità
dei comunisti, di che parliamo? Dell’unità dei gruppetti dirigenti di questa o
quell’altra costola fuoriuscita dal PRC? Dell’unità fra gruppi che si sono
perpetrati per decenni cambiando nome e ragione sociale a ogni cambiamento
della direzione del vento? Dell’unità di e con personaggi che sono stati i
protagonisti degli anni “furenti” della sinistra borghese (fase terminale del
PCI e poi PRC o PdCI e via dicendo)? O dell’unità della base, dei compagni e
delle compagne che hanno la bandiera rossa nel cuore e che aspirano davvero a
“un altro mondo, diverso, possibile e necessario”? Ecco, noi abbiamo
l’ambizione prima di tutto di parlare a questi, di essere per questi un riferimento
ideologico e organizzativo. Di essere un riferimento ideologico e organizzativo
per gli elementi avanzati delle masse popolari.
Ponendoci questi
referenti, la nostra ricerca di unità si basa sulla prospettiva delle cose: dal
bilancio dell’esperienza si elaborano la linea, la strategia e la tattica per
la pratica, per il “che fare?”, indicando e praticando (nei limiti delle forze
attuali) la linea giusta. E’ giusta? Il fatto è che la linea va verificata
nella pratica: al bilancio di 20 anni di esistenza, attività e lotta, la
Carovana del (n)PCI è probabilmente l’unica realtà comunista organizzata che è
cresciuta e cresce, che resiste alla repressione, che raggiunge piccoli
ma significativi risultati. E sulla base di questo se ne pone, apertamente e
senza se e ma, di grandi e storici.
La lotta per l’apprendimento,
l’assimilazione e l’applicazione della concezione comunista del mondo.
La nostra coesione ideologica si basa sulla volontà e capacità di assumere una
concezione e un atteggiamento scientifico: per decenni tante compagne e tanti
compagni sono stati “formati” alla concezione borghese, al senso comune,
all’atteggiamento superficiale. Nel migliore dei casi è stata scambiata la
conoscenza, il nozionismo, per formazione: quindi è stato promosso lo studio dei “testi” in modo
meccanico e dogmatico. C’è pieno il paese di compagni e di compagne
dotti nelle citazioni del movimento comunista, ma incapaci di fare analisi
concreta della situazione concreta.
Per noi la formazione è
necessaria, ma è una formazione strettamente legata all’attività pratica,
quello che si studia deve essere applicato nella realtà, il motivo per cui si
studia non è quello di “sapere di più”, ma di trasformarsi, trasformare la
propria concezione, la propria mentalità e la propria personalità, anche, per
liberarsi dalla cappa di pigrizia intellettuale (da una parte) e di dogmatismo
(dall’altra) e assumere con autonomia, creatività e responsabilità un ruolo
positivo e d’avanguardia, da comunisti, nell’orientamento e nella mobilitazione,
qui e ora, delle masse popolari del nostro paese.
Per questo, a ogni
livello, promuoviamo percorsi di formazione individuali e, soprattutto,
collettivi, la cui base, per tutti, è il Manifesto Programma del (n)PCI.
Abbiamo iniziato all’interno: dai membri e dai collaboratori più stretti e
stiamo allargando il cerchio verso l’esterno: agli studenti medi e ai precari
(come in Campania), agli studenti-lavoratori (come in Toscana), agli
universitari (come in Lombardia), alle donne (in Toscana)...
Non sempre la formazione
alla concezione comunista del mondo che inizia con lo studio del Manifesto
Programma del (n)PCI diventa adesione al P.CARC, questo è un aspetto
particolare di un processo più generale: quello della costruzione di una nuova
leva di compagni che sono tali non solo con il cuore e i sentimenti, ma
iniziano a esserlo anche con la testa, che sono e fanno i comunisti.
La lotta per
l’organizzazione e lo sviluppo della struttura del Partito. Nella retorica
della sinistra borghese, l’adesione di giovani a un’organizzazione è segnale di
salute e prospettiva. La loro è retorica, perché sia nella base che nel gruppo
dirigente si contano più teste bianche che altro. Noi non siamo
un’organizzazione giovanile, ma più del 50% dei nostri membri ha dai 35 anni in
giù. Questo vale anche nei massimi organi dirigenti.
Quanto contano le donne?
Tutti dicono che contano tanto, in genere i consessi in cui questa affermazione
viene fatta sono a larga maggioranza, se non nella totalità, composti da uomini.
Il 40% dei nostri membri sono compagne. Qualcosa meno nei massimi organi
dirigenti. Anche per questo dal III Congresso abbiamo avviato uno specifico
lavoro per la costruzione di un settore donne (niente a che vedere con le
“quote rosa”!).
I soldi. Da dove vengono?
Siamo convinti che un’organizzazione comunista, tanto più un partito, debba
essere indipendente, oltre che politicamente, anche economicamente, dalla
borghesia. Tutte le volte che ci riusciamo (non molte per la verità) usufruiamo
di fondi e risorse che solitamente le istituzioni elargiscono agli amici degli
amici (e rendiamo pubblica la cosa, perché anche altre organizzazioni
comuniste, democratiche, popolari ne usufruiscano a loro volta). Ma l’attività
economica del Partito ha basi sue, raccoglie e opera nel campo delle masse
popolari e della classe operaia, ha una sua stabilità e un suo sviluppo legato
non alle concessioni dei padroni e della autorità, ma allo sviluppo della lotta
di classe, del movimento popolare. Il nostro è un partito composto da elementi
delle masse popolari: operai, lavoratori, disoccupati, precari, studenti,
pensionati.
Struttura centrale e
sezioni locali. In un contesto in cui la parola “disfatta” caratterizza tutte
le strutture dei vecchi partiti della sinistra borghese (dalla chiusura di
Liberazione al licenziamento di funzionari, dalla svendita del patrimonio di
sedi ai debiti per le spese elettorali) e la parola “sopravvivenza”
caratterizza i frammenti in liberà che la diaspora della sinistra borghese ha
prodotto, il P.CARC ha un
corpo di rivoluzionari di professione, consolidato e in sviluppo. Ogni
volta che c’è la condizione, puntiamo a favorire che altri compagni possano
dedicarsi a tempo pieno all’attività politica. A livello locale, ogni sezione è
e impara a essere un centro di mobilitazione e organizzazione delle masse
popolari e una scuola per diventare comunisti: riunioni periodiche, letture
collettive di Resistenza, discussione delle circolari centrali, piani di lavoro
(collettivi e individuali), stesura di rapporti e centralizzazione… un
“elaboratore collettivo” per analizzare la situazione e definire linee di
intervento, attuarle e fare il bilancio dei risultati per rilanciare a un
livello superiore.
Creazione delle
condizioni perché le organizzazioni operaie e popolari formino un loro governo
d’emergenza. Probabilmente quello che emerge su Resistenza di volta in volta
sono gli ambiti di intervento principali in cui il Partito è impegnato, ma
sempre o quasi sempre in modo “indiretto”, cioè partendo dal generale, senza
mostrare il legame con l’attività territoriale, capillare o comunque diretta.
Per motivi di spazio, spesso, questa è una necessità che si combina anche con
una scelta, Resistenza è lo strumento “che dà la linea” ai militanti, affinché
possano attuarla e verificarla nella loro pratica territoriale.
Questo vale, in generale,
per gli interventi “sui grandi temi”: lavoro operaio (la battaglia per
difendere i posti di lavoro esistenti e crearne di nuovi, il percorso “Riaprire
le fabbriche” iniziato a Grottaminarda e proseguito a Firenze, la
partecipazione alle tante iniziative ai cancelli delle fabbriche da Pomigliano
a Cassina de Pecchi) e lavoro sindacale (contro l’espulsione dei sindacalisti
combattivi dalla CGIL, il contributo al rinnovamento del movimento sindacale
nella sinistra dei sindacati di regime e nei sindacati di base); irruzione
nella lotta politica borghese (le campagne elettorali, ma non solo) e lotta per
costruire amministrazioni locali di tipo nuovo; difesa dei beni comuni
(attuazione del referendum sull’acqua, lotta alla devastazione ambientale,
dalle discariche in Campania al TAV passando per la geotermia sull’Amiata);
diritto alla casa e riappropriazione degli spazi sociali; lotta alla
repressione e alle prove di fascismo; lotta per il diritto alla salute
pubblica, lotta per lo sport e l’aggregazione popolare (con l’esperienza del
Quartograd). Ma più che “i tanti fronti” di lotta, quello che conta è
l’orientamento con cui puntiamo a condurre ogni lotta: sinergia e
concatenazione per avanzare nel percorso di costruzione della nuova
governabilità delle masse popolari organizzate.
Dalle critiche
costruttive a quelle distruttive. Se c’è chi dice che non siamo capaci di
mostrare l’articolata attività del Partito e ci critica perché “non siamo in
grado di valorizzare quanto facciamo”, c’è anche chi si rapporta a noi
principalmente attraverso la denigrazione. Anziché entrare nel merito delle
questioni, di avanzare una critica e proporre un’alternativa alla linea che
indichiamo (cioè promuovere una linea giusta, secondo chi fa la critica, dato
che la nostra è sbagliata), prevale il senso comune, il senso di sconfitta, la
superficialità che la sinistra borghese ha alimentato in tanta gente che pure
si definisce comunista: alle elezioni politiche di febbraio eravamo “fuori di
testa”, “falsi comunisti”, “allocchi al carro di Grillo”; ma solo pochi mesi
prima, nell’ottobre 2011, eravamo “una delle anime dei teppisti di piazza San
Giovanni”, “spaccavetrine”, “black bloc”. Ma siamo stati anche “fiancheggiatori
dei terroristi”, “lo zoccolo duro dell’antifascismo militante”. Per qualcuno
siamo “stalinisti”, “settari”, “dogmatici” e per altri “socialdemocratici” e
“riformisti”. Siamo “gli amichetti di De Magistris e Pisapia”, siamo
“inconsistenti” e “ridicoli”. Ognuno, nel tempo, ha trovato un suo motivo per
affibbiarci una qualche colpa indelebile o un qualche commento caustico: lo
hanno fatto i giornalisti che pendono dalle labbra delle questure, lo hanno
fatto dirigenti e quadri (e anche qualche militante) dei partiti della sinistra
borghese, lo hanno fatto i capetti dei centri sociali, lo hanno fatto altre
organizzazioni politiche che si guardano bene dal mettere la loro linea alla
prova della pratica (e aspettano che la rivoluzione scoppi).
I fatti sono che da
21 anni la Carovana del (n)PCI avanza controcorrente, affrontando limiti,
superandoli, trasformandosi per realizzare un obiettivo storico, ambizioso e
possibile, costruire il socialismo in Italia, un paese imperialista. Le tante
compagne e i tanti compagni che ancora hanno nelle orecchie gli echi delle
denigrazioni e dei commenti superficiali, li chiamiamo a domandarsi se vale la
pena galleggiare nel senso comune o prendere parte attiva a questo progetto,
contribuire coscientemente a questo obiettivo. L’unità dei comunisti si
costruisce sulle idee giuste, quelle che superano la prova della pratica, che
si rafforzano e che si sviluppano.
Quale partito comunista? (da La Voce 45 del (nuovo)Partito comunista italiano, anno XV novembre
2013
Perché proponiamo ai nostri lettori di
studiare oggi ancora una volta questo articolo pubblicato su La Voce del (n)PCI
- n° 1 - marzo 1999, quindi ben prima che nel 2007-2008 entrassimo nella fase
acuta e terminale della crisi generale del capitalismo?
1. Perché constatino che la concezione
comunista del mondo (la scienza sperimentale della trasformazione della società
capitalista nel comunismo) permette di capire il corso delle cose (la questione
della situazione rivoluzionaria) e quindi si diano con più energia ad
assimilarla per usarla come guida della loro attività nella GPR che stiamo
conducendo.
2. Perché, confrontando con il presente
quanto allora scritto dalla Commissione Preparatoria del congresso di
fondazione del nuovo PCI, misurino il percorso fatto nella promozione della GPR
e nella costruzione del suo Stato Maggiore, il partito comunista costruito
dalla clandestinità e nella clandestinità e ne traggano lezioni per il cammino
che dobbiamo fare in questi mesi.
Abbiamo corredato il vecchio articolo degli
indirizzi Internet dove leggere o prendere i testi citati.
Nota
30
[Come scritto sopra, questo testo è del
1999. Resta comunque attuale, come evidentemente riconoscono gli estensori
dell’appello, che lo hanno incluso nella raccolta. Le Note che aggiungo qui
sono riflessioni ulteriori a partire dal testo, che condivido in toto. Aggiungo
la cosa più importante, che distingue questo testo da tutti gli altri: qui si
afferma che il partito comunista deve essere costituito nella clandestinità, e
che senza questo metodo nessun partito comunista vero può essere costruito nel
nostro o in altri paesi. Il nuovo PCI quindi pone una questione, a cui per
primi i promotori dell’appello sono invitati a rispondere: è possibile
costituire un partito comunista entro i termini posti dalla legge borghese,
sotto il controllo degli organi della repressione dello Stato borghese? Secondo
il (n)PCI questo non è possibile, e le ragioni si comprenderanno leggendo
questo testo, che condivido, e che il Partito dei CARC condivide: non è
possibile, cioè, avanzare nella costruzione del partito né sul piano teorico né
sul piano organizzativo.]
La
settima discriminante
Quale
partito comunista?
Un partito che sia all’altezza del compito
che il procedere della seconda crisi generale del capitalismo e la conseguente
situazione rivoluzionaria in sviluppo pongono ad esso e che tenga pienamente
conto dell’esperienza della prima ondata della rivoluzione proletaria
Una introduzione necessaria
Tra le Forze Soggettive della Rivoluzione
Socialista (FSRS) operanti in Italia questa formula è stata posta al centro del
dibattito sul partito già nel 1995, con l’opuscolo pubblicato dai CARC in
occasione del centenario della morte di F. Engels.(1)
Nel dibattito tra le FSRS nessuno ha contestato apertamente e direttamente
questa formulazione. In realtà vi è però una divergenza che pesa nel lavoro che
le FSRS conducono per la ricostruzione del partito comunista e nelle linee che
lo guidano. La divergenza è stata ben espressa nel recente (15 novembre
1998) Coordinamento Nazionale (http://www.laltralombardia.it/public/docs/confed5.html) della CCA
(Confederazione dei Comunisti/e Autorganizzati) da G. Riboldi che ha affermato:
“Noi oggi non siamo in una situazione né rivoluzionaria, né prerivoluzionaria”.
Questa sua affermazione è strettamente connessa al suo ripetuto richiamo,
sempre nello stesso contesto (la relazione che ha presentato al Coordinamento),
alla “stabilità di questo potere politico”, al “programma della stabilità
capitalistica” che sarebbe impersonato dal governo D’Alema, al “processo di
normalizzazione [che] rischia di affermarsi stabilmente in assenza di
opposizione sociale che ne ostacoli la realizzazione”, alla “concertazione
neocorporativa [che] rischia di funzionare regolarmente e di stabilizzarsi
in assenza di soggetti politici e sindacali che rifiutano e combattono
l’accettazione dei parametri economici, politici e istituzionali imposti dagli
accordi di Maastricht”: in sintesi, alla stabilità che secondo GR hanno gli
attuali regimi borghesi e l’assetto delle loro relazioni internazionali,
stabilità che solo la lotta (delle classi o dei soggetti politici e sindacali:
qui la differenza non ha importanza) potrebbe scuotere.
1. PCARC , F. Engels/10, 100,
1000 CARC per la ricostruzione del partito comunista, 1995, Edizioni Rapporti
Sociali, pagg. 17 e segg. e pagg. 38 e segg., in
http://www.carc.it/index.php?option=com_content&view=article&id=865
Il merito della relazione di GR è di aver posto
nettamente e apertamente un’obiezione che in altri progetti, proposte e
relazioni (ad esempio nella relazione presentata allo stesso Coordinamento da
Leonardo Mazzei) è sottintesa o solo accennata di sfuggita. Facciamo quindi
riferimento alla relazione di GR per esaminare anche le obiezioni di altri.
G. Riboldi fa alcune altre
affermazioni preziose per questa analisi. Dice: “L’aspetto principale
della fase ... non è solo la “crisi ideologica del riformismo”(2), ma [anche] la “crisi economica del
capitalismo” e l’accentuarsi delle contraddizioni dei poli imperialisti”. E
ancora: “Sarebbe un errore credere che la crisi e il progressivo peggioramento
delle condizioni di vita di per sé possono condurre a una mobilitazione
rivoluzionaria delle masse”.
2. Di passaggio osserviamo che qualificare di ideologica
la crisi del riformismo è sminuire l’importanza politica del fatto.
Da quando a metà degli anni ‘70 è iniziata la seconda crisi generale del
capitalismo, la borghesia sta eliminando una a una, pezzo a pezzo tutte le
conquiste di civiltà e di benessere, sta cancellando o svuotando tutti i
diritti che le masse popolari avevano strappato nel periodo precedente. Questa
inversione di tendenza è un fatto pratico, è un processo che avviene nella
realtà, non nelle coscienze. Non è venuta meno la fiducia nel riformismo, non
si tratta di “aver cambiato idea”. Si tratta che la borghesia cancella quel
tessuto di civiltà e di diffuso benessere che le masse avevano costruito e via
via esteso (e che i revisionisti moderni assicuravano che sarebbe stato
possibile estendere in continuazione: la linea delle “riforme di struttura” di
Togliatti). Da qui ha origine la crisi del PCI, dei sindacati di regime e dello
stesso regime DC.
Infatti l’egemonia del PCI
sulle masse popolari non era principalmente basata sulle chiacchiere di
Togliatti e di Berlinguer sulle “riforme di struttura” e sul “socialismo sotto
l’ombrello della NATO”, ma sul fatto che sotto la direzione del PCI dal 1945 al
1975 le masse popolari italiane avevano strappato reali riforme. Queste reali
riforme avevano anche dato stabilità al regime DC, perché avevano attenuato
fino a quasi estinguerla la lotta della classe operaia per il potere. A partire
dalla metà degli anni ‘70 la lotta politica in Italia è tra chi vuole eliminare
le riforme e chi le vuole difendere, tra chi le difende a parole e chi le
difende con accanimento, tra chi le difende in maniera inconseguente e chi le
difende in maniera coerente. Classificare la svolta degli anni ‘70 come una
svolta ideologica, è assolutamente sbagliato. Non sono le idee che sono andate
in crisi, ma un regime politico, un corso pratico della società (quello del
capitalismo dal volto umano).
Classificare come ideologica
la crisi del riformismo vuol dire lasciare avvolto nel fumo anche il periodo
precedente: non erano le parole e le idee del PCI sulle riforme ciò che gli ha
permesso di mantenere la direzione del proletariato italiano, ma le effettive
reali conquiste strappate sotto la sua direzione grazie alla forza acquisita
dalle masse popolari nel precedente movimento rivoluzionario e alla forza del
movimento comunista internazionale (a conferma che le riforme non sono il
prodotto di un pensiero riformista, ma il sottoprodotto delle rivoluzioni
mancate). Questo (non la religiosità degli italiani e l’influenza morale del
Vaticano) era anche la base principale su cui fu possibile alla borghesia
instaurare il regime DC (che aveva alla sua testa il Vaticano) e su cui
poggiava la stabilità dello stesso regime.
Va da sé che quelle riforme
erano frutto della lotta delle masse popolari: chi ha l’età necessaria, si
ricorda le lotte, le dimostrazioni, gli scontri, i feriti, i caduti, la galera,
i processi e il resto del corollario da cui nacquero le riforme (altro che
pensiero riformista o piano del capitale per integrare le masse!). Quelle
riforme erano però compatibili con il dominio della borghesia imperialista
perché il capitalismo attraversava un periodo di ripresa dell’accumulazione e
di espansione dell’apparato produttivo, per cui le lotte rivendicative erano
produttive di riforme e conquiste, erano efficaci. Da qui è chiaro che il
periodo del capitalismo dal volto umano (il periodo delle conquiste) era
connesso con la ripresa e che la crisi del riformismo è connessa con la crisi
economica del capitalismo, è un prodotto, un effetto di essa.
La crisi del riformismo non è cioè un fenomeno accanto a un altro (la crisi
economica del capitalismo). Vi è tra i due fenomeni una connessione
dialettica (uno genera l’altro) il cui disconoscimento impedisce a G. Riboldi,
e a quanti altri lo condividono, di comprendere il reale processo pratico in
corso su cui si deve fondare ogni linea politica realistica. La stessa
connessione dialettica esiste anche tra crisi
economica del capitalismo e accentuarsi delle contraddizioni tra i gruppi
imperialisti. La crisi economica è madre della crisi del riformismo
(cioè della eliminazione delle riforme già strappate e della inconsistenza dei
progetti e delle promesse di riforme) e dell’accentuarsi delle contraddizioni
tra i gruppi imperialisti. Esse corrispondono ai due tipi di contraddizioni
(tra borghesia imperialista e masse popolari e tra gruppi imperialisti) che la
crisi per sovrapproduzione assoluta di capitale rende antagoniste, in cui si
esprime e che aggrava e aggraverà continuamente nel suo procedere fino a che
dall’una o dall’altra delle due sorgerà il movimento che porrà fine alla crisi:
la mobilitazione rivoluzionaria o la mobilitazione reazionaria delle masse.
Le relazioni presentate al
Coordinamento Nazionale della CCA da cui attingiamo le citazioni sono
pubblicate in nuova unità, n. 8/98. (http://www.laltralombardia.it/confed.html)
Nota 31
[Lo stesso identico errore è nella relazione di
Ferrando al Terzo Congresso del Partito Comunista dei Lavoratori tenutosi in
questo gennaio a Rimini. Ferrando ha ripetuto, a 14 anni di distanza, che “la
crisi economica convive con la crisi del capitalismo.”]
3. Vedere in proposito Per il dibattito sulla causa e
sulla natura della crisi attuale, in Rapporti Sociali n. 17/18, 1996 e Le fasi
in cui si divide l’epoca imperialista, in Rapporti Sociali n.
12/13, 1992. (http://www.nuovopci.it/scritti/RS)
Osserviamo ora gli avvenimenti reali alla luce e
con lo strumento del materialismo dialettico. La storia degli ultimi decenni
mostra
- che da un certo periodo in qua, all’incirca
dalla metà degli anni ‘70, il meccanismo della valorizzazione del capitale ha
incominciato a perdere colpi;(3)
- che da qui sono nate l’eliminazione delle
conquiste di benessere e di civiltà che le masse popolari avevano strappato nei
trent’anni precedenti (“i gloriosi trenta” della pubblicistica borghese)(4), la ricolonizzazione dei paesi semicoloniali
(piano Brady e simili) e lo sfruttamento della loro popolazione e delle loro
risorse ambientali fino all’estinzione, il crollo (1989) e la devastazione dei
paesi socialisti che il lungo dominio dei revisionisti moderni aveva reso
economicamente, finanziariamente e culturalmente dipendenti dall’imperialismo,
il gonfiarsi del capitale finanziario fino a sovrastare e schiacciare il
capitale produttivo di merci (beni e servizi) (l’economia reale), la
privatizzazione delle aziende pubbliche, l’eliminazione dei “lacci e lacciuoli”
- le regole di salvaguardia del pubblico interesse,(5) la corsa alla costituzione di un numero ristretto (poche
unità) di monopoli mondiali nei settori più importanti, le lotte sempre più
aspre tra i gruppi imperialisti, la crescita delle differenze economiche tra
paesi, regioni, gruppi e classi;
- che da qui è nata anche la crisi di tutti i
regimi politici dei paesi imperialisti e del sistema delle loro relazioni
internazionali (cioè la crisi politica);
- che da qui sono venute anche la crisi culturale
che sconvolge miliardi di uomini da un capo all’altro del mondo, l’incertezza
del futuro, l’insicurezza generale, la precarietà, la mancanza di stabilità,
proprio di quella stabilità contro cui G. Riboldi e soci chiamano a lottare
come Don Chisciotte chiamava a lottare contro i mulini a vento.(6)
4.
L’ultima conquista strappata dalle
masse è stato l’accordo del 1975 tra Confindustria (presidente G. Agnelli) e
Sindacati per il punto unico di contingenza che migliorò molto la dinamica dei
salari più bassi. Di lì a poco subentrò la “linea dell’EUR” (1978).
Sulla eliminazione delle
conquiste, vedere CARC, Le conquiste delle masse popolari, 1997,
Edizioni Rapporti Sociali (http://www.carc.it/index.php?view=article&id=866)
e G. Pelazza, Cronache di diritto del lavoro 1970-1990, Edizioni
Rapporti Sociali. (http://www.carc.it/index.php?view=article&id=1157)
5. Vedere sulle Forme Antitetiche dell’Unità Sociale
(FAUS), Rapporti Sociali n. 4, pagg. 20-25, 1989.
(http://www.nuovopci.it/scritti/RS)
6. Sul carattere economico, politico e culturale della
crisi in corso, vedere CARC, La situazione e i nostri compiti,
1994/1995, Edizioni Rapporti Sociali.
http://www.carc.it/index.php?view=category&id=104
7. Il movimento di resistenza delle masse popolari al
procedere della crisi della società borghese e i compiti delle Forze Soggettive
della Rivoluzione Socialista, in Rapporti Sociali n. 12/13, 1992.
(http://www.nuovopci.it/scritti/RS)
Dove porta questo corso delle cose? Esso accentua
la contraddizione tra borghesia imperialista e masse popolari e le
contraddizioni tra i gruppi imperialisti. Le masse sono costrette a cercare
nuove soluzioni ai loro problemi di vita e di lavoro, dato che la borghesia
imperialista distrugge essa stessa (nei paesi imperialisti, nelle colonie,
negli ex paesi socialisti) le vecchie soluzioni. Sono cioè costrette a
mobilitarsi. Noi abbiamo dato un nome a questa mobilitazione delle masse
indotta dalla crisi generale del capitalismo, l’abbiamo chiamata “resistenza
delle masse popolari al procedere della crisi”. (7) Che la si chiami come si vuole. È però incontestabile che essa
è il fattore politico più importante del presente, è il terreno su cui si danno
battaglia tutte le classi, le forze e i gruppi che lottano per il potere.
Quindi di per sé “la crisi e il progressivo peggioramento delle
condizioni di vita non producono la mobilitazione rivoluzionaria delle
masse”, come giustamente osserva GR che però omette di aggiungere che di per
sé producono la mobilitazione delle masse che è il fattore
principale e indispensabile della trasformazione della società e quindi la base
oggettiva di ogni progetto politico realistico, di ogni progetto politico che
non si riduca a declamazione e a vaniloquio. Non è forse vero? Chi ha generato
e genera la migrazione di milioni di persone da un continente a un altro? Chi
ha generato e genera la ribellione crescente di milioni di persone a questa
“invasione”? Chi ha generato e genera l’abbandono delle organizzazioni di
regime e delle istituzioni (elezioni, ecc.) del regime? Chi ha generato e
genera l’esplosione di religioni, sette, volontariato, doppio e triplo lavoro,
violenze gratuite, ecc.? Chi ha generato e genera quell’insieme di fenomeni che
si riassumono nell’imbarbarimento: la malavita, l’esplosione della delinquenza
giovanile, gli scandali, l’insofferenza, la “ingovernabilità delle metropoli”?
Quindi la crisi generale produce di per sé la mobilitazione delle masse:
non mobilitazione rivoluzionaria, ma mobilitazione!
Nota 32
[GR è meccanicista. Mancando di approccio
scientifico alla materia, anche lui è per la “rivoluzione che scoppia”, che poi
è la rivoluzione secondo la concezione borghese del mondo. La borghesia non
conosce altra forma di rivoluzione se non quella da lei sperimentata, cioè come
insurrezione delle masse popolari contro la classe al potere, che al momento in
cui accade viene presa in mano da un’altra classe che si sostituisce a quella
contro cui le masse popolari stanno insorgendo, e che riproduce, anche se in
forma più avanzata, la divisione in classi. La borghesia, quindi, non capisce
come la rivoluzione è cosa che si costruisce, e questa sua mancata comprensione
della realtà è un’arma in mano della classe operaia. Qui “la concezione comunista
del mondo (la scienza sperimentale della trasformazione della società
capitalista nel comunismo) permette di capire il corso delle cose (la questione
della situazione rivoluzionaria) e quindi [darsi] con più energia ad
assimilarla per usarla come guida della loro attività nella GPR che stiamo
conducendo”, come scritto sopra. La strategia della GPRdLD è cosa che noi
dobbiamo comprendere e intendere come arma forgiata dal Partito e messa a
nostra disposizione, perché il nemico non la comprende. È teoria rivoluzionaria
nel senso che è inaccessibile all’avversario: “Una teoria è rivoluzionaria in
quanto è appunto elemento di separazione completa in due campi, in quanto è
vertice inaccessibile agli avversari.” (Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino 20012, p. 1434
[QC, da qui in avanti]). ]
La crisi, proprio perché è crisi generale per
sovrapproduzione assoluta di capitale, genera anche la lotta antagonista tra
gruppi imperialisti perché ognuno deve valorizzare il suo capitale e il
capitale accumulato è troppo e il plusvalore estorto ai lavoratori, per quanto
grande e crescente, non basta a valorizzarlo tutto. Ogni capitalista per
valorizzare il suo capitale oltre a spremere a morte i lavoratori deve anche
“uccidere” un altro capitalista, deve appropriarsi del suo capitale. Questo
rende antagonisti i contrasti tra gruppi imperialisti.
Queste tendenze che ognuno può constatare, creano
forse stabilità? No, di per sé generano instabilità, sconvolgono regimi
e relazioni tra classi, paesi, nazioni e Stati. Non è quello che avviene sotto
i nostri occhi?
Ebbene, a questa situazione la cui comprensione
nell’insieme e nei dettagli è essenziale per ogni attività politica autonoma
(cioè che non sia a rimorchio e al servizio di altri che pensano e decidono al
nostro posto), che nome diamo?
Noi la chiamiamo situazione rivoluzionaria in
sviluppo.(8) È una situazione in cui i
vecchi poteri crollano e crolleranno e altri poteri si affermeranno lottando e
imponendosi ai loro avversari: come è avvenuto nel corso della prima crisi
generale del capitalismo (1900-1945). In questa situazione la mobilitazione
delle masse può diventare rivoluzionaria o diventare reazionaria, ma non una
terza cosa!
8. La situazione rivoluzionaria in sviluppo, in Rapporti Sociali n. 9/10, 1991. (http://www.nuovopci.it/scritti/RS)
L’affermazione di G. Riboldi e altri “non siamo in
una situazione rivoluzionaria né prerivoluzionaria” diventa meno fuori posto se
intesa come “non siamo in una situazione insurrezionale né preinsurrezionale”:
cosa che (a quanto pare) nessuno contesta. Ma così intesa l’affermazione di GR
comporta una concezione schematica e ristretta del lavoro delle FSRS del tipo:
“La rivoluzione si fa con l’insurrezione; finché non c’è l’insurrezione o non
si è nell’imminenza dell’insurrezione, la politica rivoluzionaria si riduce a
fare da “sponda politica” al lavoro sindacale, a sostenere, promuovere e
organizzare le lotte rivendicative dei lavoratori e a sostenere le loro ragioni
presso le autorità, nelle istituzioni”. Che è la concezione della politica
rivoluzionaria che ha dato la triste dimostrazione della sua impotenza
all’inizio di questo secolo, nei partiti della Seconda Internazionale e, per
quel che ci riguarda, nel PSI e nel “biennio rosso” 1919-1920.
Nota 33
[Anche qui è cosa che Ferrando ripete. A Rimini ha
detto che “non siamo in una situazione prerivoluzionaria”. Qui la mancanza di
approccio scientifico è nel fermarsi alla superficie: una cosa c’è quando si
vede. La situazione rivoluzionaria è quando c’è la rivoluzione, come dire che
“una rosa è una rosa”. Chi pensa in questo modo o è condannato a sparire o si
mette a traino di chi si sforza di elaborare un pensiero scientifico. I
trotzkisti sono un esempio del secondo caso. Mentre vanno a traino, poi,
criticano i risultati che gli scienziati portano come pretese di imporre verità
assolute, e quando gli scienziati agiscono sulla base dei risultati colti,
questo, per i trotzkisti, è “dittatura”.]
La mobilitazione delle masse, che la crisi
generale produce di per sé, deve crescere sotto una direzione, non può
crescere senza direzione: esiste e non può esistere che sotto una direzione.
Quale sarà la direzione che effettivamente si affermerà in un caso concreto,
non dipende dalla crisi, ma da altri fattori: come dire che ogni uccello a
primavera fa il nido e lo deve appoggiare da qualche parte, ma che lo appoggi
da una parte o dall’altra non dipende dalla primavera. Crescerà come
mobilitazione rivoluzionaria, certamente non di per sé, non ineluttabilmente,
ma solo se le FSRS, se il partito comunista della classe operaia (quindi le
FSRS oggi e il partito comunista domani) saranno capaci di far prevalere in
essa la direzione della classe operaia, rispetto a quella di tutti gli altri
pretendenti (i gruppi imperialisti promotori della mobilitazione reazionaria),
quindi se saranno capaci di trasformarla in lotta per il comunismo, in
rivoluzione socialista. In caso contrario la mobilitazione delle masse crescerà
come mobilitazione reazionaria, come mobilitazione delle masse diretta da
qualche gruppo della borghesia imperialista che mobilita le masse nella sua
lotta contro altri gruppi imperialisti che a loro volta mobilitano altre masse,
cioè nelle guerre imperialiste in cui i gruppi imperialisti e i loro clienti
scagliano le masse le une contro le altre.(9)
È stato anche dimostrato dalla pratica, ed è comprensibile anche teoricamente,
che la mobilitazione reazionaria può essere trasformata in mobilitazione
rivoluzionaria e viceversa. Nel giugno-luglio 1919 la piccola borghesia urbana
italiana portava le chiavi dei negozi alle Camere del lavoro, la stessa piccola
borghesia urbana due anni dopo forniva reclute alle squadre fasciste che davano
la caccia agli operai. Viceversa i soldati che nel 1940 avevano applaudito
Mussolini che li chiamava alla guerra, nel 1944 gli davano la caccia come
partigiani. La storia della prima crisi generale è folta di trasformazioni di
questo genere.
Nota 34
[Che una cosa possa e anzi sia se stessa e il suo
contrario, cioè cosa in divenire, in movimento, in trasformazione, è
incomprensibile ai dogmatici di ogni genere. Il dogmatismo è espressione della
concezione borghese del mondo ed è giustamente indicato come pigrizia da Mao,
perché è il modo di pensare di chi non vuole sforzarsi di capire, non vuole
fare il lavoro intellettuale, non
vuole lavorare, in sostanza. L’economicismo, che all’opposto si spaccia come
lavorio senza posa, è ugualmente e per gli stessi motivi pigrizia.
“La realtà è che il dogmatismo è sempre apprezzato
soltanto dalle persone pigre. Ben lungi dall’essere di qualche utilità, il
dogmatismo reca un danno incalcolabile alla rivoluzione, al popolo e al
marxismo-leninismo. Per poter elevare la coscienza delle masse popolari,
stimolare il loro dinamico spirito creativo e realizzare il rapido sviluppo del
lavoro pratico e teorico, è ancora necessario distruggere la superstiziosa
fiducia nel dogmatismo.” (da A proposito dell’esperienza storica della
dittatura del proletariato (1956), in Opere di Mao Tse-tung vol. 13,
citato in MP, p. 289)]
9. Le mille guerre nazionalistiche, interetniche, ecc.
che imperversano dall’Europa all’Asia sono per la maggior parte un esempio di
queste guerre che i gruppi imperialisti conducono tra loro mobilitando ognuno
masse al suo seguito e facendo a tale fine leva su uno dei mille contrasti e
differenze (nazionali, economiche, religiose, ecc.) che la storia ci lascia in
eredità. Sulla natura della mobilitazione reazionaria, v. Rapporti Sociali
n. 12/13 pagg. 25-31. (http://www.nuovopci.it/scritti/RS)
Ma come possono le FSRS essere capaci di far
crescere la mobilitazione delle masse (la resistenza che le masse oppongono al
procedere della crisi generale del capitalismo) come mobilitazione
rivoluzionaria (cioè come lotta per il comunismo, come rivoluzione socialista),
se neanche si accorgono di questa mobilitazione
che cresce di per sé, se continuano a fare i loro chiacchiericci
senza rendersi conto di questa esplosione in arrivo, di questa colata lavica
che va montando? Che cosa significa il fatto che un autorevole esponente di una
FSRS nasconde dietro la negazione di una tesi (la tesi che la crisi produce di
per sé mobilitazione rivoluzionaria delle masse) che, a quanto risulta,
nessuno sostiene, il suo silenzio su una tesi (la crisi produce di per sé
mobilitazione delle masse) che, se è vera come lo è, in questa fase sta alla
base di tutta l’attività politica rivoluzionaria consapevole, di ogni progetto
realistico di politica rivoluzionaria? Stante che la crisi effettivamente in
corso fa mobilitare le masse, ogni piano di politica rivoluzionaria, ogni
concezione del divenire della società, ogni concezione della rivoluzione
socialista che non sono lavoro per far diventare rivoluzionaria la reale
mobilitazione delle masse, quella che effettivamente si sviluppa, ogni progetto
di creare un altro tipo di rivoluzione socialista sono un proposito sciocco,
uno sterile gioco intellettuale e una dispersione di forze.
Nota 35
[Non solo. Dato che la scienza è una, e una è la
scienza rivoluzionaria, quanto si discosta da essa può essere “un proposito
sciocco, uno sterile gioco intellettuale e una dispersione di forze”, ma anche
soprattutto può essere causa della mobilitazione reazionaria delle masse
popolari. GR non accetta il principio che la rivoluzione si costruisce, che
“dipende da noi” e da lui, e quindi, in base al principio che ciò che si può
fare si deve fare, qui GR non fa quel che deve. È perciò responsabile delle
conseguenze, cioè della mobilitazione reazionaria delle masse popolari.
Manca a GR la concezione comunista del mondo, e
quindi la rivoluzione è rivoluzione che scoppia, secondo la concezione
clericale del mondo (la rivoluzione come evento che accade, come “miracolo”) o
secondo la concezione borghese del mondo (la rivoluzione è rivolta di cui io,
classe superiore dal punto di vista morale e intellettuale, prendo la guida).
Stante che GR ragiona secondo concezioni delle classe nemiche, non vede quello
che gli sta attorno, non vede la mobilitazione delle masse popolari. Mi ricorda
un sindacalista della FIOM in una manifestazione a Massa due anni fa che, in
mezzo a un corteo di ventimila persone, mi diceva che “le masse non si
muovono”. Andava come l’asino con i paraocchi, che in questo caso erano quelli
di Vendola. Nemmeno me vedeva.]
Il ragionamento di GR in sintesi è: “La crisi non
produce di per sé la mobilitazione rivoluzionaria delle masse, quindi
non ha senso occuparsi della mobilitazione delle masse che la crisi di
per sé produce e di cosa dobbiamo fare per farla diventare rivoluzionaria.
Passiamo quindi a parlare d’altro”.
Proprio al contrario, le FSRS devono studiare con
la massima cura la reale mobilitazione delle masse che la crisi produce di per
sé, questa colata lavica che monta; devono scoprire le leggi dello sviluppo
della resistenza delle masse al procedere della crisi generale del capitalismo;
devono far leva sulle tendenze positive presenti in questa resistenza per far
prevalere in essa la direzione della classe operaia, cioè per trasformarla in
lotta per il comunismo.
Noi dobbiamo costituire un partito comunista che
sia in grado di adempiere a questo compito, perché questo e non altro è il
compito che gli sta di fronte.
Per chiunque vede la reale connessione tra crisi
economica per sovrapproduzione assoluta di capitale, crisi generale (economica,
politica e culturale), lotte tra gruppi imperialisti, crisi del riformismo
(delle politiche riformiste, dei riformisti, degli illusionisti delle riforme)
e mobilitazione delle masse, per costui è quindi chiaro che la classe operaia,
il proletariato, le masse popolari, la causa del comunismo hanno bisogno di un
partito che sia all’altezza del compito che il procedere della seconda crisi
generale del capitalismo e la conseguente situazione rivoluzionaria in sviluppo
pongono ad esso e che tenga pienamente conto dell’esperienza della prima ondata
della rivoluzione proletaria, perché siamo proprio in una situazione
rivoluzionaria in sviluppo, una situazione di grande instabilità e precarietà
degli attuali regimi politici borghesi, che va di per sé verso la
mobilitazione delle masse che sarà rivoluzionaria o reazionaria a secondo della
capacità delle forze politiche di capire e applicare a proprio vantaggio le sue
leggi di sviluppo.
La seconda crisi generale genera di per sé un
periodo di guerre e di rivoluzioni. Quali guerre, quali rivoluzioni, con quali esiti provvisori, con quale
esito finale? Questo lo “deciderà” lo scontro tra la mobilitazione
rivoluzionaria che le FSRS oggi e il partito comunista domani promuoveranno e
la mobilitazione reazionaria che vari gruppi imperialisti a loro volta e in
concorrenza tra loro promuoveranno.
Ma è chiaro che non abbiamo bisogno di un partito
comunista che si qualifichi principalmente come “sponda politica” del
“sindacato di classe” (per riprendere un’altra affermazione di G. Riboldi), ma
di un partito comunista promotore, organizzatore e dirigente della
mobilitazione delle masse popolari, che solo così diventa mobilitazione rivoluzionaria,
cioè lotta per la conquista del potere da parte della classe operaia e per
l’instaurazione del socialismo.
Nota 36
[Il partito come sponda politica del sindacato di
classe è l’inversione del principio per cui prima viene la politica e poi
l’economia, ed è quindi espressione della concezione borghese del mondo e di
tutte le concezioni dominanti nelle società divise in classi per cui prima
viene l’economia e poi la politica.]
Posto questo, sono tre le questioni che ne
derivano.
1. Cosa significa in concreto, nella nostra
situazione, un partito che sia all’altezza del compito che il procedere della
seconda crisi generale del capitalismo e la conseguente situazione
rivoluzionaria in sviluppo pongono ad esso?
2. Cosa insegna al riguardo l’esperienza della
prima ondata della rivoluzione proletaria (1900-1945)?
3. Quali sono le caratteristiche che rendono un
partito quale lo vogliamo?
Nota 37
[Il punto 1 riguarda il compito, il punto 2 il
bilancio, il punto 3 come deve essere il partito presente. Alle tre questioni
tutte le forze che intendono unirsi devono rispondere.]
Ogni compagno che si pone responsabilmente e
concretamente il compito di ricostruire il partito comunista si pone queste tre
domande. Ogni compagno ha cercato e cerca di dare ad esse delle risposte.
Ricavandole da dove? Dalle sue credenze, dai suoi pregiudizi, dalla cultura
correntemente diffusa dalle università, dai centri studi, dalle fondazioni,
dalle case editrici, dalle riviste di prestigio, dai giornalisti ben pagati,
insomma dalla macchina ideologica della classe dominante? No, le ricava dalla
esperienza passata e presente del movimento comunista internazionale e del
nostro paese e dalle condizioni della lotta di classe che si svolge nel nostro
paese, studiando ed elaborando quelle esperienze con gli strumenti forniti dal
patrimonio teorico del movimento comunista internazionale che è sintetizzato
nel marxismo-leninismo-maoismo. Può darsi che questo scandalizzi alcuni critici
accaniti del “pensiero unico” della borghesia imperialista che però ad esso si
rifanno ogni volta che devono pensare qualcosa. Ma questa è la strada che noi
seguiamo.
Noi vogliamo essere materialisti dialettici,
comunisti, rivoluzionari proletari. Quindi le nostre risposte sono criteri che
ci guideranno nella nostra azione, sottoposti alla verifica della realtà.
Facciamo il bilancio delle esperienze, raccogliamo ed elaboriamo le esperienze,
le sensazioni, le aspirazioni sparse, diffuse e confuse delle masse che sono
effetto della vita che esse conducono e quindi rivelatrici (indizi) del reale
corso delle cose, traduciamo tutto ciò in una linea che riportiamo alle masse
perché diventi guida nell’azione. Dai risultati di questa azione ripartiremo
per ripetere il processo, elaborare una linea più giusta e più conforme alle
leggi oggettive del movimento della società, della lotta tra le classi
sfruttate e la borghesia imperialista. Il successo nella pratica è, in
definitiva, il criterio della verità di ogni nostra linea e di ogni nostra
idea.
In questo articolo vogliamo dimostrare che
l’esperienza della prima ondata della rivoluzione proletaria e l’analisi della
società attuale insegnano concordemente tre cose.
- 1. Che la rivoluzione proletaria che dobbiamo e
possiamo fare ha la forma della guerra popolare rivoluzionaria di lunga durata.
- 2. Che il nuovo partito comunista deve essere
costruito in modo da essere la direzione della guerra popolare rivoluzionaria
di lunga durata che in maniera confusa e dispersa si sta già sviluppando sotto
i nostri occhi, onde renderla una guerra che le masse popolari conducono in
modo via via più organizzato, prendendo l’iniziativa nelle loro mani, sotto la
direzione lungimirante e capace della classe operaia organizzata nel suo
partito comunista, ponendosi l’obiettivo della vittoria e dell’instaurazione
del socialismo (passando insomma da una guerra che ora le masse subiscono
difendendosi alla meno peggio e in ordine sparso, a
una guerra che conducono come si deve condurla per vincere).
- 3. Che esso deve essere costruito dalla clandestinità, come partito
che non basa la sua esistenza sul margine di libertà di azione politica che la
borghesia imperialista reputa le convenga consentire alle masse popolari, ma
sulla sua capacità di esistere e di operare nonostante i tentativi della
borghesia di eliminarlo e che da qui sfrutta al massimo anche quel margine per
la sua azione: solo dalla clandestinità il partito è in grado di raccogliere le
forze rivoluzionarie che il corso della lotta tra le classi gradualmente
genera, di dirigerle a educarsi alla lotta lottando e di accumularle fino a
rovesciare l’iniziale sfavorevole rapporto di forza.
Illustriamo in questo articolo le risposte che noi
diamo alle domande sopra indicate. Pubblicheremo via via nei prossimi numeri
della rivista le risposte che altri compagni daranno ad esse, in modo da
raccogliere e poterci giovare nel lavoro che ci sta davanti, del massimo
dell’esperienza e della elaborazione attualmente disponibile. Le idee giuste
vengono verificate dalla pratica e arricchite dal bilancio delle esperienze;
nel bilancio delle esperienze le idee giuste si affermano contro le idee
sbagliate: per questo sono indispensabili i dibattiti e le lotte ideologiche.
Sulla forma della rivoluzione proletaria
Incominceremo dalla forma della rivoluzione
proletaria, dal modo in cui la classe operaia prepara e attua la conquista del
potere, da cui parte poi la trasformazione socialista della società.(10)
Alla fine del secolo scorso, cioè all’inizio
dell’epoca imperialista del capitalismo, i partiti socialdemocratici nei paesi
più avanzati avevano già compiuto la loro opera storica di costituire la classe
operaia come classe politicamente autonoma dalle altre. Avevano posto fine
all’epoca in cui molte persone di talento o inette, oneste o disoneste,
attratte dalla lotta per la libertà politica, dalla lotta contro il potere
assoluto dei re, della polizia e dei preti, non vedevano il contrasto fra gli
interessi della borghesia e quelli del proletariato. Quelle persone non
concepivano neanche lontanamente che gli operai potessero essi stessi agire
come una forza sociale autonoma. I partiti socialdemocratici avevano posto fine
all’epoca in cui molti sognatori, a volte geniali, pensavano che sarebbe
bastato convincere i governanti e le classi dominanti dell’ingiustizia e della
precarietà dell’ordine sociale esistente per stabilire con facilità sulla terra
la pace e il benessere universali. Essi sognavano di realizzare il socialismo
senza lotta della classe operaia contro la borghesia imperialista. I partiti
socialdemocratici avevano posto fine all’epoca in cui quasi tutti i socialisti
e in generale gli amici della classe operaia vedevano nel proletariato solo una
piaga sociale e constatavano con spavento come, con lo sviluppo dell’industria,
si sviluppava anche questa piaga. Perciò pensavano al modo di frenare lo
sviluppo dell’industria e del proletariato, di fermare la “ruota della storia”.(11) Grazie alla direzione di Marx ed Engels i
partiti socialdemocratici avevano invece creato nei paesi più avanzati un
movimento politico, con alla testa la classe operaia, che riponeva le sue
fortune proprio nella crescita del proletariato e nella sua lotta per
l’instaurazione del socialismo e la trasformazione socialista dell’intera società.
Iniziava l’epoca della rivoluzione proletaria.(12)
Il movimento politico della classe operaia era
il lato soggettivo, sovrastrutturale della maturazione delle condizioni della
rivoluzione proletaria, mentre il passaggio del capitalismo alla sua fase imperialista
ne era il lato oggettivo, strutturale.
10. Sulla forma della rivoluzione socialista, vedere pagg.
14-15 e pagg. 38-44 di CARC, F. Engels/10, 100, 1000 CARC per la
ricostruzione del partito comunista, 1995, Edizioni Rapporti Sociali.
http://www.carc.it/index.php?view=article&id=865
11. Su questi temi vedere F. Engels, L’evoluzione del
socialismo dall’utopia alla scienza, 1882, Edizioni Rapporti Sociali.
http://marxists.anu.edu.au/italiano/marx-engels/1880/evoluzione
http://www.marxists.org/italiano/lenin/1895/biogra-e.htm
La classe operaia aveva già compiuto alcuni
tentativi di impadronirsi del potere: in Francia nel 1848-50 (13) e nel 1871 con la Comune di Parigi(14), in Germania con la partecipazione su
grande scala alle elezioni politiche.(15)
Era ormai possibile e necessario capire come la classe operaia sarebbe
riuscita a prendere nelle sue mani il potere e avviare la trasformazione
socialista della società. Erano riunite le
condizioni per affrontare il problema della
forma della rivoluzione proletaria. Nel
1895, nella Introduzione alla ristampa degli articoli di K. Marx
Le lotte
di classe in Francia dal 1848 al 1850, F. Engels (http://www.nuovopci.it/classic/marxengels/prlotfra.html)
fece il bilancio delle esperienze fino allora compiute dalla classe operaia ed
espresse chiaramente la tesi che “la rivoluzione proletaria non ha la forma di
un’insurrezione delle masse popolari che rovescia il governo esistente e nel
corso della quale i comunisti, che partecipano ad essa assieme agli altri
partiti, prendono il potere”. La rivoluzione proletaria ha la forma di un
accumulo graduale delle forze attorno al partito comunista, fino ad invertire
il rapporto di forza: la classe operaia deve preparare fino ad un certo punto
“già all’interno della società borghese gli strumenti e le condizioni del suo
potere”. Lo sviluppo delle rivoluzioni nel nostro secolo ha confermato,
precisato e arricchito la tesi di F. Engels.(16)
13. K. Marx, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al
1850, 1850, in Opere, vol. 10.
http://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1850/lottecf/
14.
K. Marx, La guerra civile in
Francia, 1871 e F. Engels, Introduzione, 1891. http://marxists.anu.edu.au/italiano/
marx-engels/1871/gcf/introduzioneengels.htm
marx-engels/1871/gcf/introduzioneengels.htm
15. F. Engels, Introduzione a “K. Marx, Le lotte di classe
in Francia dal 1848 al 1850”, 1895, in Opere, vol. 10.
http://www.nuovopci.it/classic/marxengels/prlotfra.html
16. I revisionisti dell’inizio del secolo (E. Bernstein
& C) e i revisionisti moderni (Kruscev, Togliatti, ecc.) hanno cercato
ripetutamente di “tirare dalla loro parte” l’Introduzione del 1895 di Engels.
“Accumulo graduale delle forze rivoluzionarie all’interno della società
borghese? Certo! Ecco i nostri gruppi parlamentari sempre più numerosi, abili,
influenti e ascoltati dal governo, i nostri voti in crescita di elezione in
elezione, i nostri sindacati cui sono iscritti milioni di lavoratori e che
ministri e industriali ascoltano e interpellano con rispetto, le nostre floride
cooperative, le nostre buone case editrici, i nostri giornali e periodici ad
alta tiratura, le nostre manifestazioni d’ogni genere sempre affollate, le
nostre associazioni culturali che raccolgono il fior fiore dell’intelligenza
del paese, la nostra vasta rete di contatti e di presenze in posti che contano,
il nostro seguito in tutte le categorie. Ecco l’accumulo delle forze
rivoluzionarie che ci rende capaci di governare!”.
È una grande violenza far
dire queste cose a Engels che, pur non avendo visto tutto quello che è successo
nel secolo XX, aveva messo in guardia dal farsi illusioni, aveva avvertito che
la progressione elettorale del partito socialdemocratico tedesco, segno del
progresso del socialismo nella classe operaia tedesca e della sua crescente
egemonia sulle masse popolari, non sarebbe continuata all’infinito, aveva
avvertito che la borghesia avrebbe “sovvertito la sua stessa legalità” quando
questa l’avrebbe messa in difficoltà.
Nota 38
[La stessa distorsione nei confronti di Engels è
stata attuata nei confronti di Gramsci. La sua “guerra di posizione”, che
comporta, tra le altre cose, anche intervenire nella lotta politica borghese,
diventa nella “traduzione” dei revisionisti conquista dell’egemonia esclusivamente
tramite la lotta politica borghese, cioè posizione senza guerra.]
Ma il problema principale non è “quello che Engels
ha veramente detto”. Il problema principale è che i fatti, la realtà, gli
avvenimenti hanno ripetutamente dimostrato che quelle forze accumulate di cui
parlano i revisionisti si sono sciolte come neve al sole in ogni scontro acuto
e crisi acuta della società che hanno posto all’ordine del giorno la conquista
del potere, in ogni caso in cui erano dirette dai revisionisti ed erano le sole
o le principali “forze rivoluzionarie” che la classe operaia aveva accumulato
(basti richiamare l’Italia del 1919-1920, la Germania del 1914 e del 1933,
l’Indonesia del 1966, il Cile del 1973). Esse hanno potuto servire allo scopo
solo quando erano le propaggini legali, il braccio legale di un partito e di
una classe operaia che veniva altrimenti accumulando le vere e decisive forze
rivoluzionarie (basti citare la Russia del 1917).
Il processo della rivoluzione socialista è
complesso, ha le sue leggi, si svolge nel corso di un certo tempo.
Chi dice che la classe operaia non può
vincere, rovesciare la borghesia imperialista e prendere il potere, sbaglia (i
pessimisti e gli opportunisti sbagliano). I successi raggiunti dal movimento
comunista nella prima ondata della rivoluzione proletaria (1914-1949) hanno
confermato praticamente ciò che Marx ed Engels avevano dedotto teoricamente
dall’analisi della società borghese.
Chi dice che la classe operaia può facilmente e
in breve tempo vincere, rovesciare la borghesia imperialista e prendere il
potere, sbaglia (gli avventuristi sbagliano: da noi abbiamo visto all’opera i
soggettivisti e i militaristi). Le sconfitte subite dal movimento comunista
nella prima ondata della rivoluzione proletaria (tra cui in Italia quella del
“biennio rosso” 1919-1920 di cui ricorre quest’anno lo 80° anniversario), le
rovine prodotte dal revisionismo moderno dopo che negli anni ‘50 ha preso la
direzione del movimento comunista e la sconfitta subita in Italia dalle Brigate
Rosse all’inizio degli anni ‘80 hanno confermato praticamente anche questa
tesi.
La classe operaia può vincere, rovesciare
la borghesia imperialista e prendere il potere, ma attraverso un lungo periodo
di apprendistato, di dure lotte, di lotte dei tipi più svariati e di
accumulazione di ogni genere di forze rivoluzionarie, nel corso del processo di
guerre civili e di guerre imperialiste che durante la crisi generale del
capitalismo comunque (inevitabilmente, indipendentemente dalle teorie e dalle
decisioni di uomini e partiti) sconvolgono il mondo fino a trasformarlo. Per
condurre con successo questa lotta, per ridurre gli errori che si compiono,
bisogna capire la natura del processo, le contraddizioni che lo determinano, le
leggi secondo cui si sviluppa.
Non per nostra scelta ma per le caratteristiche
proprie del capitalismo, il processo di sviluppo dell’umanità si è posto in
questi termini: o guerre tra masse popolari dirette da gruppi imperialisti o
guerre tra classe operaia e borghesia imperialista. È un dato di fatto, un
fatto a cui non possiamo sfuggire per forza dei nostri desideri o della nostra
volontà se non ponendo fine all’epoca dell’imperialismo; (17) è un fatto reso evidente dallo studio dei
100 anni dell’epoca imperialista già trascorsi e dallo studio delle tendenze
attuali della società. La situazione è resa ancora più complessa dal fatto che
nella sua guerra contro la borghesia imperialista la classe operaia deve
sfruttare le contraddizioni tra gruppi imperialisti. I due tipi di guerre (la
guerra della classe operaia contro la borghesia imperialista e le guerre tra
gruppi imperialisti) in sostanza si sviluppano entrambi e si intrecciano.(18) Il problema è quale prevale. I comunisti
devono fare in modo che gli antagonisti nella guerra siano la classe operaia e
la borghesia imperialista in modo che alla sua conclusione la classe operaia
emerga come nuova classe dirigente, come la classe che ha vinto la guerra.
D’altra parte devono condurre la guerra in modo tale che i gruppi imperialisti
si azzuffino tra loro onde non uniscano e concentrino le loro forze, all’inizio
prevalenti, contro la classe operaia. Questo è un problema della relazione tra
strategia e tattica nella rivoluzione proletaria.
17. Non è un caso che ripetutamente si vedono pacifisti
dichiarati diventare nel corso degli avvenimenti fautori della guerra.
Clamoroso il caso di A. Sofri che divenne fautore dell’intervento militare
degli imperialisti USA ed europei nei Balcani. Le cose procedono nonostante le
volontà dei pacifisti e diventano tali che essi o si schierano contro la causa
(l’imperialismo) che determina il corso delle cose o si schierano con una delle
parti in guerra, giustificando in qualche modo il venir meno del loro
pacifismo.
Il loro pacifismo non può
trasformare il corso delle cose e quindi è il corso delle cose che trasforma il
loro pacifismo. Il pacifismo non è una “terza via”. In alcuni è uno stadio transitorio
verso lo schieramento nella guerra, per altri è una politica per impedire che
le masse popolari prendano le armi contro la borghesia imperialista: predicano
il disarmo e la pace alle masse che non hanno armi in modo da lasciare libero
il campo d’azione alla borghesia imperialista che è armata fino ai denti e
continua ad armarsi. Esponente tipico di questa seconda specie di “pacifismo” è
Papa Woityla.
18.
Esemplare al riguardo fu la Seconda
guerra mondiale. Essa fu contemporaneamente guerra tra gruppi imperialisti e
guerra tra classe operaia e borghesia imperialista. La contraddizione tra i due
aspetti ha caratterizzato la natura, l’andamento e l’esito della Seconda guerra
mondiale. Tra quelli che non comprendono questa contraddizione o per
opportunità politica la negano, alcuni pongono unilateralmente un aspetto
(guerra interimperialista), altri l’altro (guerra di classe), gli uni e gli
altri facendo a pugni con i fatti e impelagandosi in un intrico di
contraddizioni logiche da cui non riescono a uscire.
Su questa contraddizione che
caratterizza la Seconda guerra mondiale, vedere l’articolo di M. Martinengo Il
movimento politico degli anni trenta in Europa, in Rapporti Sociali
n. 21, 1999. (http://www.nuovopci.it/scritti/RS)
Vedere anche Un libro e
alcune lezioni di Umberto C. in La Voce n. 24 (novembre 2006).
http://www.nuovopci.it/voce/voce24/librlez.html
In contrasto con la tesi di Engels (che la classe
operaia può arrivare alla conquista del potere solo attraverso un graduale
accumulo delle forze rivoluzionarie), alcuni presentano la rivoluzione russa
del 1917 come un’insurrezione popolare (“assalto al Palazzo d’Inverno”) nel
corso della quale i bolscevichi hanno preso il potere. In realtà
l’instaurazione del governo sovietico nel novembre del 1917
1. è stata preceduta da un lavoro sistematico di
accumulazione delle forze diretto dal partito che a partire dal 1903 si era
costituito come forza politica libera, che esisteva e operava con continuità in
vista della conquista del potere nonostante che l’avversario mirasse a
distruggerla e quindi come forza politica indistruttibile dall’avversario;
2. è stata preceduta dal lavoro più specifico
fatto tra il febbraio e l’ottobre 1917;
3. è stata seguita da una guerra civile e contro
l’aggressione imperialista conclusa nel 1921 e conclusa solo in un certo senso
perché lo sforzo della borghesia imperialista per soffocare l’Unione Sovietica
è proseguito nelle lunghe e molteplici manovre antisovietiche degli anni ‘20 e
‘30 e nell’aggressione nazista del 1941-1945.
La rivoluzione russa del 1905 quella sì aveva
avuto più la forma di un’esplosione popolare non preceduta dall’accumulo delle
forze attorno al partito comunista; ma non a caso non aveva portato alla
vittoria.(19)
19. Lenin, Rapporto sulla rivoluzione del 1905,
22.1.1917, in Opere complete, vol. 23.
http://www.nuovopci.it/classic/lenin/raprivol.htm
Una conferma esemplare della giustezza e della
profondità della teoria di Engels è data dalla storia del “biennio rosso”
(1919-1920) in Italia. La mancata accumulazione delle forze rivoluzionarie nel
periodo precedente, la “insufficienza rivoluzionaria” del PSI come venne
chiamata, impedirono di trasformare in rivoluzione socialista la mobilitazione
delle masse che pure erano in larga misura orientate dal PSI (aderente alla
Internazionale Comunista) e dalla Rivoluzione d’Ottobre e nelle quali molti
erano gli uomini che nel corso della Prima guerra mondiale, appena finita,
erano stati addestrati all’uso delle armi e alla guerra.
Alcuni sostengono che la colpa del mancato
successo va attribuita ai capi riformisti (Turati, Treves, Modigliani,
D’Aragona, ecc.) presenti nel PSI e alla testa della CGL. Altri sostengono che
in generale mancarono i capi rivoluzionari. Altri ancora sostengono che la
mobilitazione delle masse non era sufficientemente ampia e rivoluzionaria ...
da poter fare a meno di capi.
Il problema è un altro.
Il movimento socialista e sindacale italiano si
era sviluppato solo nei campi parlamentare, sindacale, cooperativo ed
educativo. Gran parte dei partiti della Seconda Internazionale avevano di fatto
ridotto il loro lavoro socialista a questi soli campi. I revisionisti e i
riformisti avevano addirittura rivendicato e giustificato teoricamente questa
limitazione. Il movimento italiano non si era distinto dal grosso della Seconda
Internazionale. Negli altri campi aveva fatto solo magniloquenti dichiarazioni
e appelli e alimentato generose aspirazioni, ma nulla di più.
Nota 39
[La pratica è una cosa, la teoria è un’altra,
sicché ci si divide tra economicisti e dogmatici, oppure ciascuno di noi è
economicista nella pratica e dogmatico nella teoria. La separazione tra teoria
e pratica è fenomeno che si sviluppa a partire dall’inizio della divisione
della società in classi. Nel mondo primitivo questa distinzione non esisteva:
secondo la concezione di quel mondo, cioè il pensiero magico, il bufalo
disegnato sulla parete della caverna era lo stesso che sarebbe stato ucciso dai
cacciatori il giorno dopo. Una forma della separazione tra teoria e pratica nel
campo della sinistra borghese è il “vorrei ma non posso” . Nel movimento
comunista è dare la colpa dei propri insuccessi a fattori esterni (condizioni
oggettive sfavorevoli, una situazione “non rivoluzionaria”, traditori del
movimento, come i “riformisti” o gli “stalinisti”, come se, appunto, la
rivoluzione fosse un’idea che io, trotzkista, conservo nella sua purezza,
mentre tu la rinneghi, per cui meglio non farne nulla, non passare alla
pratica, che si rischia di corrompere l’idea): “Causa della sconfitta non è la
propria debolezza ma la forza del nemico, non il fattore interno di chi
dovrebbe svilupparsi, ma il fattore esterno di chi si oppone al suo
sviluppo.”(1)]
NOTE
1. La Voce, n.43, p. 16
Era un movimento capace di moltiplicare e
migliorare i voti nelle elezioni, il numero dei rappresentanti eletti, i
periodici, le cooperative, le organizzazioni sindacali, le associazioni
culturali, ecc. ma incapace di avere anche un solo distaccamento di uomini
armati o alcuni degli altri strumenti di potere di cui la classe dominante si
avvale per il suo dominio e di cui tutela per legge il monopolio. Tutto
il movimento socialista e sindacale italiano era ricco di esperienze nelle
lotte rivendicative e nelle iniziative consentite dalla legge dello Stato
borghese, ma incapace di accumulare qualsiasi esperienza nei campi di cui la
classe dominante si riservava il monopolio. Esso fuoriusciva dai limiti delle
leggi dello Stato borghese solo per iniziative episodiche, estemporanee,
istintive e circoscritte, nei tumulti e negli scontri di piazza prodotti
dall’indignazione delle masse o dalle provocazioni delle forze della
repressione, episodi che coinvolgevano parti più o meno ampie del movimento socialista,
ma a cui restava estranea la sua direzione che così non veniva educata a
svolgere il suo compito specifico né sul piano strategico né sul piano tattico.
I riformisti non volevano la rivoluzione e cercavano di evitarla con
tutte le loro forze e i massimalisti (G. Menotti Serrati, ecc.) non
sapevano cosa fare per passare dalla rivendicazione alla rivoluzione e più
volte si mostrarono disposti a farsi da parte. Ma neanche i comunisti
(Gramsci, Bordiga, Terracini, Tasca, ecc.) sapevano cosa fare. Questi
alimentavano e spingevano avanti il movimento delle masse e chiedevano che “il
partito”, che essi non dirigevano né cercavano di dirigere, desse il via a una
rivoluzione di cui nessuno aveva mai pensato e tanto meno sperimentato i
passaggi attraverso i quali doveva svolgersi e di cui nessuno aveva approntato
gli strumenti. (20) Quando nella
riunione del 9-10 settembre 1920 a Milano della Direzione del PSI e del
Consiglio Generale della CGL venne chiesto a Tasca e a Togliatti (che vi
partecipavano come rappresentanti degli operai torinesi che occupavano le
fabbriche) se i torinesi erano in grado di incominciare con una sortita
offensiva dalle fabbriche, essi dovettero convenire che no, non erano in grado.
In modo analogo erano andate le cose anche durante lo sciopero generale e la
serrata nell’aprile 1920 quando al Consiglio Nazionale del PSI riunito a Milano
il 20-21 aprile come portavoce degli operai torinesi avevano partecipato Tasca
e Terracini. Più volte negli anni successivi A. Gramsci dovette riconoscere che
essi non erano in alcun modo preparati a una offensiva che avesse probabilità
di successo, non sapevano da dove incominciare un’azione per la conquista del
potere e chiedevano ... che lo facesse “il partito”.
20. Da notare che gli stessi erano invece sicuramente
sperimentati e capaci di predisporre un piano per uno sciopero generale, per la
fondazione di una cooperativa, per organizzare una casa editrice, per condurre
una campagna elettorale, ecc. Insomma per tutti quei campi in cui si era svolta
fino allora l’attività del movimento socialista e sindacale italiano e quella
di gran parte dei partiti della Seconda Internazionale.
Tutto il movimento socialista italiano si connotava da una parte
per l’estremismo e il massimalismo sul piano tattico, nelle iniziative singole
spesso frutto dell’improvvisazione e dell’indignazione di individui e gruppi a
cui il partito non dedicava né addestramento pratico né orientamento politico e
ideologico e tanto meno direzione e dall’altra parte per il riformismo
nella strategia per cui gli obiettivi generali del movimento si configuravano
sempre come richieste che la direzione rivolgeva al governo o allo Stato
borghesi che per loro natura né volevano né potevano soddisfarle.
Non vi erano nel PSI alcuna iniziativa di partito
né alcuna direzione relativa all’armamento e all’addestramento all’uso delle
armi e ad operazioni militari: tutto quanto fu fatto sul piano dell’armamento
era frutto di iniziative individuali e l’addestramento o era frutto di
iniziative individuali o derivava dal servizio militare che i lavoratori
prestavano nelle forze armate della borghesia: ciò tra l’altro comportava che
il partito non svolgeva alcuna elaborazione di concezioni militari tattiche e
strategiche appropriate al carattere della classe operaia e delle altre classi
popolari, distinte da quelle della borghesia e derivate dall’elaborazione della
esperienza militare che le masse facevano nel corso dei tumulti, delle rivolte,
degli scontri di strada.
Giova infine ricordare che entrambe le maggiori
prove di forza del biennio (lo sciopero di aprile e l’occupazione di settembre
1920) iniziarono per iniziativa dei padroni e che la risposta alla loro
iniziativa venne decisa dagli organismi dirigenti della FIOM, a conferma della
impreparazione del PSI a ogni azione rivoluzionaria.(21)
21. Vedere in proposito: le due lettere (10 gennaio e 2
aprile 1924) di A. Gramsci a Z. Zini pubblicate in Rinascita n. 17, 25
aprile 1964; il capitolo 6 della Storia del Partito comunista italiano di
P. Spriano vol. 1; i capitoli 14 e 15 di R. Del Carria, Proletari senza
rivoluzione.
[Gramsci scrive:
“Il nostro partito è nato nel gennaio 1921, cioè
nel momento più critico sia della crisi generale della borghesia italiana, sia
della crisi del movimento operaio. Ma la scissione, se era storicamente
necessaria ed inevitabile, trovava però le grandi masse impreparate e
riluttanti. In tale situazione l'organizzazione materiale del nuovo partito
trovava le condizioni più difficili. Avvenne perciò che il lavoro puramente
organizzativo, data la difficoltà delle condizioni in cui doveva svolgersi,
assorbì le energie creatrici del partito in modo quasi completo.
I problemi politici che si ponevano, per la
decomposizione da una parte del personale dei vecchi gruppi dirigenti borghesi,
dall'altra per un processo analogo del movimento operaio, non poterono essere
approfonditi sufficientemente. Tutta la linea politica del partito negli anni
immediatamente successivi alla scissione fu in primo luogo condizionata da
questa necessità: di mantenere strette le file del partito, aggredito
fisicamente dalla offensiva fascista da una parte, e dai miasmi cadaverici
della decomposizione socialista dall'altra.
Era naturale che in tali condizioni si
sviluppassero nell'interno del nostro partito sentimenti e stati d'animo di
carattere corporativo e settario. Il problema generale politico, inerente
all'assistenza e allo sviluppo del partito non era visto nel senso di una
attività per la quale il partito dovesse tendere a conquistare le più larghe
masse e ad organizzare le forze sociali necessarie per sconfiggere la borghesia
e conquistare il potere, ma era visto come il problema della esistenza stessa
del partito.” (A. Gramsci, La costruzione
del partito comunista, Einaudi, 1978, p. 89 in http://www.marxists.org/italiano/gramsci/26/02-partito.htm)
I problemi politici e ideologici verranno
affrontati di seguito: la lotta tra due linee si imporrà per necessità. Il
primo partito comunista quindi si costituisce non “per” fare la rivoluzione, ma
“contro” la deriva del PSI, e su spinta della Rivoluzione d’Ottobre, quindi su spinta
esterna. Per fare la rivoluzione avrebbe avuto necessità di una concezione
adeguata, e quindi i nuovi comunisti avrebbero dovuto studiare, come aveva
raccomandato di fare Lenin dicendo che non dovevano copiare l’esperienza russa.
Attorno a quella concezione le masse si sarebbero aggregate, sulla base di
quella concezione si sarebbero elevate.
Questa nota intende sottolineare il rischio di
“cercare soluzioni organizzative quando i problemi di fondo sono ideologici”,
presente in questo appello per unire le forze comuniste. Non ci si unisce solo
perché “ci dobbiamo unire”, e per farlo non basta una buona volontà e “mettere
da parte del divergenze”. Le divergenze invece vanno poste apertamente, il che
non impedisce unità d’azione. Non si costruisce, tuttavia, un partito mettendo
da parte le divergenze, che non sono astrazioni, ma questioni concrete per cui
avanzare su una linea anziché su un’altra comporta tutti i rischi che un
rivoluzionario e chi lo segue corre, rischi concreti, che riguardano la nostra incolumità
e la nostra libertà. Basti considerare, al riguardo, le divergenze sulla
questione della clandestinità.]
La mancanza di una accumulazione delle forze
rivoluzionarie, di un processo nel corso del quale la classe operaia avesse
preparato fino ad un certo punto già all’interno della società borghese gli
strumenti e le condizioni del suo potere, risalta evidente come causa della
sconfitta anche nelle rivoluzioni tedesca, austriaca, finlandese, ungherese del
1918-1919: rivoluzioni popolari che portano alla dissoluzione del vecchio
Stato, ma non portano all’instaurazione di un nuovo Stato fino a quando non lo
fa la borghesia. Lo stesso confermano le vicende delle altre acute crisi
politiche (Polonia, Bulgaria, Romania, Cecoslovacchia, Jugoslavia, Turchia,
USA, Inghilterra, Francia, ecc.) che segnano la fine della Prima guerra
mondiale e gli anni immediatamente successivi.
Anche la successiva storia europea di questo
secolo conferma l’indicazione di Engels. Fondamentalmente è la storia della
guerra tra classe operaia e borghesia imperialista. Tutte le crisi politiche
borghesi e i contrasti tra gruppi e Stati imperialisti sono condizionati da
questa guerra sottostante. Ma i partiti comunisti non affrontano la situazione
in questi termini.
Negli anni ‘30 e ‘40 “meglio Hitler che i
comunisti” fu la parola d’ordine dei gruppi imperialisti francesi di fronte al
sorgere del nazismo in Germania e alla sua espansione in Spagna, in
Cecoslovacchia, ecc. “Meglio Hitler che il bolscevismo”, “meglio i giapponesi
che i comunisti” fu la regola dei gruppi imperialisti inglesi e americani. Lo
schieramento degli “Stati democratici” (USA, Inghilterra, Francia) contro il
governo repubblicano durante la guerra civile spagnola (1936-1939) fu
determinato dallo stesso motivo.
La borghesia imperialista infine, nonostante la
guerra in corso tra gruppi imperialisti, condusse la Seconda guerra mondiale in
funzione anticomunista, con l’obiettivo di stroncare il movimento comunista in
Europa e il movimento antimperialista di liberazione nazionale nelle colonie e
nelle semicolonie e di soffocare l’Unione Sovietica. Strategicamente la
contraddizione tra la borghesia imperialista e la classe operaia era
antagonista, la contraddizione tra gruppi imperialisti era secondaria benché
anch’essa antagonista. Sul piano tattico il rapporto tra le due contraddizioni
fu variabile durante l’intera Seconda guerra mondiale.
Se cerchiamo oggi una risposta alla domanda:
“Perché durante la prima crisi generale del capitalismo i partiti comunisti dei
paesi imperialisti non sono riusciti a guidare le masse popolari fino alla
conquista del potere e all’instaurazione del socialismo?”, la risposta che ci
viene dal bilancio dell’esperienza è: “Perché non compresero che la forma della
rivoluzione socialista era la guerra popolare rivoluzionaria di lunga durata”.
A causa di questa incomprensione essi o dispersero le loro forze in
insurrezioni sconfitte (Amburgo - ottobre 1923, Tallin - dicembre 1924, Canton
- dicembre 1926, Shangai - ottobre 1926, febbraio 1927, marzo 1927) o subirono
l’iniziativa della borghesia e le sue provocazioni (Germania 1919, Ungheria
1919, Italia 1920, Austria 1934, Asturie 1934) o ebbero una linea incerta e
contraddittoria (Germania 1933, Spagna 1936-1939, Francia 1936-1939).
I limiti dei partiti comunisti nei paesi
imperialisti durante la prima crisi generale (1900-1945) in sintesi si riducono
alla incomprensione della forma della rivoluzione socialista, a non aver
compreso (e tradotto in azione politica la comprensione) che la guerra civile tra classe operaia e borghesia
imperialista era la forma principale assunta dalla lotta di classe in quegli
anni. I partiti comunisti dei paesi imperialisti non si posero mai su questo
terreno come loro terreno strategico principale, dal quale e in funzione del
quale sviluppare tutto il loro lavoro, anche quello pacifico e legale.
Affrontarono con forza e con eroismo la clandestinità e la guerra quando
l’avversario le impose (in Italia e in Jugoslavia nel 1926, in Portogallo nel
1933, in Germania nel 1933, ecc.), ma come un evento straordinario, una pausa
in un processo che “doveva” svolgersi altrimenti. Allora anche i comunisti
ritenevano che la rivoluzione proletaria assumeva la forma principale della
guerra nelle colonie e nelle semicolonie, non nei “civili” paesi imperialisti,
benché la borghesia nei “civili” paesi imperialisti avesse a più riprese
mostrato che era capace di radere al suolo città e paesi, di passare per le
armi decine di migliaia di uomini disarmati (a Parigi nel 1871 le forze
reazionarie dopo la resa avevano passato per le armi circa 30.000
comunardi o supposti tali), di ricorrere a ogni mezzo pur di conservare il
proprio potere, di preferire l’occupazione straniera (“meglio Hitler che il
comunismo”) al potere della classe operaia. La storia della Francia nel
1935-1940 è esemplare. Eppure J. Duclos, uno dei maggiori esponenti del PCF di
quegli anni assieme a M. Thorez, riassume così i compiti del partito comunista
nel 1935 in Francia “porre come obiettivo del movimento operaio la lotta per la
difesa e l’ampliamento delle libertà democratiche di fronte al fascismo”. (22) La linea del Fronte unico proletario e del
Fronte popolare antifascista (approvata dal VII Congresso dell’Internazionale
Comunista, agosto 1935) nei paesi imperialisti fu applicata come linea di
alleanza con forze politiche e sindacali e con classi senza l’autonomia
del partito e senza la direzione del partito comunista nel Fronte.
Quindi portò il partito comunista a essere continuamente ricattato dai partiti
socialdemocratici e borghesi; a dipendere, in una certa misura e in certi
periodi, nella sua azione verso le masse popolari dalla collaborazione dei
dirigenti e dei partiti socialdemocratici e riformisti; a subordinare al loro
consenso la sua iniziativa; a porsi compiti la cui attuazione dipendeva dal
loro concorso; a non assumere in prima persona la direzione e a non concepire
il movimento come guerra.
22. Dalla Prefazione di J. Duclos del 1972 a G. Dimitrov, Oeuvres
Choisies, Editions Sociales, pag. XXI/XXII.
Sulla forma della rivoluzione
socialista il Centro dell’Internazionale Comunista ebbe una posizione non
definita. Per un certo periodo esso attese che in alcuni paesi dell’Europa
occidentale (in particolare Italia e Germania) la classe operaia riuscisse a
prendere il potere con partiti comunisti improvvisati o con partiti, come il
PSI, che avevano aderito all’Internazionale Comunista solo formalmente, come ci
si iscrive a un club.
In un secondo tempo cercò di
promuovere movimenti insurrezionali regolarmente falliti: espressione di questa
tendenza è la pubblicazione A. Neuberg, L’insurrezione armata.(http://scintillarossa.forumcommunity.net/?t=53107085)
In un terzo tempo (1935 - VII
Congresso) lanciò la linea dei Fronti popolari antifascisti di cui i singoli
partiti diedero interpretazioni molto diverse.
La concezione della
rivoluzione socialista come insurrezione (come conquista del potere in
un’azione di breve durata - cosa diversa è l’insurrezione come operazione
tattica nell’ambito di una guerra, come le insurrezioni della primavera del
1945 in Italia), ingabbia il partito comunista in una condizione in cui la
conquista del potere da parte della classe operaia diventa impossibile, salvo
casi eccezionali. Infatti nel periodo precedente l’insurrezione il partito e le forze rivoluzionarie compiono grandi
esperienze ma in campi che con la conquista del potere hanno direttamente poco
a che fare. Esse escono dalle attività legali, che appunto hanno poco da
vedere direttamente con la conquista del potere e con l’instaurazione di uno
Stato, solo in casi circoscritti e occasionali, sulla spinta dell’emozione, nei
tumulti o negli scontri di piazza, con azioni autonome di individui o di
piccoli gruppi, sulla spinta di provocazioni delle forze della repressione,
come frutto dell’indignazione. Non si tratta mai di operazioni coordinate e
combinate di una guerra di cui il partito tira le fila e che dirige, di
operazioni tattiche di un piano di guerra predisposto dal partito, in cui le
nostre forze hanno l’iniziativa e di cui raccolgono con cura i risultati e gli
insegnamenti.
Questo partito e le forze
rivoluzionarie raccolte attorno ad esso, che non hanno alcuna esperienza di
guerra e che non sono state formate da alcuna esperienza pratica alle arti
dell’attacco, della guerra, dell’organizzazione e della direzione degli uomini
in azioni militari, dovrebbero improvvisarsi come forze capaci di un’azione
rapida ed energica il cui esito si decide in pochi giorni, se non in poche ore
come un’insurrezione!
Nota 41
[Gramsci tratta della questione negli stessi
termini nel paragrafo 24 del Quaderno 13, criticando Rosa Luxemburg (vedi più
oltre la Nota 63)]
Il crollo dello Stato francese del maggio-giugno
1940, la liquefazione di vari Stati nazionali davanti all’avanzata di Hitler
dopo il 1938 (Cecoslovacchia, Austria, Polonia, Belgio, Olanda, Danimarca,
Norvegia, Jugoslavia, Grecia, ecc.), il crollo del fascismo nel luglio 1943 in
Italia, ecc. non solo non portarono all’instaurazione della dittatura del
proletariato, ma il partito comunista non fu
neanche in grado di dare una direzione alle forze popolari che il crollo del
vecchio Stato liberava: perché non si era posto in condizioni tali da
poter prendere la testa del movimento politico nella nuova situazione; non si
era preparato e non aveva accumulato esperienza e strutture per dirigere la
guerra; non aveva concepito la forma della rivoluzione proletaria secondo la
sua reale natura; non si era abbastanza liberato, nella realtà e non solo nelle
dichiarazioni, dalla concezione valida al tempo della Seconda Internazionale
(di partito più a sinistra tra i partiti della società borghese, di partito che
lotta per far valere gli interessi della classe operaia nella società borghese,
di portavoce nella società borghese della sua parte più avanzata). Sarà solo
successivamente, nel corso della Seconda guerra mondiale che un po’ alla volta
i partiti comunisti assumeranno in una certa misura la direzione delle masse
popolari nella guerra contro il nazifascismo, nella Resistenza.
Persino nel settembre 1943 in Italia manca ancora
una linea di partito per spostare l’attività sul piano della guerra. Dalle
caserme che restano per alcuni giorni abbandonate o scarsamente presidiate, i
singoli comunisti recuperano armi ma per iniziativa individuale; ai soldati, che
a causa della vergognosa diserzione del re e di gran parte degli ufficiali
superiori, si sbandano, il partito per alcune settimane non dà direttive né
fornisce organizzazione e direzione. Solo nel corso del mese il partito
incomincia a svolgere il suo compito di promotore, organizzatore e dirigente
della guerra antifascista con i grandi risultati che conosciamo. Per la prima
volta nella loro storia le masse popolari italiane vedono all’opera un partito
comunista che dirige sul piano strategico e sul piano tattico una vasta azione
politica (che comprende anche il suo aspetto militare): per questo giustamente
abbiamo detto che la Resistenza è stata a tutt’oggi “il punto più alto
raggiunto finora nel nostro paese dalla classe operaia italiana nella sua
lotta per il potere”. (http://www.carc.it/index.php?view=article&id=869)
Nota 42
[Perché ancora oggi persone che hanno vissuto in
quell’epoca dichiarano che quello della Resistenza è stato il periodo più bello
della loro vita, pure se sappiamo per avere visto film e letto libri quanto
terribili fossero allora le condizioni materiali delle masse popolari? Perché
quello fu l’unico periodo in cui il Partito comunista assunse ruolo dirigente e
relativamente autonomo dalla borghesia, e quindi a chi viveva in quell’epoca
fare dell’Italia un paese socialista apparve cosa possibile e prossima. Dopo il
PCI si pose come ala sinistra della borghesia. Da ciò si tragga:
·
quanto alla
sfera intellettuale, consapevolezza di quanto è importante il lavoro che la
carovana del (n)PCI ha svolto e svolge per garantirsi e garantire autonomia
ideologica rispetto alle concezioni della classe dominante. Questo lavoro non è
mai stato svolto in Italia se non da Gramsci.
·
Quanto alla
sfera morale, comprensione che l’autonomia ideologica che guadagniamo è fonte
di fiducia, serenità e dei migliori sentimenti che le masse popolari italiane
sperimentarono negli anni della Resistenza, quando avevano un partito che si
mosse nel senso giusto.
Anche gli abitanti della Val
di Susa dichiarano che la loro vita è migliorata qualitativamente da quando è
iniziata la mobilitazione contro l'alta velocità. Questo evidenzia che quando
le masse popolari mettono al centro della loro vita il protagonismo finalizzato
al cambiamento della collettività (la lotta di classe), elevano anche tutti gli
altri rapporti, personali e sociali.]
Facendo il bilancio dell’esperienza della guerra
civile spagnola (1936-1939), il Partito Comunista di Spagna (ricostruito) è
arrivato alla conclusione di “indicare la via della guerra popolare
rivoluzionaria di lunga durata come la via verso la quale conduceva
l’esperienza del PCE, ma che il PCE non scoprì”. E in questo limite, che il PCE
non riuscì a superare, il PCE(r) vede la causa principale della sconfitta delle
masse popolari spagnole.(23)
Perché il crollo di uno Stato porti
all’instaurazione della dittatura del proletariato, occorre che essa sia
preceduta da un periodo di “accumulazione delle forze rivoluzionarie attorno al
partito comunista” e che il crollo dello Stato borghese avvenga nel corso di un
movimento diretto dal partito (l’avanzata dell’Armata Rossa in Europa Orientale
nel 1944-45; la Cina del 1949; Cuba nel 1959; i tre paesi dell’Indocina nel
1975).
Mao Tse-tung ha sviluppato in modo approfondito
gli aspetti universalmente validi dell’accumulazione delle forze rivoluzionarie
attorno al partito comunista nel partito stesso, nel fronte delle classi
rivoluzionarie e nelle forze armate rivoluzionarie e ha chiamato guerra
popolare rivoluzionaria di lunga durata questo processo in cui le forze che il
corso della vita sociale gradualmente suscita, vengono via via raccolte
dal partito comunista che le educa impiegandole nella lotta (secondo il
principio di “imparare a combattere combattendo”), le organizza, le unisce in
modo che crescano fino a prevalere sulle forze della borghesia imperialista.(24)
23. PCE(r), La guerra di Spagna, il PCE e
l’Internazionale comunista, 1993-1995, Edizioni Rapporti Sociali.
http://www.carc.it/index.php?view=article&id=1126
24. Mao Tse-tung, Sulla guerra di lunga durata,
1938, in Opere di Mao Tse-tung, Edizioni Rapporti Sociali, vol. 6.
http://www.nuovopci.it/arcspip/articleab67.html
Mao ha studiato e indicato anche le grandi fasi
attraverso cui si sviluppa la guerra popolare rivoluzionaria di lunga durata.
La fase della difensiva strategica: le forze della
borghesia sono preponderanti, le forze rivoluzionarie deboli; il compito del
partito è quello di raccogliere, addestrare e organizzare forze impiegandole
nella lotta evitando però di essere costretto a uno scontro frontale e decisivo
e mirare a preservare e accumulare le sue forze; la borghesia cerca lo scontro
risolutivo, il partito lo evita tenendo in pugno l’iniziativa sul piano
tattico.
La fase dell’equilibrio strategico: le forze
rivoluzionarie hanno raggiunto le forze della borghesia imperialista.
La fase dell’offensiva strategica: le forze
rivoluzionarie hanno raggiunto la superiorità rispetto alle forze della
borghesia; il compito del partito è quello di lanciare le forze rivoluzionarie
all’attacco per eliminare definitivamente le forze della borghesia, distruggere
il potere della borghesia e instaurare il nuovo potere in tutto il paese.
Ovviamente sta a noi comunisti italiani trovare,
con la riflessione e con la verifica nella pratica, i passaggi e le leggi
concrete della rivoluzione nel nostro paese. Ma noi troviamo illustrate nelle
opere di Mao Tse-tung le leggi universali della guerra popolare rivoluzionaria
di lunga durata, elaborate sulla base dell’esperienza della prima ondata della
rivoluzione proletaria e confermate dai vari episodi che la compongono.
Il maoismo non è il
marxismo-leninismo applicato alla Cina o alle semicolonie o alle colonie e
semicolonie. È la terza superiore
tappa del pensiero comunista, dopo il marxismo (Marx-Engels) e il leninismo
(Lenin-Stalin). Giustamente Stalin in Principi del leninismo (1924)
(http://www.bibliotecamarxista.org/stalin/prindellen.htm) aveva mostrato che il
leninismo non era l’applicazione del marxismo alla Russia o ai paesi arretrati,
ma era il marxismo dell’epoca in cui la rivoluzione proletaria incominciava.
Non era più possibile essere marxisti senza essere leninisti. Analogamente oggi
non si può più essere marxisti-leninisti senza essere maoisti: vorrebbe dire
non tenere conto dell’esperienza della prima ondata della rivoluzione
proletaria, di cui ovviamente Lenin non ha potuto fare il bilancio. Ma tutti i
tentativi di affermare il maoismo come terza superiore tappa del pensiero
comunista si impantanano in discorsi e riflessioni fumosi se non poggiano sulla
tesi che “la guerra popolare rivoluzionaria di lunga durata è la forma
universale della rivoluzione proletaria”. Questa tesi emerge chiaramente dagli
articoli Per il marxismo-leninismo-maoismo. Per il maoismo e Sulla
situazione rivoluzionaria in sviluppo pubblicati in Rapporti Sociali
n. 9/10 (1991) a cui rimandiamo per alcuni sviluppi particolari
(http://www.nuovopci.it/scritti/RS).
Mao Tse-tung non ha criticato negli anni ‘30 e ‘40
la concezione della rivoluzione proletaria prevalente nei partiti comunisti dei
paesi imperialisti, anzi ha indicato la loro linea di “allargamento della
democrazia” (per la quale rimandiamo all’affermazione di J. Duclos sopra
riportata) come linea normale nelle loro circostanze (salvo criticare quei
comunisti cinesi che volevano adottare anche in Cina la parola d’ordine del PCF
“Tutto attraverso il Fronte” negando così l’autonomia del Partito comunista
cinese nel Fronte antigiapponese). Ciò attiene allo stesso ordine di questioni
per cui Lenin ha difeso l’organizzazione strategica clandestina del partito
russo in nome della particolarità russa fino a quando il crollo della Seconda
Internazionale nel 1914 dimostrò praticamente la necessità universale di essa. Il marxista trae dalla pratica gli insegnamenti che
essa contiene, non inventa teorie. Le idee devono dar prova di sé nella
pratica, al negativo e al positivo, prima di poter essere rigettate le une e
valorizzate le altre. I partiti comunisti dei paesi imperialisti durante la
prima crisi generale del capitalismo hanno compiuto grandi opere, hanno
mobilitato grandi masse e hanno dato un contributo importante alla vittoria
contro il nazifascismo. Bisognava che i limiti di tutto questo grande lavoro
fossero mostrati dall’incapacità di valorizzare i frutti della vittoria sul
nazifascismo e di assumere il potere, perché essi potessero essere compresi e
criticati e la teoria maoista sulla forma universale della rivoluzione
proletaria assurgesse a parte del patrimonio teorico del movimento comunista.
La realtà dello svolgimento della rivoluzione
proletaria nel periodo 1900-1945 ha mostrato, anche nei paesi imperialisti, che
i partiti comunisti hanno unito la classe operaia e hanno affermato la
direzione della classe operaia sulle altre classi popolari quando e nella
misura in cui hanno saputo organizzare le masse popolari nella guerra contro
l’esistente regime della borghesia imperialista. Finché la loro azione aveva al
centro il tentativo di convincere socialdemocratici, cattolici, ecc. a
costituire un comune fronte di opposizione legale, un comune fronte
rivendicativo, un comune fronte antifascista, la loro azione ha avuto scarsi
risultati. Essi hanno diretto lavoratori cattolici, socialisti, senza partito
ecc. e hanno costretto anche i loro dirigenti a seguirli, quando si sono messi
alla testa della guerra cui le condizioni pratiche costringevano le masse.
Ma allora forse che noi comunisti dobbiamo
proclamare una guerra che non esiste, per affermare nel corso di essa la
direzione della classe operaia? Quando noi diciamo che la crisi generale
attuale ha la sua soluzione nello scontro tra mobilitazione rivoluzionaria e
mobilitazione reazionaria delle masse, noi diciamo che lo scontro tra le classi
e lo scontro tra i gruppi imperialisti si spostano sempre più sul terreno della
guerra. Oltre alle guerre dichiarate, è in corso una guerra non dichiarata tra da una parte la borghesia
imperialista che vuole e deve valorizzare il suo capitale e che a questo fine
deve schiacciare e torturare milioni di uomini e donne e dall’altra le masse
popolari che si difendono come possono e in ordine sparso. La borghesia la
combatte a suo modo, usando gli strumenti di cui dispone (il denaro, le leggi
“oggettive” dell’economia, i “normali” rapporti sociali, l’autorità morale dei
padroni e dei preti, la pressione delle abitudini e della cultura corrente, le
armi, i corpi ufficiali dello Stato, i corpi extralegali, le istituzioni dello
Stato, ecc.) per cacciare milioni di uomini e donne nello stato di “esuberi”,
per privare delle condizioni elementari di vita - il cibo, la casa, il
vestiario, l’istruzione, le cure mediche, ecc. - milioni di uomini, per
spogliare milioni di uomini di quanto avevano conquistato, per stroncare i loro
tentativi di emanciparsi e di organizzarsi, per eliminare quei loro dirigenti
che cercano di promuovere, organizzare e dirigere la resistenza. A livello
mondiale le vittime di questa guerra diffusa e non dichiarata sono
innumerevoli, maggiori di quelle di tutte le guerre dichiarate che si svolgono
nello stesso tempo, se è vero che solo i morti per fame sono dell’ordine di 30
milioni all’anno. Anche nei ricchi paesi imperialisti le vittime di questa
guerra sono i milioni di uomini e donne emarginati come esuberi, distrutti
moralmente e fisicamente, abbrutiti, depravati, prostituiti, in mille modi
angariati e umiliati. È la famosa “lotta di classe che non esiste più” nelle
interessate dichiarazioni della borghesia imperialista e dei suoi portavoce.
Una lotta che noi comunisti dobbiamo assumere come nostra, riconoscere,
scoprirne le leggi, attrezzarci per combatterla con successo portando sul campo
di battaglia le forze che il corso della vita sociale e lo sviluppo stesso
della lotta suscitano. A nostra volta dobbiamo combatterla a nostro modo: in
conformità alla classe che la deve dirigere, alle classi che la devono
combattere e da cui provengono le nostre forze, alle condizioni complessive dei
rapporti tra le classi del nostro campo e alle influenze reciproche tra il
nostro campo e il campo nemico.
Nota 43
"Rendere la vie impossible". "Il y
a deux façons de tuer: une, que l‘on désigne franchement par le verbe tuer;
l‘autre, celle qui reste sous-entendue d‘habitude derrière cet euphémisme
délicat: "rendre la vie impossible". C‘est le mode d‘assassinat, lent
et obscur, qui consomme une foule d‘invisibles complices. C‘est un "auto-
da-fé" sans "coroza" et sans flammes, perpétré par une
Inquisition sans juge ni sentence..." Eugenio D‘Ors, La vie de Goya, éd.
Gallimard, p. 41. Altrove la chiama "Inquisizione diffusa".” (A.
Gramsci, Quaderni del carcere, cit.
p. 310) Per Gramsci, infatti, c’è una condanna a morte non dichiarata. Il “non
dichiarare” guerra ma farla, così come il non dichiarare una condanna a morte
ma eseguirla, sono oggi caratteristiche di ogni parte del mondo, ma in Italia
si presentano nella forma specifica di un paese dove il fare senza dire, o
anche il fare predicando il contrario di quello che si fa, è radicato e diffuso
per quattro secoli di dominio della Chiesa di Roma, che oggi addirittura
governa il paese in modo non dichiarato.]
Il problema quindi è di essere presenti e
protagonisti sul terreno di questa guerra, di non farsi sorprendere dagli
eventi ma prevenirli, di orientare il nostro lavoro di oggi in vista di questo
corso inevitabile, di avere l’iniziativa in mano anche se il rapporto delle
forze oggi è largamente a favore dei nostri avversari e di capire le leggi
particolari di questa guerra (che non sono quelle della guerra in generale né
quelle delle guerre passate né quelle della guerra imperialista). Questo è il
terreno di scontro reale. Su questo terreno si decidono le sorti. In funzione
di questo terreno vanno decise e condotte tutte le campagne, tutte le battaglie
e ogni operazione. Occorre stabilire una giusta gerarchia strategica tra le
nostre campagne e battaglie e poi di passaggio in passaggio definire la
gerarchia tattica. Non si tratta oggi principalmente di propagandare la guerra, di convincere con la nostra propaganda
la classe operaia e le masse popolari a prepararsi alla guerra. Non si tratta
principalmente di “elevare la coscienza” delle masse con la nostra propaganda.
Si tratta principalmente di creare un partito che lavori e sia capace di
lavorare in funzione della guerra e che da questa posizione diriga e promuova
anche la lotta delle masse a favore della pace contro la guerra imperialista
verso cui la borghesia imperialista, con tutte le sue misure concrete, ci sta
trascinando anche se la teme e se ne ritrae, resa timorosa dalle esperienze
passate. Ovviamente per riuscire in questo compito bisogna tra l’altro che noi
impariamo a vedere che effettivamente la borghesia imperialista, con le sue
misure concrete in campo economico, politico e culturale, 1. sta portando verso
la guerra imperialista (la mobilitazione reazionaria delle masse) e 2. sta
conducendo una guerra di sterminio contro le masse popolari. Chi non vede questo
chiaramente, o ripiega su illusioni opportuniste e conciliatorie (“non ci sarà
alcuna guerra”) o “proclama lui la guerra” .
A scanso di equivoci e visti i precedenti delle
Brigate Rosse che dalla propaganda armata per riunire le condizioni per la ricostruzione
del partito comunista sono passate a una “guerra dispiegata” che esisteva solo
nella fantasia dei militaristi (dove quindi si sono trovate sole, abbandonate
dalle masse, fino alla disgregazione e alla corruzione anche delle forze che
avevano già accumulato), occorre dire che la guerra, in quanto forma principale
della rivoluzione proletaria, è una guerra particolare, differente dalle guerre
che l’umanità ha conosciuto nei secoli precedenti. Essa è una guerra di tipo
nuovo perché ha un obiettivo diverso da tutte le guerre precedenti: la
conquista da parte della classe operaia della direzione delle masse popolari
nella loro mobilitazione contro la borghesia imperialista per l’instaurazione
del potere della classe operaia e del socialismo. Essa si svolge in forme sue
proprie. La comprensione delle forme particolari di questa guerra nel nostro
paese, l’elaborazione e l’applicazione di linee e metodi conformi ad esse e la
sua direzione costituiscono il compito specifico del nuovo partito comunista.
Nota 44
[La GPRdLD è rivoluzione che si costruisce.
Rivoluzione è processo per l’abolizione della divisione di classe, e tale è
quindi la GPRdLD, nel senso che la “conquista della mente e del cuore” delle
masse popolari è promuovere la loro partecipazione, il diventare dirigenti
della propria vita e della società, e in
primis promuovere tra le masse popolari la fiducia che possono diventare
dirigenti della propria vita e della società (e che anzi devono, perché è
immorale occuparsi solo di sé stessi e di chi ci sta accanto). La necessità che
le masse popolari siano partecipi è ciò che distingue la GPRdLD da ogni altra
guerra.]
Sulla natura del nuovo partito comunista.
La classe operaia ha bisogno di un partito
comunista che,
1. abbia una linea giusta, cioè una linea che
raccolga e sintetizzi la tendenza positiva delle masse popolari nella fase
attuale (la seconda crisi generale del capitalismo),
2. abbia una forma organizzativa adeguata alla
attuazione della sua linea.
È sbagliato discutere della forma organizzativa
prima e senza avere risolto il problema della linea. L’organizzazione nasce per
attuare la linea.
L’organizzazione
deve essere adeguata alla linea. È la linea che determina l’organizzazione,
benché ovviamente l’organizzazione sia la condizione necessaria per attuare la
linea. È la linea che decide di quale organizzazione abbiamo bisogno oggi, non
viceversa.
Nota 45
[Che la linea sia principale e che
l’organizzazione segua ad esse è questione su cui il collettivo Aurora non
concorda. Ecco una prima questione da affrontare, nel dibattito che il
collettivo propone di avviare.]
La classe operaia ha bisogno di un partito
comunista. Questa è la prima lezione che ci deve essere chiara e che deriva sia
dall’esperienza storica sia dall’analisi della società capitalista. La classe
operaia ha bisogno di un partito comunista perché il ruolo del partito
comunista non può essere assolto dalla classe nel suo complesso. Solo
l’avanguardia della classe operaia si organizza nel partito. La crisi della
forma-partito di cui tanto parlano i sociologi e i politologi borghesi e i loro
seguaci della sinistra borghese (Negri e negrini in testa), è la crisi dei
partiti riformisti e borghesi del vecchio regime. La crisi di quei partiti non
è la causa dei mali, l’evento da piangere, il guasto a cui porre rimedio: è un
aspetto della crisi del vecchio regime. Il riformismo è in crisi perché la
crisi generale impedisce che le masse possano strappare nuove riforme se non in
un movimento rivoluzionario per il quale i partiti riformisti sono inadatti: da
qui la crisi dei partiti riformisti che hanno perso il terreno oggettivo (le
riforme reali che nel periodo del capitalismo dal volto umano venivano
effettivamente strappate) su cui erano costruite le loro fortune. I partiti del
regime DC sono in crisi perché tutto il regime è in crisi. Esso era il regime
della conciliazione degli interessi (25)
ed è in crisi come in tutti i paesi imperialisti sono in crisi i regimi che
avevano ben impersonato il dominio della borghesia nel periodo della ripresa e
dello sviluppo, i regimi impostisi alla fine della Seconda guerra mondiale.
Oggi sono all’ordine del giorno le forze borghesi che si candidano a promotrici
della mobilitazione reazionaria delle masse, benché alle loro fortune si
oppongano ancora sia l’arretratezza delle forze rivoluzionarie sia la paura che
tutta la borghesia ha della mobilitazione reazionaria, avendo ripetutamente
sperimentato che essa può trasformarsi in mobilitazione rivoluzionaria.
La linea generale del futuro partito comunista
deriva dall’analisi della situazione che sopra abbiamo richiamato trattando
della forma della rivoluzione proletaria e che nella rivista Rapporti
Sociali è stata da più lati illustrata e che i CARC hanno ampiamente
propagandato.(26) Essa può essere
formulata nel modo seguente: “Unirsi strettamente e senza riserve alla
resistenza che le masse popolari oppongono e opporranno al progredire della
crisi, comprendere e applicare le leggi secondo cui questa resistenza si
sviluppa, appoggiarla, promuoverla, organizzarla e far prevalere in essa la
direzione della classe operaia fino a trasformarla in lotta per il socialismo,
adottando come metodo principale di lavoro e di direzione la linea di massa”.(27)
25. Sulla natura del regime DC rimandiamo a Il fiasco
del 27 marzo ‘94, in Rapporti Sociali n. 16,
inverno 1994-1995. (http://www.nuovopci.it/scritti/RS)
26. La linea
generale del partito, in F. Engels/10, 100, 1000 CARC per la ricostruzione del
partito comunista, 1995, Edizioni Rapporti Sociali.
http://www.carc.it/index.php?view=article&id=865
27. Da Lo Statuto dei CARC, 1997, Edizioni Rapporti
Sociali, pag. 9. (http://www.carc.it)
28. Le formule esprimono il concetto, ma il concetto non è
interamente in nessuna formula. Se rendiamo la formula autonoma dal concetto,
facciamo quello che fanno i giuristi borghesi rispetto alle formule delle
Costituzioni, dei Codici, ecc., con il risultato che ogni giurista e ogni
organismo fa dire cose diverse a una stessa formula. Se si scorrono le
pubblicazioni dei CARC, si trovano via via formulazioni un po’ diverse della
linea generale del partito comunista, usate per esprimere lo stesso concetto.
Con esse via via si cerca di esprimere meglio il concetto, di tenere meglio
conto nella formula di un aspetto del concetto che è diventato nella pratica
importante, si pone cura ad elaborare ogni volta una formula comprensiva di più
aspetti, più esatta, più esauriente.
Questa linea è stata formulata anni fa, la prima
formulazione risale al 1992(28) e non ha
finora incontrato serie obiezioni da parte di nessuna delle FSRS del nostro
paese. Possiamo ritenere che sia universalmente accettata, o si tratta di uno
di questi casi in cui si continua da una parte a dire che “bisogna fare un
serio dibattito teorico e politico” e dall’altra ci si guarda bene sia dal
produrre qualcosa sia dall’entrare in merito a quanto da altri prodotto? È
comunque certo che nessuna FSRS ha avanzato altre proposte di linea generale
per il futuro partito comunista.
Abbiamo anche ripetutamente detto che nessuna
FSRS, e in particolare nemmeno i CARC che questa linea hanno formulato e
propagandano, erano in grado di attuare questa linea stante la qualità, la
natura delle forze in questione (quindi a prescindere da fattori quantitativi
che possono per un tempo più o meno lungo valere anche per il nuovo partito
comunista). In cosa consiste la qualità che, mancando alle FSRS, impedisce loro
di applicare la linea generale del futuro partito comunista se non in limiti
ristretti e monchi? Non è la composizione di classe, perché il partito
comunista lotterà per organizzare nelle sue file la parte d’avanguardia della
classe operaia, ma la composizione di classe del partito alla sua fondazione
avrà sicuramente dei limiti che solo con la lotta verranno superati.(29)
29. Tra le FSRS italiane vi sono alcuni che sostengono che
il nuovo partito comunista deve fin dall’inizio avere tra i suoi membri folti e
rappresentativi gruppi di operai dei maggiori centri produttivi del paese.
Se questi compagni pensano
che il nuovo partito comunista debba nascere dal confluire e dal mandato di
varie organizzazioni operaie attuali (come “sponda politica” di COBAS,
SLAI-COBAS, ecc.), come all’inizio del secolo il partito laburista inglese
nacque per mandato e come “braccio politico” delle Trade Unions e come
nell’ultimo quarto del secolo scorso alcuni partiti socialisti, compreso il
PSI, nacquero dalle società operaie di mutuo soccorso e da altri organismi di
difesa della classe operaia, essi “vogliono riportare indietro l’orologio della
storia”.
Se invece vogliono che si
formino folti e rappresentativi gruppi di operai comunisti prima che si
costituisca il partito comunista, la loro è una pretesa arbitraria, simile a
quella dei compagni che vogliono un partito che nasca già riconosciuto dalle
masse come loro direzione. Questa pretesa contrasta sia con l’esperienza del
movimento comunista internazionale sia con il concreto sviluppo del movimento
comunista nel nostro paese. È una pretesa arbitraria che porta a rinviare a
tempo indeterminato la costituzione del partito comunista che è oggi necessaria
e possibile.
Noi condividiamo invece
pienamente la tesi che la formazione di folti e rappresentativi gruppi di
operai comunisti trasformerà il nuovo partito comunista e lo porterà a un
livello al cui raggiungimento i nostri attuali modesti inizi avranno
contribuito.
Noi riteniamo che la qualità che distingue il
partito comunista dalle FSRS è un insieme di caratteristiche la principale
delle quali consiste in questo: il partito comunista è un partito clandestino,
ma non è una società segreta. Vedremo di spiegare nel seguito il senso e le
ragioni di questa nostra tesi.
Il nuovo partito comunista ha il compito
strategico di essere il centro dell’accumulazione delle forze rivoluzionarie:
partito, fronte, esercito. Il suo compito è la raccolta e l’impiego delle forze
proletarie nella corsa alla mobilitazione rivoluzionaria perché sopravanzi la
mobilitazione reazionaria (o nella trasformazione della mobilitazione
reazionaria in mobilitazione rivoluzionaria), nella guerra popolare
rivoluzionaria di lunga durata, nella guerra civile che è la sintesi della
lotta delle masse popolari contro la borghesia imperialista. La classe operaia
per porsi come classe che lotta in proprio per il potere deve porsi come
contendente, forza politica sul terreno della guerra civile (sia che la
situazione che dovremo affrontare abbia per intero la forma di una guerra
civile, sia che abbia anche la forma di una guerra tra gruppi e Stati
imperialisti).(30)
30. In proposito v. Rapporti Sociali n. 4, 1989,
pagg. 26-31.
(http://www.nuovopci.it/scritti/RS)
Per condurre alla vittoria l’accumulazione delle
forze rivoluzionarie abbiamo bisogno di un partito che sia fondato sulla classe
operaia, che abbia come suo obiettivo l’instaurazione del potere della classe
operaia e l’eliminazione di quello della borghesia imperialista, che subordini
tutto a questo obiettivo, che selezioni e formi i suoi membri, i suoi
dirigenti, le sue organizzazioni e le sue relazioni con le masse in funzione di
questo obiettivo, che sia capace di resistere alla controrivoluzione preventiva
e all’aggressione scatenati dalla borghesia, che faccia tesoro dell’esperienza
dei 150 anni di storia del movimento comunista, che impari dai successi e dalle
sconfitte della rivoluzione proletaria, che abbia quindi come teoria guida il
marxismo-leninismo-maoismo.
Il partito deve quindi essere libero dal controllo
della borghesia. Non può vivere e operare nei limiti che la borghesia consente,
come un altro tra i partiti della società borghese. I rapporti tra i gruppi
imperialisti (e tra le rispettive forze politiche) appartengono a una categoria
diversa da quella a cui appartengono i rapporti tra le masse popolari (e la
classe operaia che ne è la sola potenziale classe dirigente) e la borghesia
imperialista: sono rapporti che si sviluppano secondo leggi diverse. Quelli che
in un modo o in un altro si ostinano a considerare questi rapporti come
rapporti dello stesso ordine, soggetti alle stesse leggi, o cadono nel
politicantismo borghese (parlamentare o affine) o nel militarismo, infatti
l’accordo alle spalle delle masse e la guerra imperialista sono le due forme
alterne con cui i gruppi imperialisti trattano i rapporti tra loro.
Questo vuol dire che la classe operaia (e la sua
espressione politica, il partito comunista) non è comunque condizionata dalla
borghesia? No. Vuol dire che il partito comunista non poggia la sua possibilità
di operare sulla tolleranza della borghesia, che il partito assicura la propria
possibilità di esistere e operare nonostante la borghesia faccia ricorso
alla controrivoluzione preventiva, che il partito, grazie alla sua analisi
materialista dialettica della situazione e ai suoi legami con le masse, precede
le misure della controrivoluzione preventiva volgendole a proprio favore. Vuol
dire che il partito è condizionato dalla borghesia come in una guerra ognuno
dei contendenti è condizionato dall’altro e condizionato in ogni fase della
guerra secondo il rapporto delle forze in quella fase (difensiva strategica,
equilibrio strategico, offensiva strategica), ma non soggetto alle sue leggi e
al suo Stato, come lo sono le masse in condizioni normali.
Nota 46
[Il principio secondo cui “Una teoria è
rivoluzionaria in quanto è appunto elemento di separazione completa in due
campi, in quanto è vertice inaccessibile agli avversari” (Gramsci, Quaderni del carcere, cit. p. 1434) ha
espressione organizzativa nel fatto che il partito è clandestino. Questo
significa non solo che la teoria rivoluzionaria è incomprensibile agli
avversari, ma
1. che la sua elaborazione si sviluppa in condizioni
al di fuori del controllo degli avversari, e
2. che non c’è controllo o repressione degli
avversari che ne possa impedire l’elaborazione. L’opera di Gramsci lo dimostra,
e così quella della carovana del (nuovo)PCI.]
Fin dal suo inizio il movimento comunista (31) ha chiaramente indicato che la classe
operaia avrebbe preso il potere solo tramite una rivoluzione.
Successivamente tutte le affermazioni dei
socialisti e dei revisionisti sulla via pacifica, democratica, parlamentare al
socialismo sono state nei fatti smentiti dalla borghesia stessa che, come F.
Engels già nel 1895 aveva ben indicato, non ha avuto alcuno scrupolo a
“sovvertire la sua legalità”, ogni volta che questa non assicurava la
continuità del suo potere. La partecipazione alle elezioni e in generale a una
serie di altre normali attività della società borghese, cui le organizzazioni
operaie partecipano in quanto libere associazioni tra le altre, sono stati
strumenti utili per affermare l’autonomia della classe operaia, ma da quando è
iniziata l’epoca della rivoluzione proletaria si sono trasformati in catene
controrivoluzionarie ogni volta che sono stati presi per strumenti per la
conquista del potere.(32)
31. K. Marx-F. Engels, L’ideologia tedesca,
1845-1846, in Opere, vol. 5.
http://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1846/ideologia
32. Questo concetto è ben illustrato in Stalin, Principi
del leninismo, 1924.
http://www.bibliotecamarxista.org/stalin/prindellen.htm
L’instaurazione della controrivoluzione preventiva
come cuore dello Stato borghese moderno
(http://www.nuovopci.it/scritti/mpnpci/01_03_03_contrivol_prev.html) rende
sistematico l’impegno della borghesia a prevenire e impedire lo sviluppo del
movimento comunista, prima di doverne reprimere il successo. Che quindi la
conquista del potere da parte della classe operaia debba realizzarsi per via
rivoluzionaria, non è una novità. Ciò che è nuovo, è che da quando la conquista
del potere da parte della classe operaia è storicamente all’ordine del giorno,
la direzione della sua lotta per il potere, cioè il partito comunista, deve
essere una struttura libera dal controllo della borghesia e dei suoi sistemi di
controrivoluzione preventiva, cioè deve essere un partito clandestino.
La classe operaia non può combattere
vittoriosamente la borghesia imperialista, non può porsi come suo contendente
nella lotta per il potere, non può condurre l’accumulazione delle forze
rivoluzionarie fino a rovesciare l’attuale sfavorevole rapporto di forza con le
forze della reazione, se ha una direzione che sottostà alle leggi e al potere
della borghesia.
Non si tratta solo di avere un apparato illegale.
Questo lo avevano già tutti i partiti della Terza Internazionale: faceva parte
delle condizioni per essere ammessi nell’Internazionale Comunista, era la terza
delle 21 condizioni, approvate dal II Congresso (17 luglio - 7 agosto 1920).
Essa diceva: “In quasi tutti i paesi d’Europa e d’America la lotta di classe
entra in un periodo di guerra civile. In queste condizioni i comunisti non
possono fidarsi della legalità borghese. Essi devono creare ovunque, accanto
all’organizzazione legale, un organismo clandestino, capace di assolvere nel
momento decisivo al suo dovere verso la rivoluzione. In tutti i paesi in cui, a
causa dello stato d’assedio o di leggi d’eccezione, i comunisti non possono
svolgere legalmente tutto il loro lavoro, essi devono senza alcuna
esitazione combinare l’attività legale con l’attività illegale”.
L’esperienza della rivoluzione proletaria durante
la prima crisi generale del capitalismo (1900-1945) ha mostrato che i paesi in
cui i partiti comunisti possono svolgere tutto il loro lavoro
legalmente, se il loro lavoro ha successo nonostante la controrivoluzione
preventiva, si trasformano in paesi in cui i partiti comunisti non possono
svolgere il loro lavoro legalmente. Nei paesi dove la borghesia imperialista
non aveva la forza per operare autonomamente questa trasformazione (ad es. la
Francia degli anni ‘30), essa ha preferito l’aggressione e l’occupazione
straniera purché questa trasformazione si attuasse. La lotta di classe è
entrata in un periodo di guerra civile dovunque la classe operaia non ha
rinunciato alla lotta per il potere, quindi essa deve condurre la sua lotta per
il potere come una guerra civile e i partiti comunisti, dovunque vogliono
restare tali, non possono e non devono “fondarsi della legalità borghese”. I
partiti comunisti hanno potuto svolgere legalmente, alla luce del sole tutto
il loro lavoro solo dove la classe operaia deteneva già il potere: nei paesi
socialisti e nelle basi rosse.
L’esperienza ha mostrato che avere un organismo
clandestino che entri in azione “nel momento decisivo” non basta a rendere i
partiti comunisti capaci di dirigere con successo le masse e nemmeno a evitare
la loro decapitazione e decimazione. L’accumulazione e la formazione delle
forze rivoluzionarie deve avvenire “in seno alla società borghese”, ma per
forza di cose avviene gradualmente. Essa quindi non può avvenire legalmente. Il
partito deve evitare, con una conduzione tattica adeguata, di essere costretto
a uno scontro decisivo finché le forze rivoluzionarie non sono state accumulate
fino ad avere raggiunto la superiorità su quelle della borghesia imperialista.
Non basta quindi creare un organismo clandestino “accanto all’organizzazione
legale”. È il partito che deve essere clandestino, è l’organizzazione
clandestina che deve dirigere l’organizzazione legale e assicurare comunque la
continuità e la libertà d’azione del partito. Il partito comunista deve essere
un partito clandestino e dalla clandestinità muovere tutti i movimenti legali
che sono necessari e utili alla classe operaia, al proletariato e alle masse:
questa è la lezione della prima ondata della rivoluzione proletaria.
L’esperienza ha dimostrato che i partiti comunisti
per adempiere con successo al loro compito devono “combinare l’attività legale
con l’attività illegale” nel senso preciso
che l’attività illegale dirige ed è fondamento e
direzione dell’attività legale,
che l’attività illegale è principale e l’attività
legale è ad essa subordinata,
che l’attività illegale è assoluta e l’attività
legale condizionata, relativa al rapporto delle forze tra classe operaia e
borghesia imperialista, relativa alle decisioni che la classe dominante reputa
convenienti per se stessa.
L’esperienza ha altresì dimostrato che questo
preciso genere di combinazione di attività illegale con l’attività legale non
deve essere fatta dai partiti comunisti solo nei paesi in cui “a causa dello
stato d’assedio o di leggi d’eccezione” la borghesia ha limitato l’attività
legale, ma deve essere fatta in ogni paese, prima che la borghesia metta in
atto stati d’assedio o leggi d’eccezione, prima che imponga all’attività
politica del proletariato limiti legali più ristretti di quelli che impone ai
singoli gruppi della classe dominante o comunque imponga limiti più ristretti
di quelli vigenti. La borghesia imperialista impone in ogni caso all’attività
politica della classe operaia, del proletariato, delle masse popolari limiti di
fatto che i membri della classe dominante non hanno (limiti di tempo, di
danaro, di spazi, di cultura, accesso alle armi, ecc.) e che fanno sì che per
la stragrande maggioranza delle masse popolari anche gran parte dei diritti
riconosciuti legalmente restino una presa in giro, diritti sulla carta.
La terza delle 21 condizioni di ammissione alla
Terza Internazionale era stata formulata per avviare la trasformazione in
partiti bolscevichi (bolscevizzazione) dei vecchi partiti socialisti che, come
il PSI, avevano aderito all’Internazionale Comunista perché così lo comportava
il vento che tirava tra le masse, ma restavano assolutamente inadeguati a
svolgere la funzione di direzione delle masse nel movimento rivoluzionario del
loro paese.(33) Era stata introdotta per
correggere la “insufficienza rivoluzionaria” dei vecchi partiti socialisti che
facevano la fila per aderire alla Terza Internazionale. Ma era stata formulata
in termini concilianti, con concessioni alle resistenze presenti in questi
partiti a trasformarsi in partiti adeguati ai compiti dell’epoca. In
conclusione l’esperienza ha dimostrato che la terza condizione per l’ammissione
alla Internazionale Comunista era inadeguata. Nei paesi imperialisti i partiti
comunisti che nacquero facendola propria si dimostrarono incapaci di far fronte
ai propri compiti, anche per la concezione riduttiva, subordinata dell’azione
clandestina che in essi permase e che la terza condizione recepisce.(34)
33. Si veda in proposito il Programma de L’Ordine
Nuovo e della sezione socialista torinese, aprile 1920.
http://www.nuovopci.it/classic/gramsci/perinps.htm
34. Basta che un partito comunista sia clandestino perché
possa svolgere con successo il suo compito? Ovviamente no. Il fattore principale
del successo di un partito comunista è la sua linea politica. Se la linea
politica è sbagliata, la struttura clandestina non salverà il partito dalla
sconfitta. Tuttavia la struttura clandestina renderà meno difficile al partito
tirare la lezione delle sconfitta e correggere la linea.
Il successo del partito
comunista in definitiva dipende dal suo legame con le masse: una linea giusta
sviluppa il legame con le masse, una linea sbagliata riduce il legame con le
masse, lo ostacola. Se un partito comunista clandestino mantiene una linea
sbagliata, alla lunga non riuscirà neanche a conservarsi come partito
clandestino e sarà sconfitto anche su questo terreno, perché la clandestinità
del partito comunista non è principalmente il frutto della applicazione di una
tecnica, ma può essere conservata solo grazie al legame con le masse, al
sostegno che il partito riceve dalle masse, cioè alla linea giusta del partito.
Ne segue che concepire l’azione del partito
comunista come un’azione strategicamente legale, considerare la legalità come
la regola e la clandestinità come l’eccezione che entra in azione nei momenti
d’emergenza, non prevenire il momento in cui la borghesia cerca di stroncare il
partito, non costruire il partito in vista e in funzione della guerra civile, è
non conformarsi alle leggi della rivoluzione proletaria. I partiti comunisti
che si sono comportati in questa maniera (da quello italiano a quello
cinese, (35) tedesco, spagnolo,
indonesiano, cileno, ecc. ecc.) hanno pagato dure lezioni.
La clandestinità non impedisce di sviluppare
un’ampia azione legale nella misura in cui le condizioni lo comportano, anzi
rende possibile ogni genere di azione legale, anche le attività meno
“rivoluzionarie”, che diventano strumento per legare organizzativamente al campo
della rivoluzione le parti più arretrate delle masse popolari e influenzarle.
D’altra parte la clandestinità non si improvvisa e un partito costruito per
l’attività legale o principalmente per l’attività legale e che subisce
l’iniziativa della borghesia, difficilmente è in grado di reagire efficacemente
all’azione della borghesia che lo mette fuori legge, che lo perseguita. Un
partito legale non è inoltre in grado di resistere efficacemente alla
persecuzione, all’infiltrazione, alla corruzione, all’intimidazione, ai
ricatti, alle azioni terroristiche della controrivoluzione preventiva, della
“guerra sporca”, della “guerra di bassa intensità” e del resto dell’arsenale di
cui si è munita la borghesia imperialista per opporsi all’avanzata della
rivoluzione proletaria. Un partito legale non è in grado di raccogliere e
formare le forze rivoluzionarie che il movimento della società genera
gradualmente e di impegnarle via via nella lotta per aprire l’ulteriore strada
al processo rivoluzionario, in questo modo addestrandole e formandole.
35. Parliamo
del Partito comunista cinese fino al 1927.
Nota 47
[Inoltre “un partito legale non è in grado di
dibattere fino in fondo il bilancio delle esperienze e le sue parole d’ordine e
quindi di elaborare una strategia e una tattica giuste e di portarle alle masse
popolari” (1)
I problemi quindi sono quattro, così distinti:
1. Esterni, cioè posti dalla borghesia, che
a. nell’immediato può spazzare via il partito quando
decide di farlo, e
b. nel lungo periodo ne ostacola lo sviluppo tramite
controlli, infiltrazioni, persecuzioni,
eccetera.
2. Interni, cioè propri del partito che
a. sul piano organizzativo, non è in grado di
raccogliere forze, addestrarle, formarle, e
b. sul piano ideologico non è in grado di sviluppare
la teoria rivoluzionaria.
Il punto 2b, giustamente aggiunto in MP ai punti
1a, 1b e 2a, in effetti è il primo, perché il problema da risolvere alla
partenza è l’elaborazione scientifica dell’esperienza della lotta di classe nei
paesi imperialisti, la cui mancanza è causa del fatto che il movimento
comunista non ha conquistato finora il potere in alcuno di quei paesi.]
NOTE
1.
MP, pag. 215.
Il partito comunista deve quindi essere una
direzione clandestina, deve essere un partito che si costruisce dalla
clandestinità e che dalla clandestinità tesse la sua “tela di ragno” e muove la
sua azione di ogni genere in ogni campo. Deve essere un partito che è
strategicamente clandestino (quindi ha sempre il suo retroterra strategico
clandestino), ma destina una parte dei suoi membri a svolgere compiti nella
lotta politica legale, nel lavoro legale di mobilitazione delle masse e crea
tutte le strutture legali che la situazione consente di creare. Il rapporto
numerico tra le due parti varia a secondo delle situazioni concrete;
attualmente e per un tempo ancora indeterminato nel nostro paese sarà
decisamente a favore della parte legale.
Il nuovo partito comunista italiano deve avere una
direzione strategica clandestina, ma attualmente la classe operaia e le masse
svolgono la stragrande maggioranza della loro attività politica, economica e
culturale non clandestinamente e sono pochi i lavoratori disposti a impegnarsi
in un lavoro clandestino. L’attività di difesa e di attacco dei lavoratori si
svolge oggi in gran parte alla luce del sole, con attività legalmente tollerate
dalla borghesia, scoraggiate e ostacolate ma non vietate. È del tutto
inconsistente ogni tentativo (fatto con l’esempio e/o con la propaganda) di
indurre gli operai e le masse popolari ad abbandonare questo terreno (in questo
vano tentativo consistette la deviazione militarista delle Brigate Rosse). Ogni
tentativo in questo senso porta solo a lasciare campo libero ai revisionisti,
agli economicisti, ai borghesi. Solo man mano che la borghesia impedirà lo
svolgimento legale delle attività politiche e culturali che le masse sono
abituate a svolgere legalmente, metterà fuori legge, perseguiterà, ecc. (ed è
sicuro che arriverà a tanto: basta vedere i “progressi” che già ha fatto su
questa strada per quanto riguarda la libertà di sciopero, l’espressione del
pensiero e la propaganda, la rappresentanza nelle assemblee elettive; la
borghesia non ha altra strada, benché per esperienza ne conosca i pericoli e
faccia mille sforzi per non imboccarla), solo man mano che i progressi
dell’azione del partito comunista, della classe operaia e delle masse popolari,
la loro resistenza organizzata al procedere della crisi e alla guerra di
sterminio che la borghesia imperialista conduce contro di esse, avrà suscitato
una controrivoluzione potente alla quale però il partito saprà tener testa,
solo allora, sulla base della loro esperienza, la classe operaia, il proletariato
e le masse popolari sposteranno una parte crescente delle loro lotte e delle
loro forze nella guerra, che solo allora diventerà la forma principale in cui
esse potranno esprimersi e nella quale il partito sarà in grado di dirigerle
vittoriosamente.
Il PCd’I nei primi anni venti aveva un apparato
clandestino, ma non la direzione clandestina; nel 1926 subì la messa fuori
legge; divenne clandestino perché costretto; perdette la direzione (Antonio
Gramsci); ancora nel luglio ‘43 non approfittò del crollo del fascismo per
costruire un esercito; si basò sull’alleanza con i partiti democratici per un
passaggio pacifico dal fascismo ad un nuovo regime borghese; nel settembre ‘43
lasciò disperdere il grosso dell’esercito costituito da proletari in armi
perché non era ancora in grado di dare ad essi una direzione concreta e non
approfittò del vuoto di potere e del materiale militare che la fuga del re e di
gran parte degli alti ufficiali aveva messo a disposizione di chi sapeva
approfittarne. Solo nei mesi successivi metterà la guerra al primo posto,
creerà le proprie formazioni armate antifasciste e antinaziste e costringerà a
seguirlo su questo terreno tutte le altre forze politiche che non vogliono
perdere i contatti con le masse e vogliono avere un ruolo nel dopoguerra.
Il KPD (Partito comunista tedesco) nel corso degli
anni ‘20 tentò varie insurrezioni (non casualmente fallite) e nel 1933 lasciò
arrestare la direzione (Ernst Thaelmann); mantenne organizzazioni clandestine,
ma non riuscì a mobilitare sul piano della guerra né gli operai comunisti
(benché il KPD avesse avuto 5 milioni di voti alle ultime elezioni nel 1933),
né gli operai socialdemocratici, né gli ebrei e le altre parti della
popolazione che pure erano perseguitati a morte dai nazisti.
Il PCF (Partito comunista francese) nel 1939 (il
governo francese dichiarò guerra alla Germania il 1° settembre) si trovò in
condizioni tali che migliaia di suoi membri vennero arrestati dal governo
francese assieme a migliaia di altri antifascisti e l’organizzazione del
partito saltò quasi interamente. M. Thorez, segretario del PCF, rispose alla
chiamata alle armi! All’inizio del giugno 1940 il PCF “chiese” al governo
Reynaud di armare il popolo contro le armate naziste che dal 10 maggio
dilagavano in Francia e ovviamente la risposta fu il decreto del governo
“francese” che intimava a ogni “francese” che possedeva armi da fuoco di
consegnarle ai commissariati. Solo dal luglio 1940 in avanti, dopo che i
contrasti tra i gruppi imperialisti francesi erano sfociati in guerra civile
tra essi (il Proclama di De Gaulle da Londra è del 18 giugno 1940), il PCF
ricostruirà con eroismo e tenacia la sua organizzazione e solo a partire dal
1941 un po’ alla volta assumerà la guerra rivoluzionaria come forma principale
di attività.
Da tutta questa esperienza storica, che lezione
dobbiamo trarre? Che oggi dobbiamo costruire il nuovo partito comunista a
partire dalla clandestinità. La clandestinità è una questione strategica, non
tattica. È una decisione che dobbiamo prendere oggi per essere in grado di far
fronte ai nostri compiti di oggi e a quelli di domani. La guerra popolare
rivoluzionaria di lunga durata è la strategia del nostro movimento comunista e
oggi è l’aspetto dirigente della nostra attività. Le lotte pacifiche sono un aspetto
della tattica del movimento comunista e oggi sono l’aspetto più diffuso
dell’attività delle masse. Non dobbiamo subire l’iniziativa della borghesia, né
aspettare che la mobilitazione delle masse ci abbia preceduto. Dobbiamo
prendere l’iniziativa, precedere la borghesia e predisporre le nostre attuali
piccole forze in modo che siano in grado di accogliere, organizzare e dirigere
alla lotta le forze che il corso della crisi generale del capitalismo produce di
per sé tra le masse, ma con fertilità che sarà accresciuta dalla giusta
attività del partito comunista.
Lenin creò un centro stabile e inattaccabile dalla
polizia zarista per l’attività del partito nell’impero russo, venendo in Europa
quando ancora poteva viaggiare. Non attese di essere costretto alla
clandestinità dall’avversario. Dal punto di vista operativo, è meno difficile
impiantarsi nella clandestinità quando si è ancora legali, che quando si ha già
la polizia alle calcagna e si è stati sorpresi dall’iniziativa dell’avversario.
Dobbiamo iniziare dall’esempio del grande Lenin di
cui la storia ha confermato la giustezza e adattarlo alla nostra condizione.
Quanto abbiamo fin qui detto dovrebbe bastare a
tracciare chiaramente la discriminante tra da una parte l’impresa a cui
lavoriamo e a cui chiamiamo tutte le FSRS a lavorare e dall’altra tutti i
progetti di “partiti rivoluzionari nei limiti della legge”.
36. Su questo tema vedere CARC, F. Engels/10, 100, 1000
CARC per la ricostruzione del partito comunista, 1995, Edizioni Rapporti
Sociali (http://www.carc.it/index.php?option=com_content&view=article&id=865)
e Pippo Assan, Cristoforo Colombo, Edizioni della vite, 1988 Firenze.
(http://www.nuovopci.it/scritti/cristof/indlibr.htm)
Dovrebbe bastare anche a tracciare una
discriminante tra questa impresa e le varie società segrete che vivono e
operano nel nostro paese. Vale tuttavia la pena aggiungere qualche parola su
questo argomento. Dopo le sconfitte subite dalle Brigate Rosse all’inizio degli
anni ‘80, la linea della “ritirata strategica” non ha portato alla autocritica
della deviazione militarista che aveva generato la sconfitta e alla raccolta
delle forze per la ricostruzione del partito comunista,(36) ma alla nascita di un certo numero di “società segrete”. In
quell’epoca la borghesia cercava di consolidare la sua vittoria e la destra del
“movimento” con alla testa Negri e negrini, che ne rappresenta gli interessi,
era per la liquidazione dell’organizzazione rivoluzionaria e il ritorno alla
“lotta legale”. Ciò che la borghesia cercava di ottenere con le persecuzioni,
con le torture, con il regime carcerario speciale e con i premi a delatori
(“pentiti” o “dissociati”), la destra costituita dai vari promotori della
dissociazione, lo rafforzava con la linea della liquidazione dell’attività e
dell’organizzazione clandestina. Va dato atto ai compagni che hanno costituito
le società segrete di essersi opposti alla destra e alla liquidazione
dell’organizzazione rivoluzionaria. Questo è il lato positivo della loro
azione. Il lato negativo è comprovato praticamente dalla generale sterilità
della loro attività: questa deriva dal fatto che il movimento comunista ha
bisogno del partito comunista, non della società segreta. Già Marx ed Engels
negli anni ‘40 del secolo scorso avevano affrontato e risolto questo problema
su cui ora bisogna tornare. La critica di Marx ed Engels alla società segreta
come forma organizzativa è riassunta nella conclusione del Manifesto del
partito comunista: “I comunisti disdegnano di nascondere le loro opinioni.
Essi dichiarano apertamente che i loro scopi non possono essere raggiunti che
con l’abbattimento violento di ogni ordinamento sociale esistente”. I tratti
caratteristici e distintivi della società segreta sono che la sua esistenza è
nota solo ai membri, che i membri stessi sono iniziati per livelli (livelli di
iniziazione) alla conoscenza degli obiettivi, delle concezioni, dei metodi,
della struttura e della direzione della società. Una struttura di questo genere
è stata ed è adatta ad aggregare attorno a un capo o a un gruppo ristretto una
cerchia di persone ognuna delle quali ha un interesse personale alla protezione
e in generale ai vantaggi che la società segreta offre ai suoi membri. Che una
struttura del genere fosse adatta alla borghesia per la concorrenza cui deve
partecipare e che fosse adeguata anche alla protezione degli addetti ad alcuni
mestieri finché restavano un gruppo ristretto i cui membri si assicuravano
mutua protezione, è un dato dell’esperienza storica oltre che un risultato a
cui si può pervenire riflettendo sui rapporti sociali reali (sulle
“costituzioni materiali”) nelle due situazioni indicate. È però altrettanto
evidente che non è una forma adatta a raccogliere e formare le forze
rivoluzionarie che si conteranno, e si dovranno contare, a milioni e a sollevare
alla lotta politica una classe che i correnti rapporti sociali della società
borghese escludono dalla attività politica. Va ricordato che i rapporti sociali
materiali (effettivi) della tarda società feudale europea non escludevano la
borghesia dall’attività politica, per la quale infatti la borghesia disponeva
di tempo, di risorse materiali e di cultura. La escludevano le leggi e le
consuetudini del mondo politico che riservavano le attività politiche ai nobili
e al clero, non la escludevano le relazioni sociali, la società civile. Nella
società borghese invece i rapporti sociali reali escludono dall’attività
politica, legalmente dichiarata accessibile a tutti, proprio gli operai e il
grosso del resto delle masse popolari, perché li privano del tempo, dei mezzi e
della cultura necessari a prendervi effettivamente parte: la partecipazione è
limitata agli individui capaci individualmente di uno sforzo particolare come i
membri del partito comunista. Quindi il partito comunista è un partito del
tutto particolare.
Nota 47
[Il carattere elitario delle società segrete è
chiaro dai loro documenti, che parlano un linguaggio incomprensibile anche per
elementi di cultura politica media e di livello scolare alto, e sicuramente un
linguaggio che “non parla al cuore” di nessuno, l’esatto contrario del discorso
che deve chiarire (nel senso di illuminare) e appassionare (nel senso di
accendere la fiamma).
“Passaggio dal sapere al comprendere al sentire e
viceversa dal sentire al comprendere al sapere. L‘elemento popolare
"sente", ma non comprende né sa; l‘elemento intellettuale
"sa" ma non comprende e specialmente non sente. I due estremi sono
dunque la pedanteria e il filisteismo da una parte e la passione cieca e il
settarismo dall‘altra. Non che il pedante non possa essere appassionato,
tutt‘altro: la pedanteria appassionata è altrettanto ridicola e pericolosa che
il settarismo o la demagogia appassionata. L‘errore dell‘intellettuale consiste
nel credere che si possa sapere senza comprendere e specialmente senza sentire
ed essere appassionato, cioè che l‘intellettuale possa esser tale se distinto e
staccato dal popolo: non si fa storia politica senza passione, cioè senza
essere sentimentalmente uniti al popolo, cioè senza sentire le passioni
elementari del popolo, comprendendole, cioè spiegandole [e giustificandole]
nella determinata situazione storica e collegandole dialetticamente alle leggi
della storia, cioè a una superiore concezione del mondo, scientificamente
elaborata, il "sapere”.
Se l‘intellettuale non comprende e non sente, i
suoi rapporti col popolo-massa sono o si riducono a puramente burocratici,
formali: gli intellettuali diventano una casta o un sacerdozio (centralismo
organico): se il rapporto tra intellettuali e popolo-massa, tra dirigenti e
diretti, tra governanti e governati, è dato da una adesione organica in cui il
sentimento passione diventa comprensione e quindi sapere (non meccanicamente,
ma in modo vivente), allora solo il rapporto è di rappresentanza, e avviene lo
scambio di elementi individuali tra governati e governanti, tra diretti e
dirigenti, cioè si realizza la vita d‘insieme che sola è la forza sociale, si
crea il "blocco storico".”(1)]
NOTE
1. QC. pp.
1505-1506.
Marx ed Engels entrarono nella Lega dei Giusti
(che poi divenne Lega dei Comunisti) all’inizio del 1847 dopo che i suoi membri
si convinsero ad eliminare i tratti della società segreta. La lotta contro le
società segrete è stata una costante di Marx ed Engels anche negli anni
successivi. Nella lettera a F. Bolte del 23 novembre 1871, nel pieno della
lotta contro la società segreta fondata da Bakunin nell’Internazionale, Marx
arriva ad affermare “L’Internazionale fu fondata per mettere al posto delle
sette socialiste o semisocialiste, la vera organizzazione di lotta della classe
operaia. ... Lo sviluppo delle sette socialiste e quello del vero movimento
operaio sono sempre in proporzione inversa. Sino a che le sette hanno una
giustificazione (storica), la classe operaia non è ancora matura per un
movimento storico indipendente. Non appena essa giunge a questa maturità, tutte
le sette diventano essenzialmente reazionarie. ... La storia
dell’Internazionale è stata una costante lotta del Consiglio generale contro le
sette ...”. La struttura della società segreta è inconciliabile con la raccolta
ampia delle forze della classe operaia, del proletariato, delle masse popolari
attorno al partito comunista, è inconciliabile con il centralismo democratico
come principio organizzativo del partito. Il partito comunista è vitalmente
interessato a far conoscere alle masse più ampie possibile la sua esistenza, il
suo programma, il suo statuto, i suoi orientamenti, le sue linee particolari:
esso non lotta per prendere in mano il potere esso stesso, lotta perché la
classe operaia prenda il potere e per costruire uno Stato “in via di
estinzione”, cioè in cui il governo delle masse da parte delle masse popolari
stesse abbia la massima estensione possibile. Nel libro Che fare? Lenin
difende la necessità di un partito clandestino di cui i rivoluzionari di
professione sono una componente essenziale: ma il progetto che egli delinea non
ha nulla a che vedere con una società segreta.
Noi possiamo e dobbiamo riconoscere i meriti che
le società segrete hanno avuto negli anni ‘80 come raccolta provvisoria di
compagni che la sconfitta aveva lasciato senza orientamento e in condizioni
organizzativamente molto deboli. Ma proprio la mancanza di risultati di rilievo
dell’attività da esse svolta da allora a questa parte conferma a ogni compagno
l’incompatibilità delle società segrete con il movimento comunista e, quello
che più ci importa chiarire, la differenza tra il partito comunista clandestino
e una qualunque società segreta.
Quale è la fonte principale delle forze di un
partito comunista? Le masse. E come possono le
masse conferire la loro forza a un partito di cui ignorano non solo il
programma e gli orientamenti, ma addirittura l’esistenza? La concezione
del partito come società segreta deriva da una concezione del mondo che
sottovaluta le potenzialità rivoluzionarie delle masse (l’attività della
società segreta deve sostituire le masse popolari e compiere l’attività che
esse dovrebbero svolgere ma non svolgono) e sopravvaluta la forza della
borghesia (essa sarebbe in grado di controllare completamente le masse, con i
mass media e con i servizi segreti, di annullare l’effetto dell’esperienza
dello sfruttamento come fonte della coscienza degli operai e dei membri delle
altre classi oppresse e fruttate: le tesi sulla sussunzione reale totale della
società nel capitale espongono questa concezione che legittima le società
segrete). La società segreta deriva da una concezione che, come quella
militarista, pone la tecnica al primo posto; essa porta quindi i rivoluzionari
a scontrarsi con la borghesia sul suo terreno (le tecniche delle operazioni
segrete, i complotti, ecc.) su cui essa è più forte di noi anziché a legarsi
alle masse e a costringere la borghesia a scontrarsi su un terreno che a noi è
favorevole. Di conseguenza alla lunga porta i rivoluzionari alla sconfitta.
Come il militarismo, la società segreta è insomma
figlia di una concezione del mondo interclassista: tutti totalmente sussunti
nel capitale e quindi moltitudine composta di individui. Sul terreno dello
scontro politico, questa concezione interclassista si esprime in questo: la tecnica è la tecnica, è la stessa per ogni classe.
La guerra tutte le classi la fanno alla stessa maniera, dicono i militaristi;
la cospirazione e le operazioni clandestine tutte le classi le fanno alla
stessa maniera, dicono i seguaci delle società segrete. Noi invece riteniamo
che ogni classe combatte alla propria maniera, se vuole vincere e la classe
d’avanguardia, la classe operaia può costringere la classe reazionaria, la
borghesia imperialista a misurarsi sul suo terreno perché nella guerra popolare
rivoluzionaria non si tratta di un gruppo imperialista che vuole strappare
qualche ricchezza a un altro gruppo imperialista, ma si tratta di conquistare
la direzione delle masse popolari, conquistandone
il cuore.
Ci resta da affrontare un’ultima obiezione: è
possibile costituire un partito clandestino?
Noi siamo convinti che la costituzione di un
partito comunista clandestino è necessaria e possibile. La classe operaia ha avuto
nel passato partiti clandestini in varie circostanze: nella Russia zarista,
nella Cina coloniale e nazionalista, nell’Italia fascista, nella Germani
nazista e in molti altri paesi. I revisionisti moderni hanno alimentato e
alimentano l’immagine terroristica della borghesia onnipotente quando hanno
voluto togliere alla classe operaia uno strumento indispensabile per la sua
lotta rivoluzionaria. “Dio è dappertutto”, “Dio vede tutto”, “Dio può tutto”
dicono i preti; i portavoce della borghesia e i revisionisti hanno sostituito
queste vecchie frasi minatorie dei preti con “La CIA vede tutto, è dappertutto,
può tutto”, “Non si muove foglia che la CIA non voglia” e hanno promosso uno
scalcinato carrozzone di assassini, di spioni e di mercenari assetati di denaro
e di carriera al ruolo di Dio onnipotente! Se i movimenti rivoluzionari negli
USA non sono riusciti a svilupparsi, secondo loro la colpa è della CIA e della
FBI. Se le Brigate Rosse sono state sconfitte, è “merito dello Stato che a un
certo punto ha incominciato a combatterle sul serio”. E così via. L’onnipotenza
della classe dominante è stato sempre un tema della propaganda terroristica
della stessa classe dominante (basti considerare la letteratura sulla Mafia e
sulle altre Organizzazioni Criminali) e una giustificazione sia degli
opportunisti sia degli sconfitti che non vogliono riconoscere i propri errori e
fare autocritica. Se la ferocia e l’intelligenza delle classi dominanti
potessero fermare il movimento di emancipazione delle classi oppresse, la
storia sarebbe ancora ferma allo schiavismo. La società borghese è ricca di
contraddizioni, ha in sé tanti fattori di instabilità, il suo funzionamento è
costituito da un numero illimitato di traffici e di movimenti e per il suo
funzionamento la borghesia è costretta ad avvalersi delle masse che nello
stesso tempo calpesta: insomma è una società che più delle precedenti società
di classe presenta lati favorevoli all’attività delle classi oppresse, che
siano decise a battersi. La possibilità per un partito comunista di costituirsi
e operare clandestinamente dipende in definitiva dal suo legame con le masse e
questo a sua volta dipende dalla linea politica del partito: se essa è o no
conforme alle reali condizioni concrete dello scontro che le masse stanno vivendo
(pur avendone esse una coscienza limitata). Questa è la chiave del successo o
della sconfitta di un partito comunista. Per quanto feroce e capillare sia la
controrivoluzione preventiva, essa non è mai riuscita a impedire la vita e
l’attività di un partito comunista che aveva una linea giusta e sulla base di
questa linea attingeva all’inesauribile serbatoio di energie e di risorse di
ogni genere costituito dalla classe operaia, dal proletariato e dalle masse
popolari. È quello che con tutte le nostre forze cercheremo che sia anche il
nuovo partito comunista italiano.
Nota 48
[La verità è all’opposto di quello che appare,
come risulta a chi considera la realtà con scienza, cioè, nel caso nostro, con
il materialismo dialettico. Infatti non la borghesia è onnipotente, ma il
partito della classe operaia, nel senso che, appunto, la borghesia “non è mai
riuscita a impedire la vita e l’attività di un partito comunista che aveva una
linea giusta e sulla base di questa linea attingeva all’inesauribile serbatoio di
energie e di risorse di ogni genere costituito dalla classe operaia, dal
proletariato e dalle masse popolari.”]
Progetto per l’Unità dei Comunisti
Presentazione e note per
il dibattito - Aprile
2011
La crisi attuale
Il mondo è sconvolto da
una crisi economica che si va via via approfondendo ed estendendo ad ogni
ambito della società. Dai crolli finanziari allo smantellamento e
sconvolgimento dei processi di produzione, dalle crisi politiche dei vari paesi
e delle relazioni internazionali alle crisi ideologiche e culturali. Ovunque
avanza la guerra, la miseria, la distruzione e la morte per gran parte delle
masse popolari; mentre una ristretta fetta dell’umanità vive nel lusso e nello
spreco.
Nota 49
[Anche il MP del
(nuovo)PCI inizia allo stesso modo: “Il mondo in cui viviamo è scosso da un
capo all’altro da forti convulsioni”(p. 3)]
Ma il mondo è sconvolto
anche da rivolte sempre più estese e profonde delle masse popolari.
Praticamente in ogni parte del pianeta gli equilibri su cui si sono retti fino
a ieri gli ordinamenti sociali esistenti si sono rotti. Nessuna classe sociale
può continuare a vivere come è vissuta fino ad oggi, in particolare le classi
sfruttate e oppresse sono costrette a trovare, anche con la forza, una via
d’uscita dal progressivo peggioramento delle condizioni materiali,
intellettuali e morali, di progressivo abbrutimento a cui l’ordinamento sociale dominante
le costringe. Ma nemmeno la borghesia può dirigere la società come ha fatto
fino ad oggi. La lotta al suo interno e soprattutto la sua lotta per tenere
sottomesse le masse popolari le impongono di adottare misure diverse, più
“estreme” per difendere i suoi interessi.
Nota 50
[L’introduzione di questo
documento procede come nell’introduzione del MP, alle pagine 3 e 4, con aggiunta qui la formula della
situazione rivoluzionaria come descritta da Lenin, in cui la classe oppressa
non può continuare a vivere come ha fatto finora, né la classe che opprime può
continuare a governare come ha fatto finora.]
In
sintesi il mondo è sconvolto da una grande crisi generale da cui usciremo solo
con uno sconvolgimento altrettanto generale dei rapporti sociali esistenti.
Esistono di fatto due strade possibili.
1.
La borghesia, per mezzo di guerre, saccheggi e distruzioni riesce ad eliminare
una sufficiente quantità di capitale in eccesso; riesce ad imporre alle masse
popolari sacrifici ben più gravi di quelli che già oggi impone e “rilancia”
così l’economia verso un nuovo e rafforzato saccheggio. Per questa via ci troveremo
in pochi anni al punto di partenza, con alle spalle un’era di lacrime e sangue
subita dalle masse popolari di tutto il mondo.
2. Il
proletariato riesce a strappare la direzione della società alla borghesia ed
impone un nuovo ordinamento sociale mirato al soddisfacimento dei bisogno dell’uomo e alla salvaguardia del pianeta.
Nota 51
[Queste due vie sono chiamate dal (n)PCI mobilitazione
reazionaria o rivoluzionaria delle masse popolari(1)]
NOTE
1. vedi MP (p. 63)
In
definitiva queste sono le due vie possibili. Il fatto che prevalga la prima o
la seconda dipende dallo sviluppo della lotta di classe e dai passi avanti che
le masse popolari, il proletariato e la classe operaia faranno, imparando
dall’esperienza passata e trovando la via per imporre un ordinamento sociale
che soddisfi gli interessi della stragrande maggioranza della popolazione.
Questa
crisi generale non cesserà da sola, spontaneamente. Che il corso delle cose
imbocchi l’una o l’altra via dipende in definitiva dallo sviluppo della lotta
di classe e quindi dalle scelte delle forze in campo.
Questa
crisi non è determinata dall’impossibilità oggettiva di produrre tutto
ciò che serve all’umanità per vivere dignitosamente nel rispetto dello stesso
pianeta: le conoscenze e le risorse necessarie a questo scopo ci sono in
abbondanza e applicabili in ogni paese del mondo. Il problema è che nell’ambito
della società capitalista, sotto la direzione della borghesia (due aspetti
inscindibili) ogni attività produttiva e di trasformazione della realtà viene
messa in campo se e solo se il capitalista, proprietario dei mezzi di
produzione, ne ricava un profitto adeguato al capitale che ha investito.
Alla
crisi attuale si è giunti a causa di una sovrapproduzione di capitale (in tutte
le forme in cui esso si presenta: capitale finanziario, produttivo o merce): il
capitale complessivamente esistente è di entità tale che se il plusvalore da
esso estorto venisse tutto reinvestito nel processo produttivo non produrrebbe
un profitto adeguato. La crisi generale è determinata infatti
dall’impossibilità per i capitalisti di estrarre plusvalore in misura adeguata
al capitale investito, cioè in misura tale che sia per loro conveniente
continuare ad investirlo in cicli produttivi successivi.
Si
è giunti a questa situazione non perché (come affermano alcuni) la popolazione
mondiale “pretende” di consumare troppo, non perché al mondo esistono uomini
buoni e onesti e uomini cattivi ed egoisti, bensì perché il meccanismo
economico su cui si basa il funzionamento della società ha come fine ultimo la
valorizzazione del capitale e non il soddisfacimento dei bisogni dell’uomo.
La valorizzazione del capitale è produzione di nuovo
capitale che a sua volta deve valorizzarsi: un processo che non può portare ad
altro che alla sovrapproduzione e quindi al ricorso alla distruzione di una
parte sufficiente di quello che si è prodotto per poter ricominciare daccapo:
un cane che si morde la coda.
Nota 52
[Progetto per l’Unità dei Comunisti (PUC) indica alcuni
caratteri della crisi, che è crisi per sovrapproduzione di capitale, che il suo
carattere è assoluto. Questo è importante. Dice anche che la crisi è generale
ma è utile che spieghi perché lo è.]
La
crisi e le masse popolari
Gli
effetti che questa crisi ha per le masse popolari sono sotto gli occhi di
tutti: disoccupazione, debiti, miseria, fame, immigrazione forzata, guerra e
morte. I dati sulle condizioni di vita e di lavoro delle masse dimostrano
ampliamente quanto l’analisi sintetica della crisi attuale che abbiamo qui
sopra esposto sia un’analisi coerente, non a caso ormai condivisa, nei termini
generali, non solo da tutto il movimento comunista, anticapitalista,
antagonista, ecc. ma anche da una crescente fetta di economisti borghesi o
comunque non certo rivoluzionari.
Nota 53
[Non è esatto. Non tutto il movimento comunista,
anticapitalista e antagonista condivide questa analisi. Anzi, la definizione di
questa come crisi generale per sovrapproduzione assoluta di capitale non è
certo condivisa da Teoria e Prassi, e nemmeno dalla Rete dei Comunisti. La
definizione della natura della crisi è un elemento fondamentale per decidere
prassi comuni, come, ad esempio, la definizione della natura di un terreno è
importante perché diversi soggetti decidano se e come unirsi per costruirci
insieme una casa, un pilastro di un ponte o di un viadotto, eccetera. ]
L’analisi
delle condizioni delle masse e delle sue trasformazioni resta quindi un
elemento fondamentale per comprendere lo sviluppo che esso può avere e la
spinta positiva che noi comunisti possiamo imprimervi.
Le
masse resistono come meglio possono alla crisi del sistema capitalista, si organizzano
e lottano per ostacolare o rallentare i suoi effetti peggiori, ma l’unica
soluzione efficace e duratura ai loro problemi è il superamento del sistema
capitalista stesso.
Nota 55
[Questa
è ciò che i CARC nel loro atto di nascita hanno chiamato “resistenza delle
masse popolari al procedere della crisi” da trasformare in lotta per il
comunismo. La concordanza con quanto scrive PUC è piena, quindi.]
Le
lotte che le masse popolari stanno conducendo in varie parti del mondo sono
importanti perché rallentano il processo di distruzione delle condizioni di
vita che esse hanno conquistato nel passato; insegnano alle masse che è
possibile opporsi ai loro sfruttatori e mostrano alle masse che la loro
possibilità di vittoria sta nella loro stessa unione contro il nemico comune.
Ma queste lotte sono ancora sporadiche, isolate, in molti casi poco efficaci e
dai successi instabili.
Per
diventare efficaci e dai successi duraturi le lotte delle masse popolari devono
svilupparsi come vero e proprio processo che rivoluziona lo stato presente
delle cose, ovvero che abbatte il sistema capitalista e ne costruisce uno fondato sul soddisfacimento dei
bisogni delle masse stesse.
Un
processo rivoluzionario di questo tipo necessita di una direzione cosciente e
organizzata quale lo è stata nel recente passato il movimento comunista.
Chiunque si ponga l’obiettivo di cambiare lo stato presente delle cose
nell’interesse delle masse popolari, può ricavare insegnamenti importanti sia
dai successi che dalle sconfitte di quell’esperienza.
Il
ruolo dei comunisti
In
ogni parte del mondo le masse popolari, i lavoratori, la classe operaia lottano
per resistere alla crisi e ai suoi effetti devastanti, ma alla loro guida
raramente troviamo i comunisti, come invece lo sono stati in gran parte del
secolo scorso.
Il
movimento comunista si è formato dalla stessa spinta propulsiva delle masse, si
è costituito come avanguardia cosciente del movimento delle masse non solo per
l’abbattimento dell’ordinamento sociale capitalista, ma anche per l’instaurazione
di un nuovo ordinamento sociale: il socialismo e quindi il comunismo.
Il
movimento comunista è quindi quel movimento cosciente e organizzato,
strettamente legato alle masse e per questo in grado di guidarle nella loro
lotta per emanciparsi dallo sfruttamento della borghesia, abbattere il suo
sistema ingiusto e distruttivo e costruire il nuovo mondo.
Nota 56
[Concordo
(concordiamo) senz’altro. Il movimento comunista cosciente e organizzato è il
movimento comunista soggettivo che si distingue da quello oggettivo in Nota
26.]
Nella
sua lunga lotta il movimento comunista ha ottenuto grandi successi e subito grandi sconfitte, proprio come è
avvenuto per ogni grande movimento rivoluzionario della storia. Attualmente il
movimento comunista nel suo complesso si trova in uno stato di arretratezza
storica da cui deve riemergere. I segnali della sua ripresa ci sono, ma siamo
solo agli inizi.
Il
movimento comunista attuale è anche espressione della condizione delle masse
popolari stesse: è frammentato e isolato; nonostante i grandi successi da esso
ottenuti fino a 40 anni fa, oggi esso è debole ed inefficace. La stessa
mancanza di legame con le masse di cui la maggior parte dei partiti e delle
organizzazioni del movimento comunista oggi soffre è un ostacolo al superamento
dei limiti ideologici e quindi organizzativi dei comunisti. L’isolamento del
movimento comunista dalle masse impedisce che esso tragga dalle loro lotte i
giusti insegnamenti per divenire ancora una volta capace di assumerne la
direzione, di trasformare il movimento di resistenza e rivendicativo, che pure
si va sviluppando in tutto il mondo, in un movimento rivoluzionario.
Nota 57
[Qui
abbiamo una affermazione da precisare e un errore da segnalare.
L’affermazione
da precisare riguarda i “grandi successi ottenuti fino a 40 anni fa”. Il
movimento comunista ha ottenuto grandi successi fino al momento della svolta
revisionista: dopo ha ottenuto successi (le riforme nei paesi imperialisti sono
stati successi) ma non comparabili a quelli precedenti.
L’errore
sta nel porre la mancanza di legame con le masse popolari come ostacolo al
superamento dei limiti ideologici, quando le cose stanno all’opposto: sono i
limiti ideologici non superati che impediscono di sviluppare e rafforzare il
legame come le masse popolari.
Posto
l’errore, cioè imboccata la via sbagliata, ne segue il discorso successivo,
dove PUC spiega che la soluzione ai problemi è nell’essere uniti e non divisi.
L’essere uniti e non divisi è un obiettivo, non un punto di partenza.]
Tra
le cause principali di questo stato del movimento comunista c’è il livello
raggiunto dalla sua coscienza: è all’altezza dei problemi e dei compiti che la
realtà pone di fronte ad esso? Stante il suo livello di sviluppo minimo e il
suo legame limitato con le masse, la risposta è no.
Il
superamento di questo limite non avverrà perché qualche mente “geniale” o
illuminata scoprirà la ricetta magica. Avverrà invece attraverso un processo di
unità e di lotta, di sintesi in unità superiore a cui ogni comunista, ogni
organizzazione e ogni partito è chiamato a partecipare.
È
necessario uno sforzo soggettivo, cosciente da parte di ogni componente del
movimento comunista per unirsi in un’unica forza organizzata, in un unico
partito comunista che sia insieme strumento di elaborazione teorica, strumento di organizzazione e strumento di lotta.
Ancora
oggi le divisioni interne al movimento comunista riguardano aspetti specifici
della concezione del mondo, del ruolo dei comunisti stessi e della via
rivoluzionaria. Indubbiamente esistono teorie giuste e teorie sbagliate; teorie
che se poste alla testa delle lotte delle masse popolari portano esse alla
vittoria o alla sconfitta. La lotta ideologica tra le varie componenti del
movimento comunista è uno strumento fondamentale del suo sviluppo. Le forme di
questa lotta sono però certamente un problema a cui non abbiamo ancora dato una
risposta chiara.
Se
è vero che per unirsi occorre definirsi con chiarezza, è altrettanto vero che
in 40 anni di “definizione” (cioè di divisione del giusto dallo sbagliato) il
movimento comunista, in particolare quello dei paesi imperialisti, si trova
oggi senza un partito comunista rivoluzionario e legato alle masse e senza una
teoria unitaria e prevalente. Non è la
necessità di definirsi che va messa in discussione, bensì il processo
attraverso il quale abbiamo supposto che dovesse procedere la definizione del
nostro impianto teorico quale guida della pratica. In questo processo abbiamo
privilegiato costantemente la divisione e posto costantemente in secondo piano
l’unità; abbiamo trattato in modo sbagliato il rapporto dialettico tra questi
due elementi: lo dimostrano i risultati, al di là di ogni arzigogolata
obiezione.
Nel
nostro paese, che conta oltre 60 milioni di abitanti, di cui 22 milioni sono
lavoratori e tra essi 7 milioni sono operai, l’attuale movimento comunista è
composto da qualche decina di organizzazioni che contano complessivamente forse
meno di 1000 militanti effettivi, divisi tra loro e raramente capaci di unire
le rispettive forze in iniziative comuni ed efficaci, per non parlare della
capacità di unirsi in un unico partito comunista.
Non
è questo un piagnisteo sulla nostra miseria, è una constatazione concreta che vuole rompere con l’autoesaltazione
astratta e fare i conti con i limiti per superarli. Non conta se il bicchiere è
mezzo pieno o mezzo vuoto: quello che conta è che dobbiamo riempirlo!
Gli
operai e i lavoratori che si arrabattano contro gli attacchi sempre più intensi
da parte dei padroni, ci guardano più delusi che persuasi: riconquistare la
loro fiducia è e sarà un’opera lunga e difficile. Mentre oggi questi operai e
questi lavoratori hanno bisogno di un sostegno concreto ed efficace. Le loro
lotte, nonostante siano ancora sviluppate principalmente sotto la direzione di
forze legate o comunque ancora troppo imbrigliate agli interessi della classe
dei padroni, sono il terreno ricco di insegnamenti da cui possiamo ricavare la
via giusta per il superamento anche della nostra divisione.
Ovunque
l’attacco dei padroni contro gli operai e i lavoratori provoca una crescente
incertezza per il futuro, la perdita del lavoro, l’impossibilità di ricavare
per sé e per la propria famiglia quanto necessario per vivere. La risposta a
questo attacco va crescendo anche nel nostro paese. Gli operai e i lavoratori
di decine di aziende si mobilitano in difesa del posto e delle condizioni di
lavoro. Su questo terreno numerosi compagni si mobilitano in solidarietà con
coloro che vengono colpiti. Questo è un terreno fondamentale per l’esperienza
di lotta e per il processo di unità delle forze rivoluzionarie che i comunisti
devono favorire.
Il
primo passo che dobbiamo compiere è adottare un diverso processo di
unificazione che ponga al primo posto l’esperienza pratica di sviluppo del
legame con le masse, adottando i dati concreti ricavati dal bilancio di questa
esperienza e la loro analisi scientifica come elemento dimostrativo della
giustezza o meno delle linee applicate e puntando al superamento delle
divisioni solo a seguito - non a priori - dell’esperienza comune
e del suo bilancio.
Diverse
organizzazioni del movimento comunista nel nostro paese (per fare alcuni esempi
citiamo Lotta e Unità, Rete dei Comunisti, Proletari Comunisti, Comunisti
Uniti, Piattaforma Comunista, Centro di Cultura e Documentazione Popolare,
ecc.) stanno trattando con un certo impegno il problema della nostra
frammentazione. Incontri, attività comuni, dibattiti tra diverse organizzazioni
stanno creando un terreno favorevole
all’unificazione di quelle forze che, se pur su posizioni differenti, lavorano
per abbattere il capitalismo e costruire il socialismo.
Nota 58
[Non condivido questo ottimismo di PUC: non vedo come
possano incontrarsi una forza che si dichiara maoista come Proletari Comunisti,
che è profondamente economicista, con una come Teoria e Prassi, che è marxista
leninista e antimaoista, e che ritiene la teoria una cosa da dire, più che uno
strumento per fare, motivo per cui noi la poniamo senz’altro tra i dogmatici.
L’idea, poi, che quando arriva la crisi ci si unisce,
si lasciano da parte le divisioni, come se le divisioni fossero un lusso per i tempi di vacche grasse, è
sbagliata. Quando le cose vanno storte se non c’è una forza che si pone chiaramente
come guida allora è il momento in cui le varie forze che ieri erano divise si
divideranno ancora di più, perché il terreno a loro disposizione andrà
restringendosi, e lotteranno più aspramente ciascuna per tenersene una fetta.]
A
nostro avviso questo processo deve svilupparsi e approfondirsi portandovi il
più possibile all’interno il confronto aperto sui risultati concreti del lavoro
e del ruolo svolto da noi comunisti 1. nel rapporto con le masse, 2. nel
rafforzamento del movimento comunista e in particolare nel processo di
costruzione del partito, 3. nello spostamento dei rapporti di forza rispetto al
nemico di classe.
Nota 59
[E’
tautologico: l’unità (cioè l’unificazione entro il partito) si dà attraverso il
confronto “nel processo di costruzione del partito”. Il confronto, in
definitiva, dovrebbe darsi sui risultati concreti. Nessuna unità sulla base di
una valutazione scientifica dell’esperienza della lotta di classe, in base alla
quale osare esplorare terreni nuovi (fare la rivoluzione in un paese
imperialista), ma solo unità “dopo” i risultati concreti. Insomma, per convincervi
dobbiamo vincere.]
COSTRUIAMO IL COMITATO NAZIONALE DI
UNITA’ MARXISTA-LENINISTA!
Partito Comunista
Italiano Marxista-Leninista -
Piattaforma Comunista
COSTRUIAMO IL COMITATO
NAZIONALE DI UNITA’ MARXISTA-LENINISTA!
Ai marxisti-leninisti,
alla classe operaia, alle masse lavoratrici, alle donne e ai giovani degli
strati
popolari e a tutte le
forze autenticamente rivoluzionarie.
La profonda e prolungata
crisi economica del capitalismo, la decomposizione del sistema borghese – che
oramai è sul viale del tramonto e quanto prima lo abbatteremo meglio sarà per
il genere umano - da cui origina un processo di trasformazioni reazionarie a livello
politico e istituzionale, la dittatura sempre più aperta e violenta
dell’oligarchia finanziaria, l’offensiva padronale in fabbrica e fuori, la
corruzione dilagante, il tradimento da parte del riformismo, della
socialdemocrazia e dei vertici sindacali – riposizionatisi apertamente e
sfacciatamente a difesa degli interessi della sopravvivenza e sopraffazione del
capitalismo finanziario e industriale nazionale e multinazionale - degli
interessi e delle aspirazioni operaie e popolari, spingono i comunisti
all’unità.
Nota 60
[Anche qui l’unità
dovrebbe essere effetto di fattori esterni, cioè ci dovremmo unire perché le cose vanno sempre
più storte. (Vedi sopra Nota 58) I comunisti sono spinti all’unità non dai mali
del presente, o per lo meno questo vale solo come fattore iniziale, che però si
esaurisce presto se non è sostituito dalla passione e dalla scienza per
costruire il futuro.]
Essa è indispensabile per
accrescere i legami con il movimento operaio e popolare, accumulare forze ed
esperienze necessarie a dirigere le masse sfruttate e oppresse verso la via di
uscita rivoluzionaria dal capitalismo, che è un modo di produzione morente che
deve essere abbattuto e sostituito dal socialismo, prima tappa del comunismo.
La lotta di classe si
acutizza e la classe operaia ha più che mai bisogno di una adeguata guida
ideologica, politica e organizzativa, che orienti e dia una direzione alle sue
lotte. Questa guida non può essere che la costruzione di un unico e grande
Partito comunista marxista-leninista, presente in campo con la sua battaglia di
classe e rivoluzionaria, visibile, riconoscibile dagli operai e dalle masse
lavoratrici.
La costruzione di un
grande Partito comunista di natura bolscevica ha la priorità rispetto a ogni
altra questione politica ed è determinante per avanzare sulla via dell’Ottobre
e del socialismo. I marxisti leninisti hanno il compito di promuovere e portare
avanti il processo di bolscevizzazione del proletariato italiano. Non solo in
Italia, ma in tutti i paesi della Terra senza la presenza di un forte Partito
bolscevico, costruito secondo le direttive di Lenin e Stalin, non sarebbe
possibile nessun’altra rivoluzione proletaria vittoriosa come quella del grande
e glorioso Ottobre e, dunque, nessuna prospettiva concreta per il socialismo.
Le alleanze di classe e
rivoluzionarie da costruire devono essere finalizzate alla conquista del
socialismo nel nostro paese. Siamo coscienti che l’insediamento di un governo
rivoluzionario per la costruzione del socialismo può nascere solo dalla vittoriosa
rivoluzione socialista e dalla conquista del potere politico, economico e
sociale da parte del proletariato. Ogni alleanza strategica deve scaturire da
tale metodo di lavoro e prospettiva e ogni alleanza tattica non deve mai
offuscare o limitare quella strategica.
Purtroppo nel nostro
paese, mentre le condizioni obiettive sono favorevoli allo sviluppo
dell’iniziativa e dell’intervento comunista, il fattore soggettivo rimane
debole. Le ragioni sono numerose. Fra di esse la pesante eredità del revisionismo
(in Italia agiva il maggiore partito revisionista occidentale, cioè il PCI, e
ne sono ancora presenti i suoi frammenti), la debolezza teorica e il permanere
di pratiche erronee, il localismo, il settarismo, l’ultrasinistrismo,
l’aristocrazia sindacale e altro.
Bisogna dunque lavorare
per ridurre la forbice fra condizioni oggettive e fattore soggettivo, poggiando
su una base corretta ed avanzando verso l’unità dei comunisti, verso un unico
Partito comunista del proletariato.
Tale Partito comunista
marxista-leninista si forgia all’interno di un processo determinato dagli
sviluppi della lotta di classe sul piano nazionale e internazionale, man mano
che si pongono all’ordine del giorno le questioni fondamentali. Prende forma
nel dibattito e nel lavoro in comune fra i comunisti e i migliori elementi del
proletariato, attraverso una battaglia sul terreno teorico, politico e
organizzativo, in cui si determinano spostamenti e aggregazioni, si affermano
concezioni e pratiche rispondenti ai compiti strategici e tattici che il
proletariato deve affrontare nella situazione concreta.
Per avanzare su questa
strada, il Partito Comunista Italiano Marxista-Leninista e Piattaforma
Comunista decidono di costituire il Comitato Nazionale di Unità
Marxista-Leninista (CONUML).
Esso si basa su alcuni
principi fondamentali del comunismo:
La natura di classe,
rivoluzionaria e bolscevica del Partito, organizzato sulla base di un rigoroso
centralismo democratico, con l’elettività di tutti gli organi dirigenti del
Partito dall’alto al basso, con il rendiconto periodico dell’attività degli
organi dirigenti, con la ferrea disciplina unica di Partito e la sottomissione
della minoranza alla maggioranza, con l’obbligo incondizionato di applicare le
decisioni degli organi superiori da parte degli organi inferiori e di tutti i
membri del Partito, e l’incompatibilità con l’esistenza di frazioni.
Il riconoscimento della
dittatura del proletariato, che è il contenuto essenziale della rivoluzione
proletaria.
L’affermazione della
natura rivoluzionaria della conquista del potere politico da parte del
proletariato, e nella fase di costruzione della società socialista,
l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione e di scambio, la
loro socializzazione, la liquidazione di ogni sfruttamento dell’uomo sull’uomo,
la pianificazione economica e il controllo operaio, al fine di soddisfare le
crescenti esigenze materiali e culturali dell’intera società.
La condanna senza
appello del rovesciamento della dittatura del proletariato e della
restaurazione del capitalismo, ad opera dei revisionisti, dei trotschisti e di
tutti i nemici del socialismo.
La lotta per la
sconfitta ideologica e politica del revisionismo, dell’opportunismo,
dell’economicismo, del socialdemocraticismo, del movimentismo, del pacifismo e
dell’estremismo.
L’internazionalismo
proletario.
Il CONUML è composto dai
rappresentanti dei partiti e delle altre organizzazioni di classe e
rivoluzionarie che saranno ammessi a farne parte. In una prima fase il CONUML
avrà come suoi compiti:
a) creare un quadro
stabile di consultazione, scambio di esperienze e di informazioni tra le
organizzazioni marxiste-leniniste;
b) realizzare l’unità
d’azione dei marxisti-leninisti nella classe operaia e nelle masse lavoratrici,
tra i giovani e le masse popolari, dando vita a iniziative e interventi unitari
all’interno delle lotte politiche, sindacali e sociali, nelle ricorrenze del
movimento comunista ed operaio, a livello nazionale e locale, sulla base di
analisi e proposte condivise.
Nella situazione presente
riteniamo come compito urgente lo sviluppo di un’azione di sostegno alle lotte
operaie e popolari che si dirigono contro le criminali politiche imposte dal
capitale finanziario, che lungi dal risolvere la crisi economica sono dirette a
salvaguardare i profitti e i privilegi di una minoranza di sfruttatori e di
parassiti.
Svilupperemo pertanto una
multiforme attività politica di unità e di lotta, di indispensabile azione
comune degli operai e degli altri lavoratori sfruttati contro la classe dei
capitalisti e i loro governi borghesi e clericali, coopereremo alla loro
organizzazione e allo sviluppo della coscienza di classe, ci sforzeremo di
precisare le rivendicazioni economiche e politiche parziali e complessive a
favore degli operai, in stretta connessione con gli scopi di questa lotta: il
passaggio rivoluzionario del potere nelle mani del proletariato e dei mezzi di
produzione in proprietà sociale.
Per quanto riguarda
l’attività editoriale e l’approfondimento di problemi teorici e storici
relativi al movimento operaio e comunista, al marxismo-leninismo e all'attuale
situazione italiana e internazionale, il CONUML riconoscendone l’importanza in
stretto rapporto con la prassi rivoluzionaria e i compiti di lotta in campo
ideologico e politico darà vita a specifiche iniziative in questo campo.
I compiti del CONUML si
basano sulle condizioni oggettive oggi esistenti e rispondono a una necessità:
l’unificazione e la riorganizzazione dei comunisti, che si concretizzano in
modo particolare nel vivo dello scontro di classe, nella mobilitazione della
classe operaia e delle masse lavoratrici e negli strati popolari, legando i
nostri scopi strategici alle lotte quotidiane.
Con la sua attività il
CONUML esprimerà, dunque, coscientemente la necessità dell’unità e
dell’organizzazione nella lotta del proletariato per la conquista
rivoluzionaria del potere politico e la costruzione del socialismo. Ciò
significa che la nostra unità viene a costituirsi su una precisa base di classe
e rivoluzionaria e la nostra attività volta all’abolizione dello sfruttamento
dell’uomo sull’uomo dovrà essere fusa con il movimento operaio e popolare che
sorge dalle contraddizioni create dal capitalismo.
Il CONUML si misurerà con
l’esigenza insopprimibile dell’unione dei comunisti in un unico e forte Partito
comunista che sorga sulle granitiche basi del marxismo-leninismo e
dell’internazionalismo proletario. Perciò lavorerà per chiarire e precisare le
premesse ideologiche, organizzative e programmatiche del futuro Partito unitario
indipendente e rivoluzionario del proletariato, spingendo alla rottura
ideologica, politica e organizzativa con i partiti e i gruppi revisionisti e
opportunisti e favorendo l’aggregazione delle realtà comuniste e degli elementi
avanzati della classe operaia per farlo crescere.
Il CONUML che oggi
costituiamo sarà composto dai rappresentanti dei partiti e delle altre
organizzazioni di classe e rivoluzionarie che vogliono farne parte aderendo
alla presente dichiarazione, lavorando regolarmente al suo interno, attuando le
sue deliberazioni e svolgendo propaganda per il suo sviluppo.
Il CONUML è aperto al
dibattito e all’aggregazione di altre forze marxiste-leniniste e allo sviluppo
di un vero e proprio grande Partito comunista marxista-leninista organizzato, a
condizione che le realtà organizzative che vi aderiranno non abbiano nel loro
programma posizioni contrarie o divergenti dalla base ideologica che ci siamo
dati e non pratichino una politica in contrasto coi principi del marxismo
leninismo.
I singoli compagni
comunisti potranno partecipare al CONUML per il tramite delle forze che ne
faranno parte.
Per quanto riguarda il
metodo di lavoro esso si baserà sulla collegialità, sulla discussione
rispettosa delle diverse posizioni, cercando di raggiungere l’unanimità e solo
in ultima analisi applicando il principio guida della maggioranza e della
minoranza. Chi non si troverà d’accordo su talune decisioni avrà il diritto di
non applicarle, poiché il CONUML non è un’organizzazione politica unica.
In altre parole, i partiti
e le altre organizzazioni aderenti al CONUML sino al raggiungimento dell’unità
ideologica e politica organica continueranno a mantenere la propria
indipendenza e autonomia, vincolandosi unicamente alle iniziative e alle azioni
unitarie assunte ed accordandosi piena e reciproca solidarietà.
Il lavoro del CONUML
servirà, nelle condizioni attuali, a dare ulteriore impulso al processo di
unità dei marxisti-leninisti ed a segnare in modo più incisivo la nostra
presenza nelle lotte che si sviluppano nel nostro paese, sviluppando allo
stesso tempo un rapporto più consistente e maturo con il movimento comunista ed
operaio internazionale, in particolare con la sua espressione più elevata e
coerente: la Conferenza Internazionale di Partiti e Organizzazioni Marxisti-Leninisti.
Chiamiamo tutti i
partiti, le organizzazioni e i gruppi marxisti-leninisti, tutte le forze
autenticamente rivoluzionarie alla più netta, completa e definitiva rottura col
revisionismo e l’opportunismo, a farla finita con il settarismo e il localismo
e a manifestare la volontà di unirsi nel CONUML per rafforzare il processo di
unità dei comunisti e gettare le basi di un solo, forte Partito comunista
marxista-leninista, strumento nelle mani del proletariato per la conquista
della società comunista!
Settembre 2013
Per contatti e
informazioni:
info@pciml.org
Una proposta di lavoro per l’unità
dei comunisti (marxisti-leninisti)
[Tratto da Scintilla -
giugno 2013]
Una proposta di lavoro
per l’unità dei comunisti (marxisti-leninisti)
Il convegno realizzato in
occasione del 60° anniversario della morte del compagno Stalin è stato un
piccolo, ma significativo esempio di come si può agire in controtendenza alla
frammentazione e alla dispersione del movimento comunista, collaborando sulla
base di giusti principi.
Ciò ci spinge ad andare
avanti su questa strada.
La proposta che ora
avanziamo per l’unità di azione dei comunisti muove da alcune premesse.
In primo luogo, riteniamo
che la crisi economica di lunga durata del capitalismo, la decomposizione del
sistema politico e istituzionale, le gravi difficoltà politiche e organizzative
del riformismo e della socialdemocrazia, aprono possibilità e spazi di lavoro
importanti per i comunisti.
In secondo luogo, vi sono
pressanti ragioni storiche e sociali, profonde cause, fra cui la stessa
offensiva capitalista, che creano le basi dell’unità dei comunisti, facendone
una necessità tattica e strategica, più che un’opzione fra le tante.
Mentre le condizioni
obiettive sono favorevoli allo sviluppo del nostro lavoro, nel nostro paese il
fattore soggettivo rimane molto debole, non permettendo così di accrescere
significativamente i legami con il movimento operaio, accumulare forze ed esperienze
rivoluzionarie.
Le ragioni sono numerose,
fra di esse: la pesante eredità del revisionismo, il permanere di concezioni e
pratiche erronee, la frammentazione, il localismo, il settarismo, etc.
Bisogna dunque compiere
dei passi per ridurre la forbice fra condizioni oggettive e fattore soggettivo,
avanzando verso l’unità organica dei comunisti, verso un unico partito
comunista del proletariato.
Chiaramente un partito di
tipo leninista non si inventa, non sorge in una notte. Si forgia all’interno di
un processo determinato dagli sviluppi della lotta di classe sul piano
nazionale e internazionale, man mano che si pongono all’ordine del giorno le
questioni fondamentali. Prende forma nel dibattito e nel lavoro in comune fra i
marxisti leninisti e i migliori elementi del proletariato, attraverso una
battaglia sul terreno teorico, politico e organizzativo, in cui si determinano
spostamenti e aggregazioni, si affermano concezioni e pratiche rispondenti ai
compiti strategici e tattici che il proletariato deve affrontare nella
situazione concreta.
Secondo la nostra
opinione, per procedere su questa strada è oggi possibile e necessario dar vita
a un “Comitato di Unità Marxista-Leninista” composto dai rappresentanti dei
partiti, organizzazioni, gruppi, associazioni, redazioni, etc. che ne vorranno
far parte.
Esso dovrà basarsi su
alcuni principi fondamentali, che abbiamo definito nell’appello e
nell’introduzione comune del Convegno, a cui rimandiamo.
Stabiliti questi punti di
partenza, a cosa dovrebbe servire l’organismo di lavoro politico che
proponiamo?
A nostro avviso, in una
prima fase:
a) a creare un quadro
stabile di consultazione, scambio di esperienze e di informazioni;
b) a realizzare l’unità
di azione dei comunisti nella classe operaia e nelle masse popolari, dando vita
a iniziative e interventi unitari all’interno delle lotte politiche, sindacali
e sociali, nelle ricorrenze del movimento comunista ed operaio, a livello
nazionale e locale, sulla base di analisi e proposte condivise.
I compiti dell’organismo
che proponiamo si basano sulle condizioni oggettive oggi esistenti e rispondono
a una necessità: l’unificazione e la riorganizzazione dei comunisti si
concretizzano nel vivo dello scontro di classe, nella mobilitazione della
classe operaia e delle masse popolari, legando i nostri scopi strategici alle
lotte quotidiane.
Allo stesso tempo questo
organismo di lavoro avrà il compito di esprimere coscientemente la necessità
dell’unità e dell’organizzazione nella lotta del proletariato per la conquista
del potere politico e la costruzione del socialismo.
Ciò significa che la
nostra unità viene a costituirsi su una precisa base di classe.
Il Comitato che
prospettiamo dovrà esplicitamente misurarsi con la necessità dell’unione dei
comunisti in un unico e forte Partito comunista su salde basi
marxiste-leniniste.
Perciò nello sviluppo
della sua attività andranno chiarite e precisate le premesse ideologiche,
organizzative e programmatiche del futuro partito, spingendo alla rottura
ideologica, politica e organizzativa con i partiti e i gruppi revisionisti e
opportunisti, favorendo l’aggregazione delle realtà comuniste e degli elementi
avanzati della classe operaia per costruirlo.
La nostra proposta è aperta
al dibattito e all’aggregazione di più forze, allo sviluppo di un vero e
proprio movimento marxista-leninista organizzato, a condizione che le realtà
che vogliono aderire non abbiano nel loro programma posizioni contrarie o
divergenti dalla base ideologica che ci siamo dati e non pratichino una
politica in contrasto con i nostri principi.
In che modo si potranno
assumere decisioni? Con la collegialità, la discussione rispettosa delle
diverse posizioni, cercando di raggiungere l’unanimità e solo in ultima analisi
applicando il principio guida della maggioranza e della minoranza. In questa
fase riteniamo che chi non si troverà d’accordo su talune decisioni avrà il
diritto di non applicarle, poiché il Comitato non è un’organizzazione politica
unica. In altre parole, i partiti e i gruppi aderenti sino al raggiungimento
dell’unità organica continueranno a mantenere la propria indipendenza e
autonomia, vincolandosi unicamente alle iniziative e alle azioni unitarie
assunte.
Chiamiamo le realtà
marxiste leniniste ad esprimersi!
Rete dei Comunisti - IL MANIFESTO
POLITICO
IL MANIFESTO POLITICO
DELLA RETE DEI COMUNISTI
Siamo alla fine di un
lungo sonno. Dopo l’89 i reazionari avevano deciso che eravamo giunti alla fine
della Storia. Gli ideologi del postmoderno s’erano rapidamente accodati,
spiegando che i fatti erano in fondo solo opinioni, o che le contraddizioni materiali
del sistema economico in cui tutto il mondo vive si stavano smussando in un
grande impero progressista, senza lasciare troppi residui conflittuali. Il
desiderio di ogni classe dominante – «resteremo qui per sempre» – veniva
narrato come una realtà virtuale sotto gli occhi di tutti. Chi non la vedeva
era pazzo, vecchio, «ideologico» e fuori dal mondo. La crisi ha strappato il
velo: il re è nudo. E zoppica pure vistosamente.
E’ quindi possibile oggi
– sul piano del pensiero teorico, ma soprattutto su quello dello scontro
sociale e politico – mettere in moto nuove energie intellettuali e fisiche,
innervare con pensiero lungimirante i processi sociali che pretendono un
cambiamento radicale. E’ possibile riannodare i fili della riflessione critica
e promuovere l’organizzazione ex novo di una soggettività antagonista capace di
formulare risposte all’altezza dei tempi. Dopo venti anni di capitalismo
vittorioso e pensiero unico trionfanti, la Storia ha ripreso a correre. Guai a
chi cammina o resta fermo a giocare con le macerie.
1. DALLA
FINANZIARIZZAZIONE ALLA CRISI DI SISTEMA
Gli equilibri mondiali
emersi negli anni ’90, dopo la fine del «socialismo reale», sono oggi tutti in
discussione.
Il periodo della
finanziarizzazione sembra aver esaurito la sua spinta propulsiva aprendo un
nuovo scenario carico di pericoli, ma soprattutto di potenzialità.
L’instabilità è ormai la condizione generale dello sviluppo sociale, politico e
internazionale. L’Occidente – fin qui soggetto centrale dell’imperialismo – si
trova ad affrontare un trauma senza precedenti.
L’irrazionalità
capitalista emerge con chiarezza dalla distruzione di ricchezza, diritti,
culture che ne avevano caratterizzato il periodo di espansione; mette fine al
post-bellico «compromesso tra capitale e lavoro» e il degrado sociale investe
ora direttamente i settori di classe interni ai paesi più avanzati. La crisi
occupazionale, la precarietà generalizzata, il calo dei redditi da lavoro, la
devastazione ambientale dei territori e la fine di ogni tutela sociale o
legale, fino all’eliminazione dei diritti sociali e di quelli di genere, sono
effetti che si riproducono con molte somiglianze a livello mondiale.
Sullo sfondo di questa
regressione generalizzata, di questa autentica crisi di civiltà, traspare ora
con nettezza il lavorìo della contraddizione fondamentale tra sviluppo delle forze produttive e
rapporti sociali di produzione. Se la vogliamo dire in parole semplici,
la potenza immane del sistema industriale esistente ha preso a girare a vuoto
nel momento in cui lo scopo del produrre – il profitto – è diventato troppo
«miserabile» per andare oltre. Questa potenza permetterebbe di sfamare fino
alla sazietà l’umanità intera. Permetterebbe di ridurre il tempo di lavoro
individuale a una frazione accettabile delle 24 ore, liberando tempo di vita
per ciascuno. Ma un impiego socialmente utile di questa potenza implica un
rovesciamento completo delle finalità della produzione, che parte dal chi
decide cosa produrre, ridisegna il come farlo e come si ridistribuisce la
ricchezza prodotta.
Lo strappo violento della
crisi sistemica mette davanti agli occhi di tutti quella lampante
contraddizione: si potrebbe fare di tutto, ma non possiamo fare nulla. E ci
chiedono di subire, cercando di dividere chi è obbligato a lavorare sempre di
più e chi deve inginocchiarsi per chiedere un lavoro. L’ostacolo diventa
evidente: la proprietà degli strumenti, dei mezzi, delle macchine con cui si
produce è in mano a pochi. E’ privata nel duplice senso: appartiene solo ad
alcuni, tutti gli altri ne sono privi.
Quando questa
contraddizione riemerge dal sottosuolo delle stratificazioni e diviene
sensibile alla percezione comune si pongono, in senso quasi «tecnico», le
condizioni oggettive per un’epoca di rivoluzioni sociali. La partita del potere
si apre, senza soluzioni predeterminate. Ogni classe e ogni opzione politica fa
il suo gioco. Ma il risultato, marxianamente, dipende da come si gioca.
Questa contraddizione che
alimenta, dunque, il conflitto capitale lavoro nelle sue forme attuali e
mondializzate, dà corpo materiale a quell’internazionalismo della classe che il
movimento comunista ha sempre avuto come riferimento ma che, negli ultimi
decenni, ha diluito in una solidarietà internazionalista doverosa ma sempre più
generica perché confusa nelle sue finalità di classe.
Siamo insomma di fronte a
un passaggio cruciale che – fra progressivo impoverimento in Occidente e
contestuale sviluppo di altre aree
– determina modificazioni
sostanziali anche nelle figure che concretamente operano dentro i singoli
contesti nazionali e continentali.
La distruzione di ogni
futuro per le giovani generazioni, la contrapposizione tra aspettative e
realtà, accompagna la svalorizzazione di quelle funzioni produttive di
carattere intellettuale che, da sempre, venivano considerate privilegiate e
parti integranti del blocco sociale dominante.
Ma si presentano oggi
altri limiti che il capitale non ha voluto o saputo considerare. La
devastazione dell’ambiente e l’utilizzo dissennato delle risorse non
riproducibili del pianeta – in diversi casi vicine o oltre il punto di non
ritorno – si vanno ad aggiungere alla resistenza opposta dalla forza-lavoro.
Secondo diversi
indicatori attendibili, ci troviamo già oggi molto vicini al punto in cui la
devastazione ambientale ed il saccheggio indiscriminato della natura porta
all’irreversibile esaurimento delle risorse. Questi due problemi, dunque, vanno
collocati fin da subito dentro la prospettiva – e il programma – della
trasformazione radicale dell’esistente. I popoli dell’America Latina ci sono
arrivati per primi. E’ bene impararne la lezione.
Tale accumulo di
contraddizioni non è più sopportabile neanche per la democrazia borghese.
Vediamo in ogni paese dell’Occidente, sotto la pressione della crisi, avanzare
una nuova idea di gestione del potere mutuato direttamente dalla cultura
d’impresa. La governance viene a sostituire la ricerca della mediazione tra
interessi diversi, funzione storica della democrazia parlamentare. La
governabilità – per restare dentro gli asfittici confini italiani – è uno
schiacciasassi che non tollera più i limiti posti dalla Costituzione
antifascista. Si crea perciò una situazione contraddittoria: per un verso è
indispensabile difendere ed estendere gli spazi democratici e difendere la
Costituzione, per l’altro questa difesa impedisce di pensare un equilibrio
sociale più avanzato, che vada oltre quei confini e un equilibrio sociale
superato nei fatti.
Nota 61
[Perché contraddittoria?
La difesa degli spazi democratici eccetera è uno dei campi di battaglia
concreti per guardare oltre. Il modo di
produzione capitalista non consente l’estensione e in dati casi nemmeno il
mantenimento degli spazi democratici, motivo per cui nella lotta per mantenerli
riconosciamo (le masse popolari riconoscono) i limiti di tale modo di
produzione. Chi li sa prima, quei limiti, è bene si costituisca come partito
comunista clandestino.
Nella parte precedente questo passaggio, la Rete descrive
la contraddizione tra carattere collettivo delle forze produttive e proprietà
privata dei rapporti di produzione, anche se lo fa in modo per cui capisce solo
chi già sa. Comunque, con il porre la questione la Rete si distingue da tutti
quelli che tale contraddizione non ammettono, cioè i seguaci della Scuola di
Francoforte nella varie versioni in cui si presentano.]
La sfera politica,
interna e internazionale, si mostra impotente davanti al potere devastante di
organismi economici sovranazionali, di fatto irresponsabili di fronte a
qualsiasi conseguenza sociale o nazionale e del tutto privi di «legittimità
democratica». Lo scontro passa oggi per linee interne agli assetti dominanti,
lungo le rime di frattura che si vanno creando nei rapporti tra imprese
multinazionali, poteri statuali di forza altamente diseguale (la Cina non si fa
certo «comandare», a differenza di paesi più piccoli), aree geostrategiche un
tempo di importanza secondaria. Le possibilità di conflitto (interimperialista,
anti-colonialista o anti-neocolonialista, di emancipazione complessiva – vedi
il mondo arabo all’inizio del 2011) si vanno moltiplicando senza trovare
nessuna istanza politica globale che possa corrispondere, sia pure
imperfettamente, all’inestricabile interconnesione delle economie.
L’impossibilità di un
«keynesismo del ventunesimo secolo» nasce qui. Ogni tentativo di riproporlo su
base nazionale non può che accelerare – come negli anni ‘30 del secolo scorso –
la prospettiva della guerra. Ma se non si può gestire in modo razionale
l’economia, la politica diventa un luogo di gestione puramente passiva di
vincoli decisi altrove. Non c’è quindi da stupirsi se assistiamo a un degrado
etico e morale di dimensioni mai viste. E non parliamo certo solo dell’Italia
berlusconiana.
Il pericolo della guerra
appare in tutta la sua evidenza se si tiene conto che – a fronte della profonda
crisi dell’imperialismo classico – si va affermando una crescita impetuosa dei
paesi della periferia produttiva, dall’Asia all’America Latina, che rimette in
discussione gli equilibri strategici del pianeta. L’espansione delle economie
emergenti aveva fin qui permesso al «centro» una tenuta economica, sociale e
politica, basata su uno scambio non esplicito: salari fermi, ma merci base a
prezzi inferiori o bloccati. Ora queste aree hanno un’autonomia relativa che
permette anche un maggiore protagonismo politico. E’ un grande cambiamento, la
dimostrazione delle grandi opportunità offerte dalla crisi. Non certo prive di
rischi.
Nota 62
[La Rete segnala il
“pericolo della guerra”, mentre a una considerazione scientifica, della crisi
come crisi generale per sovrapproduzione assoluta di capitale, la guerra è uno
sbocco necessario. È molto diverso considerare la guerra come una possibilità o
una certezza. La si considerasse una certezza, si potrebbe vedere che tale non
è, perché non ci sarà se i comunisti sapranno costruire la rivoluzione. In
questo modo si esce dal mondo del vago e del possibile.
Ci si unisce su alcune
linee guida che per quanto generali sono certe. Insisto qui sulla critica sopra
avanzata al collettivo Aurora, che apprezza più chi non ha linea di chi
dichiara di averla: ci si unisce non nello stare (stare in un posto, in un
recinto, in una riserva, in una istituzione culturale, in un centro sociale
occupato, in un partito) ma nell’andare, e per andare ci vuole una linea. Ogni
andare, ogni movimento, anche quello più cieco, segue una linea, retta, curva o
di altro genere. La linea è una direzione di marcia, e come possiamo unirci e
unire a noi le masse senza una minima direzione di marcia?]
2. APPRENDERE DALLA
STORIA. UNA QUESTIONE DI METODO
Siamo davanti a una crisi
sistemica, dicevamo. Ma nessuna crisi, per quanto violenta, produce da sola la
«crisi finale» del modo di produzione capitalistico. Per quanto devastanti
possano esserne gli effetti, il «salto epocale» di sistema richiede un
intervento soggettivo: ovvero una classe e un progetto. E se, all’inizio del
movimento operaio, la visione globale era il portato soprattutto di un’analisi
scientifica, oggi sono diventate visibili le condizioni comuni che
caratterizzano non solo la forza lavoro in ogni paese del mondo, ma anche i
limiti posti dall’ambiente e dalle risorse non riproducibili a una «ripresa»
non traumatica del business as usual.
Ogni fideistica attesa
della «catastrofe» che dovrebbe consegnarci un «nuovo mondo» va perciò
allontanata come la peste. Così come ogni illusione – tipica delle «sette»
politico-religiose – che «le masse» possano improvvisamente accorgersi che c’è
già pronta una «linea giusta» pronta a guidarle.
Nota 63
[Critica del
dogmatismo e della concezione della “rivoluzione che scoppia”. Gramsci critica
in questo modo quelli che aspettano la catastrofe economica come momento in cui
le masse popolari cadranno tra le loro braccia:
“Naturalmente nella scienza storica l‘efficacia
dell‘elemento economico immediato era ben più complessa di quella che non fosse
quella dell‘artiglieria campale nella guerra di manovra, poiché esso era
concepito come avente un doppio effetto:
1°) di aprire il varco nella difesa nemica dopo aver
scompaginato e fatto perdere la fiducia in sé e nelle sue forze e nel suo
avvenire al nemico stesso;
2°) di organizzare fulmineamente le proprie
truppe, di creare i quadri, o almeno di porre i quadri esistenti (elaborati
fino allora dal processo storico generale) fulmineamente al loro posto di
inquadramento delle truppe disseminate; di creare fulmineamente la
concentrazione dell‘ideologia e dei fini da raggiungere.
Era una forma di ferreo determinismo economistico,
con l‘aggravante che gli effetti ne erano concepiti come rapidissimi nel tempo
e nello spazio: perciò era un vero e proprio misticismo storico, l‘aspettazione
di una specie di fulgurazione miracolosa.”(1) ]
NOTE
1. (Quaderno 13, Nota 24, in QC, p. 1614)
La Storia ci insegna che
– anche nelle fasi di grande confusione che possono sfociare in cambiamenti
rivoluzionari – il risultato non è mai già scritto: Reazione e Rivoluzione sono
entrambe in campo. E non possiamo negarci che i rapporti di forza oggi sono
enormemente squilibrati; e non siamo noi quelli in vantaggio. Quella che
abbiamo di fronte è quindi solo la possibilità della transizione. Un’occasione
fornita dalla portata della crisi, non certo dalla soggettività politica oggi
disponibile a livello globale. Perché è chiaro a tutti che – in una crisi
sistemica – l’ordine di grandezza del problema della trasformazione si pone a
questo livello. Per quanto ci riguarda più da vicino, dunque, almeno a livello
europeo.
Quello della
soggettività, in effetti, è stato un autentico punto di crisi del Socialismo
sul finire del XX secolo. Tante le cause, di ordine sia storico che teorico.
Potremmo elencarne molte, a partire dall’arretratezza della Russia
pre-sovietica e dal peso che quell’arretratezza ha avuto – marxianamente – nel
delineare i caratteri salienti del «socialismo possibile» nella prima metà del
‘900. Limiti che nulla tolgono all’assalto al cielo compiuto nel secolo
passato, con centinaia di milioni di uomini e di donne, popoli interi, capaci
di reagire alla barbarie imperialista e a due guerre mondiali. Un patrimonio
inestimabile su cui scarsa è stata l’analisi e l’elaborazione teorica, tanto
più indispensabile alla luce dell’autentico «crollo» verificatosi alla fine
degli anni ‘80 e che non può certo essere ascritto a errori contingenti.
Percorso da cui peraltro si distinguono, per motivi diversi, sia l’ircocervo
cinese che la resistenza cubana.
Nota 64
[Bilancio molto
frettoloso, questo. Sul perché non si è fatta la rivoluzione nei paesi
imperialisti nemmeno l’ombra di un pensiero. Non si è fatta, e questo è tutto.
Le prospettive in avanti non sono quindi nemmeno intraviste. L’analisi e
l’elaborazione teorica sull’argomento da parte della carovana del (n)PCI è
ignorata. Un dirigente della Rete a un dirigente del Partito dei CARC disse che
era perché scriviamo cose troppo lunghe. La Rete, però, riduce il bilancio del
movimento comunista che abbiamo alle spalle a poche righe, e a poca parte del
pianeta. ]
I partiti che, specie in
Italia, hanno gestito il «tesoretto» elettorale ereditato dal PCI, hanno
preferito invece lucrare sulla simbologia e la retorica, mentre si adattavano
senza troppi problemi a un’idea di governo come amministrazione dell’esistente.
Grande è, da questo punto
di vista, la responsabilità, nel nostro paese, di chi si è intestato la
Rifondazione Comunista, ma, nei fatti, ha lavorato per la rimozione e la
demonizzazione di quell’esperienza, ignorando scientificamente un approccio
critico (anche radicale) ma che rimanesse dentro il solco del pensiero marxista
e del movimento operaio internazionale.
3. QUALE SOCIALISMO DEL
XXI SECOLO?
La Storia non è però un
archivio di soluzioni già pronte all’uso per affrontare i problemi dell’oggi,
suggerisce analogie, fornisce spunti, avverte sui possibili errori. Ma in essa
nulla si ripete, se non come farsa.
Non siamo un setta che
attende la terra promessa. Non abbiamo in tasca un talismano che ci protegga
dagli errori e ci guidi nelle scelte dure che la realtà pone ogni giorno.
Dobbiamo perciò dire con chiarezza che per noi “il comunismo non è uno stato di
cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà
conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di
cose presente. Le condizioni di questo movimento risultano dal presupposto ora
esistente”.
E’ insomma un principio
attivo, un motore di conflitto, un prodotto dell’esistente e al tempo stesso
ciò che la trasforma. Ogni “progetto” che non tenga conto della realtà
empirica, fuori dai processi di organizzazione e mobilitazione di massa, è solo
un sogno.
Il presente globale ci
fornisce innumerevoli esempi di conflitto, in forme anche impensabili solo 30
anni fa (i movimenti integralisti, per dirne solo una). Ma certo non ci dà più
un “modello” di riferimento sul tipo di approdo, desiderabile o possibile,
della trasformazione sociale. Si può vivere questa “libertà di pensare” con
angoscia o come un formidabile stimolo per mettere al lavoro la capacità creativa.
Per guardare in faccia la realtà e cercare in essa le soluzioni, le strade del
cambiamento, i punti di frattura nel muro dello sfruttamento.
L’America Latina, anche
grazie al ruolo storico di Cuba, ci consegna un esempio di quest’ultimo tipo.
Le soluzioni differenti da un paese all’altro, 30 anni fa, sarebbero facilmente
state tacciate di “riformismo”, oppure di “localismo”, “etnicismo” e così via.
E invece sono oggi l’avanguardia del “movimento reale che abolisce lo stato di
cose presente”, perché sono riuscite a mettere in radicale discussione il
dominio dell’imperialismo USA proprio nel loro “cortile di casa” e a
determinarsi in chiave anticapitalista.
Non possiamo dire – né
loro lo dicono – che lì ci si trovi di fronte al “superamento del modo di produzione
capitalistico”. Ma l’emersione di questa nuova realtà ha vivificato i movimenti
di classe in varie parti del mondo, è diventata il luogo privilegiato dei
social forum, aggregando forme di attivismo politico e sociale che altrimenti
resterebbero disperse e non comunicanti. Fornisce spunti, idee nuove, ricchezza
di soluzioni originali, spesso uniche e irripetibili. Indicano una strada
concreta in direzione del socialismo possibile in quelle condizioni date.
Rimettono lo sviluppo economico con i piedi per terra, dandogli finalità di
eguaglianza e recuperando un rapporto sano con la natura, i suoi tempi, i suoi
limiti. Ma soprattutto ricorda a tutti che nessuna idea può esser “giusta” se
non sa conquistare il cuore e la mente di sfruttati e diseredati.
Altrettanto importante è
anche la ripresa del movimento comunista in Asia, dal Nepal alle Filippine,
fino al subcontinente indiano, un movimento che sta ponendo il socialismo come
opzione credibile in grado di coniugare l’antimperialismo e l’anticapitalismo.
Certamente più
problematica è una valutazione sul modello sociale cresciuto sotto la bandiera
rossa di Pechino. Per un verso, ha rotto con i principi della rivoluzione
maoista e dato vita a un poderoso processo di “accumulazione originaria” del
capitale per far uscire il paese dall’arretratezza contadina. Nel far questo ha
consapevolmente messo a disposizione delle imprese multinazionali centinaia di
milioni di propri cittadini, in condizioni di lavoro inumane e senza alcun
diritto, né in fabbrica né fuori. Per altro verso, nel far questo, ha seguito
linee progettuali che non prevedevano una “resa” al modo di produzione
dominante, ma il suo utilizzo per raggiungere uno scopo. Dalla Cina non arriva
affatto, dunque, un’indicazione di alternativa sociale universalmente valida.
Tanto più se teniamo conto che la sua crescente potenza manifatturiera accelera
tutti i processi che portano a scontrarsi con i limiti naturali invalicabili
(clima, ambiente, risorse non riproducibili).
Sul piano geostrategico,
invece, lo sviluppo cinese ha modificato i rapporti di forza globali. La
delocalizzazione della manifattura ha lasciato infine l’Occidente imperialista
privo di una leva fondamentale per l’accumulazione.
Nota 65
[Il soggetto è la
borghesia imperialista che sposta la produzione dove le è più conveniente ai
fini di contrastare la caduta tendenziale del saggio di profitto, e che non
trova conveniente investire il capitale nella produzione soprattutto nei paesi
imperialisti. La Rete vede le cose a rovescio.]
Sul piano delle
condizioni di vita, il miglioramento relativo dei livelli di reddito per la
popolazione cinese (cui si è aggiunto il pesante contributo dell’India e di
altri paesi “emergenti”) è andata di pari passo con l’impoverimento relativo
delle classi subordinate dei paesi sviluppati. L’esplicitarsi dei caratteri
strutturali e sistemici della crisi si è quindi tradotto, da questa parte del
mondo, nel rapido accantonamento del “compromesso tra capitale e lavoro”,
proprio mentre laggiù si cominciano a introdurre i primi istituti di welfare.
La “convergenza” oggettiva dei livelli di reddito e degli stili di vita riduce
i differenziali su cui le imprese son solite giocare per massimizzare i
profitti e crea situazioni sociali meno distanti, composizioni di classe meno
disomogenee. Avvicina i popoli perché rende simili i loro problemi e quindi
anche le possibili soluzioni.
Segnali ambivalenti, su
cui manca per ora un’analisi adeguata, ma che sconsigliano facili entusiasmi o
condanne ideologiche che lasciano il tempo che trovano (declinabili – su fronti
opposti – sia come “tradimento del comunismo” o come “mancato rispetto dei
diritti umani”).
Il dato nuovo che deve
interessare è di tutt’altra natura: con la crisi si vanno creando le condizioni
oggettive che rendono contemporaneamente possibile e necessario, per l’umanità,
porre all’ordine del giorno il superamento dell’attuale modello di sviluppo. Da
forze, movimenti e stati storicamente esterni al “centro imperialista” come dal
patrimonio storico, ma in tempo reale – possono venire suggestioni, analogie,
“sponde”. Ma il compito di definire una strategia e un’azione politico-sociale
che sia all’altezza della situazione e sagomata sulle caratteristiche dell’area
in cui viviamo è per intero responsabilità nostra; dei comunisti presenti in
ogni paese.
4. L’UNIONE EUROPEA, UN
POLO IMPERIALISTA
Non possiamo che partire
da un giudizio chiaro sulla natura della Unione Europea, un progetto
imperialista ancora incompleto, ma che va avanti nonostante le crescenti contraddizioni
dell’economia e della politica internazionale.
La nascita dell’euro ha
segnato una svolta importante per la storia dell’Europa ma ha anche dato il
segno del carattere strategico dell’Unione Europea nella competizione globale.
Le cause che hanno spinto
il processo di unificazione economica europea sono profondamente strutturali e
attengono pienamente alle dinamiche dello sviluppo capitalista. Il rapido
sviluppo che le forze produttive hanno avuto, nell’ultimo trentennio nei paesi
imperialisti dell’Europa, gli hanno consentito d’imporre una razionalità
produttiva che, per sostenere i livelli di competizione e di ristrutturazione
produttiva conseguente, ha imposto una dimensione economica, e quindi politica
e statale, più ampia di quella fornita dalla sola dimensione nazionale dei
singoli Stati europei.
Si è trattato, dunque, di
scelte eminentemente politiche dettate dalla necessità di assecondare le
dinamiche del capitalismo moderno. E’ in corso a livello globale un processo di
costituzione in aree economiche e monetarie che non riguarda solo l’Europa ma
anche gli altri stati imperialisti: gli USA, ad esempio, con il NAFTA e il
tentativo di estenderlo a livello centro e latinoamericano, ma anche in Asia,
prima intorno al Giappone, sebbene i tentativi siano falliti. Questa necessità
di strutturarsi in blocchi di Stati integrati, per poi competere a livello
globale, si presenta anche per i paesi della periferia produttiva dell’Asia,
dell’America Latina, dell’Africa concretizzandosi con l’emersione dei BRICS
(Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica).
In questa fase storica in
cui l’Euro si sta ormai conquistando un ruolo economico internazionale capace
di competere con il dollaro, si vanno costituendo, con fusioni e acquisizioni,
imprese europee capaci di superare la loro precedente base nazionale,
assurgendo ad una dimensione transnazionale che influenza in senso reazionario
le politiche delle istituzioni europee, le quali, a loro volta, condizionano
pesantemente e sempre più frequentemente le scelte politiche dei singoli Stati
nazionali. A chi lamenta l’inadeguatezza o il lento procedere della costruzione
dell’Unione Europea, va fatto rilevare che, assai spesso, sono proprio gli
europeisti più convinti a mostrare la loro insoddisfazione per un processo che
avrebbero voluto molto più veloce e irreversibile anche attraverso una
Costituzione Europea tecnocratica e molto lontana da una concezione di
effettiva democrazia.
Abbiamo davanti agli
occhi una nuova accelerazione dovuta all’acuirsi anche in senso politico e
sociale crisi economica internazionale: il salvataggio del sistema finanziario,
delle banche europee e l’esplosione del debito sovrano che produce un enorme
trasferimento di ricchezza dalla classe lavoratrice ai detentori di titoli e
alla finanza; tutto ciò rafforza la gerarchizzazione delle borghesie
continentali e la costituzione, dentro questo quadro, di una vera e propria
borghesia europea.
La borghesia tedesca si
candida, più delle altre, a essere il nucleo forte della costituenda borghesia
europea unificata. Emergono in tale contesto sia alleanze e contraddizioni con
le borghesie degli altri paesi forti dell’Europa, quali la Francia e
l’Inghilterra, sia una subordinazione gerarchica degli altri Stati europei più
deboli quali la Spagna, la Grecia, il Portogallo, l’Irlanda e l’Italia. Una
subordinazione che diviene totale per la vicina periferia produttiva interna
alla Unione Europea come i paesi (ex socialisti) dell’est Europa.
Lo sviluppo della
produzione, nella dimensione internazionale ed europea, ha determinato
nell’ultimo trentennio (e continua a determinare) profonde modificazioni nella
classe lavoratrice dei paesi imperialisti come in quelli della periferia. Nel
polo imperialista europeo è andata creandosi una gerarchia legata al ruolo produttivo
dei diversi paesi, generando condizioni oggettive e percezioni di se stessa da
parte della classe lavoratrice, diverse dal passato e variamente modulate
all’interno del proprio assetto attuale.
Al centro della
produzione in Europa, ci sono infatti i livelli scientificamente e
tecnologicamente più avanzati, la finanza e le grandi banche, lo sviluppo della
società dei servizi e le aree dove il commercio e il consumo rappresentano il
mercato maggiormente appetibile.
Con gli eventi
nell’Europa dell’Est alla fine del XX Secolo, si è creata una prima periferia
produttiva continentale dove il costo del lavoro è tale da poter produrre
profitti elevati per le imprese del nucleo forte europeo e dove attraverso la
disgregazione forzata o la debolezza degli Stati sono state prodotte condizioni
ottimali per la finanza e le banche dell’Europa occidentale.
Ma è venuta emergendo
anche una nuova periferia produttiva, istituzionalmente ancora esterna
all’Unione Europea, situata nella sponda sud del Mediterraneo, una periferia
che consente nuovi spazi per la realizzazione dei profitti aumentando lo
sfruttamento della forza lavoro. Questa ambizione europea si disloca anche in
Asia ed in America Latina.
L’Europa imperialista
produce, dunque, una diversificazione della classe lavoratrice e delle classi
subalterne che è funzionale alla stabilità e al proprio dominio politico. Il
riconoscimento della nascita di un’aristocrazia salariata europea, con
privilegi economici e sociali che oggi iniziano a essere erosi dalla crisi, è parte
integrante dell’analisi marxista e leninista della società e pone problemi
politici rilevanti e adeguamenti altrettanto importanti per le organizzazioni
comuniste che agiscono nello spazio europeo. Infatti anche in uno dei cuori
pulsanti del capitalismo, l’assetto prodotto dalle precedenti fasi di
riorganizzazione internazionale deve oggi, fare i conti con la crisi di sistema
che continuerà a caratterizzare i prossimi anni e che costituirà lo scenario
nel quale sarà possibile ricostruire il terreno per la riaffermazione delle
forze di classe.
5. ITALIA. UN CAPITALISMO
SENZA BORGHESIA
L’Italia è parte
integrante di questo processo, lo promuove e lo subisce con intensità superiore
alla media, con la polarizzazione ormai evidente tra le pochissime imprese di
dimensione multinazionale e la poltiglia delle microaziende senza alcuna
autonomia progettuale.
Di conseguenza,
difficilmente la nostra borghesia – se paragonata col resto dell’Europa – può
meritare d’esser definita tale, in quanto non è classe dirigente. I gruppi più
rilevanti fanno profitto sfruttando posizioni di monopolio o oligopolio
acquisite grazie ai processi di privatizzazione, al parassitismo a spese dello
Stato a stretto contatto – negli appalti e subappalti – con le grandi
organizzazioni criminali. Sfruttano economie di scala nella concorrenza con la
piccola impresa e contribuiscono a tener bassissimo il costo del lavoro. Un
esempio concreto viene dalle banche, che hanno dato vita a un processo di
concentrazione per fusione dopo la privatizzazione degli istituti di diritto
pubblico e di quelli “di interesse nazionale”. Si vanno unificando così le
quantità e le funzioni derivanti dalle rendite di posizione e di quelle
immobiliari e finanziarie.
Profitti e rendite sono
state salvaguardate anche eliminando gli investimenti in ricerca e sviluppo;
mai con una politica industriale forte, come in Germania e in Francia. Del
resto questa è una conseguenza diretta della volontà di limitare oltre il
ragionevole “l’intervento dello Stato nell’economia”.
Incapace di sostenere la
normale competizione capitalista (idolatrata a chiacchiere), è una borghesia
che si è rifugiata in una condizione protetta ma debole, che oggi paga dazio a
una storica debolezza strutturale. La crisi permanente della classe politica –
da Tangentopoli in poi – è lo specchio di una classe senza spina dorsale, che
rende di fatto impossibile un compattamento intorno a progetti-paese.
Centrodestra e centrosinistra ne sono espressione fedele e impotente.
Una borghesia, dunque, da
sempre e per sempre forte con i deboli e debole con i forti, incapace di essere
classe dirigente ma solo classe dominante. La sua crisi rischia di far pagare
al nostro paese un prezzo molto più salato del solo arretramento economico e
“competitivo”. Sta rapidamente perdendo ruolo in Europa e precipita verso una
posizione subordinata e ininfluente, prefigurando un futuro non troppo
dissimile da quello della borghesia meridionale durante il processo di
unificazione nazionale dell’Italia.
Un quadro che rende
ancora più critica la condizione dei lavoratori, sotto ogni tipo di azienda o
condizione contrattuale (“stabili”, precari, in nero). Qui più che altrove è
stato violento l’arretramento sul piano sindacale, salariale, dei diritti.
Perché qui più che altrove il movimento operaio aveva realizzato conquiste poi
incardinate in atti legislativi, riforme del welfare, istituzioni e corpi
sociali intermedi. Un processo di smantellamento iniziato assai presto
(l’abolizione del “punto di scala mobile”, voluta da Craxi addirittura nell’84)
e che ha subito un’accelerazione violenta dalla metà degli anni ’90 in poi,
qualsiasi fosse la composizione del governo in carica. Un processo che ha
coinvolto i sindacati confederali, inchiodati al patto di concertazione fin dal
1993, ed ora in caduta libera nella “complicità” neocorporativa.
Una situazione
difficilissima, risultato della mutazione genetica dei partiti e dei sindacati
della sinistra storica, più ancora che delle modificazioni nella composizione
di classe.
Questa Italia, dunque,
dentro il processo di unificazione europea, viaggia in direzioni opposte:
dentro il nucleo forte dell’Europa, attraverso l’apparato produttivo del nord
e, in parte, verso la marginalizzazione. Una polarizzazione che aggrava la
permanente questione meridionale e ha fatto crescere, nel nord del paese,
pericolose derive separatiste e apertamente razziste.
L’aristocrazia salariata
di casa nostra ha visto modificarsi la propria condizione economica e, nel
crollo delle soggettività di sinistra, anche la coscienza di sé. La propensione
razzista verso gli immigrati, percepiti come un pericolo per il mantenimento
del proprio status sociale, affonda in parte la sua ragion d’essere nella
confusa consapevolezza che il vecchio sistema sta cadendo a pezzi. La Lega e il
berlusconismo si sono inseriti in queste paure di massa, alimentandole a
cavalcandole senza riserve.
Nota 66
[La coscienza (di sé)
viene portata alla classe operaia dall’esterno, insegna Lenin. Se la classe
operaia non ha coscienza di sé significa che dall’esterno non le è stata
portata, o che quella che le è stata portata non era per lei coscienza di sé.
La Rete non può portare alla classe operaia coscienza di sé, se chiama questa
classe “aristocrazia salariata”, e se la sua “coscienza di lei” è corrotta dal vecchio pregiudizio delle masse
dominate da ignoranza e paura. ]
E’ un quadro molto
diverso da quello che era stato ereditato dal dopoguerra e fino a metà degli
anni ’80. Per chi, come i comunisti, si pone l’obiettivo della trasformazione
sociale, diventa perciò fatale qualsiasi coazione a ripetere vecchie soluzioni,
argomentazioni, slogan. E soprattutto qualsiasi tentazione di “arroccarsi”
nella pura gestione di un patrimonio di consensi ormai in scadenza (sul piano
elettorale), così come nella dimensione di “piccola comunità ideale”. Due
tendenze manifestatasi ampiamente nel corso dell’ultimo decennio, quando la
dimensione meramente istituzionale ha prevalso su tutto.
6. LA PROPOSTA POLITICA
DELLA RETE DEI COMUNSITI
Fino alla seconda
Assemblea Nazionale del 2007 la Rete dei Comunisti ha agito come una sorta di
intellettuale collettivo al «servizio» dell’azione politica e sindacale e della
ricostruzione di un punto di vista comunista della realtà. Non abbiamo mai
inteso essere un «cenacolo», al contrario abbiamo sempre ritenuto doverosa e
discriminante l’internità dei militanti ai movimenti reali che si esprimono sul
piano delle lotte sociali, per la solidarietà internazionalista, per il
sindacato di classe, né ci siamo mai sottratti al dibattito sulla
rappresentanza politica che oggi riguarda materialmente pezzi significativi del
blocco sociale antagonista e della sinistra di classe. Sta qui la dialettica
tra progetto strategico della Rete dei Comunisti e capacità di agire nelle
lotte e nei movimenti sociali, senza rinunciare alla battaglia delle idee e
all’analisi critica della nostra storia passata e presente.
Abbiamo definito questa
modalità di concezione e di azione politica come articolata su “tre fronti”.
A Il “fronte strategico”
attraverso la ricostruzione di una analisi e di un punto di vista comunista
della realtà, un processo iniziato a metà degli anni Novanta che ha sviluppato
la ricerca e l’attualizzazione su temi come l’imperialismo, la composizione e
l’inchiesta di classe, le caratteristiche del conflitto tra capitale e lavoro,
il passato e il presente delle esperienze di transizione al socialismo
Nota 67
[Un punto di vista
comunista non è una concezione comunista del mondo, non è una scienza, ma una
opinione tra le tante, con pari dignità delle altre. Ci si unisce (come
partito) su una comune concezione della realtà. Si può senz’altro cooperare in
difesa di questo e di quell’altro diritto, e lo si fa, mantenendo ciascuno il
suo punto di vista, ma un partito è un’altra cosa, un partito è uno, e ha un
“punto di vista” solo. ]
B Il “fronte politico”
che ha sempre avuto ben presente l’esigenza della rappresentanza politica
(anche elettorale) come espressione però di interessi di classe definiti e
organizzati e non – dunque – di mera rappresentazione di residue storie
politiche e personali della sinistra per quanto dignitose esse possano essere.
C Il “fronte sociale”
dell’organizzazione diretta dei settori del blocco sociale antagonista tramite
il conflitto di classe nei posti di lavoro e nelle aree metropolitane, un
processo questo che ha le sue radici, esperienze, elaborazioni e convinzioni
sin dagli anni Settanta.
Abbiamo inteso articolare
la nostra azione politica su tre fronti perché la loro sintesi nel nostro paese
è andata liquidandosi nel corso del tempo, sia sotto i colpi dell’avversario e
delle modificazioni nella realtà sociale, sia per le crescenti contraddizioni
interne dei partiti comunisti esistenti.
Rimettere in campo una
nuova e immediata sintesi tra strategia, organizzazione del blocco sociale
antagonista e rappresentanza politica di classe, non ci è sembrato in questi
anni un traguardo accessibile. Più volte e pubblicamente abbiamo dichiarato la
nostra non autosufficienza come organizzazione politica comunista per riempire
un vuoto che si è andato allargando negli anni.
Nasce da questa coscienza
comune la decisione di procedere “a rete”, riconnettendo un tessuto di quadri,
militanti, attivisti, intellettuali comunisti, consapevoli dei passaggi da
operare e liberati culturalmente dal macchiettismo che produce continuamente
piccoli e nuovi partiti comunisti, generali senza eserciti, o eserciti di
attivisti sociali ma senza una sintesi generale con i piedi saldamente piantati
a terra.
Questa concezione dei tre
fronti è stata spesso poco compresa o talvolta avversata da compagni che hanno
perpetuato una concezione riformista del partito comunista o una “affascinante”
ma finora inefficace sintesi tra soggetto politico e soggettività sociale.
Con la terza Assemblea
Nazionale della Rete dei Comunisti abbiamo inteso precisare le caratteristiche
e le ambizioni possibili di tale proposta.
A. LA COSTRUZIONE DEL
PARTITO DEI COMUNISTI
Il documento e l’incontro
nazionale del febbraio 2010 su “Organizzazione e Partito” ha messo nero su
bianco la nostra elaborazione sul partito comunista, inteso come “partito di
quadri con funzione di massa”. In essa vi è l’analisi sulla realtà in cui siamo
chiamati ad agire (un paese intermedio ma nel cuore del capitalismo maturo),
sul nesso tra il partito e la composizione di classe esistente e nella
collocazione del nostro paese nella divisione internazionale del lavoro, sulla
funzione di un partito comunista dentro la complessità di una società come
quella in cui viviamo nel XXI Secolo. La nostra concezione di partito confligge
apertamente con quella venuta imponendosi negli anni, che ha visto prevalere i
partiti dei funzionari, organizzazioni della mera propaganda, apparati
elettorali e della predominanza dei gruppi parlamentari sulla vita politica e
sulle priorità.
Nota 68
[La Rete non tiene conto di cosa significa
“funzionario” in un partito comunista vero, in generale. Nemmeno però tiene
conto del passato recente. Miriam Mafai nel 1996 scriveva in riferimento al
vecchio PCI che «la vita del funzionario di partito era fatta di sacrifici e di
esaltazione. Vita familiare irreprensibile, un reddito da operaio
metalmeccanico, rigida disciplina, subordinazione di ogni esigenza personale
alle necessità del partito»”(1). Rispetto ai dipendenti odierni del PD dice una
loro rappresentante sindacale che “ Il
funzionario, dipendente o dirigente, aveva un altro spirito. La passione era
un’altra, trasformare la società capitalista in socia- lista, e 13 ore
volavano, non era lavoro, era militanza.” (2)]
NOTE
1.
Il Manifesto, 3 aprile 2014
2.
ibidem
Abbiamo potuto verificare
come militanza e organizzazione siano diventate due esperienze desuete nella
formazione e nella sperimentazione di migliaia di compagne e compagni nel
nostro paese. Dalle teorizzazioni del “partito leggero” alla realtà dei partiti
come “apparati elettorali” o dei nuovi “partiti ad personam”; l’idea stessa
dell’organizzazione come ambito per l’aggregazione, la formazione, la
discussione, la comprensione, l’attivizzazione dei compagni e come strumento
indispensabile del conflitto sociale, è stata demolita. La militanza si è ormai
trasformata solo in adesione tramite tesseramento, in una attività quasi
dopolavoristica nelle sedi (quando ci sono), in propaganda e campagne
elettorali. Costruire soggettività e identità politica con questi criteri si è
rivelato devastante per una idea anche minima di militanza attiva e di
radicamento sociale.
Riaffermiamo, dunque, la
nostra concezione di partito come intellettuale collettivo piuttosto che come
“appendice del segretario e delle sue capacità”. Ma è anche una concezione processuale
della sua costruzione che nega al partito il valore feticista che gli si è
venuto attribuendo come soluzione taumaturgica di tutti i problemi. In tal
senso affermiamo che in questo processo di costruzione del partito la Rete dei
Comunisti non è e non ritiene di poter essere autosufficiente. Ne deriva che
intendiamo facilitare – anche formalmente - in ogni modo i processi di
confronto, convergenza, amalgama con altri compagni e soggettività comuniste
che lavorano nella stessa direzione. Rivendichiamo come nostra la storia del
movimento comunista del XX, ne rivendichiamo gli errori e i successi ma
intendiamo indagarne e comprenderne a fondo le contraddizioni. La trascuratezza
nell’elaborazione teorica, la scarsa conoscenza della storia e lo schematismo
che hanno dilagato in questi ultimi trenta anni, sono stati un ostacolo ad un
serio bilancio storico ed hanno spianato la strada alle posizioni
liquidazioniste che oggi si offrono di nuovo come soluzione alla crisi della
sinistra e dei comunisti.
Nota 69
[La critica alla
sottovalutazione della teoria, la critica dello schematismo, la necessità del
bilancio, sono tutte questioni su cui concordiamo pienamente.]
B. RAPPRESENTANZA
POLITICA INDIPENDENTE E FRONTE POLITICO-SOCIALE ANTICAPITALISTA
I comunisti non possono
sottovalutare le contraddizioni che si sono accumulate in questi anni e i conti
che gli presenta la storia. Non esiste più il tesoretto elettorale del PCI, né
rendite di posizione che consentono di dare come scontata la credibilità e la
funzione emancipatrice che hanno avuto nella storia. La funzione dinamica e di
avanguardia dei comunisti va completamente riconquistata dentro le
contraddizioni e le forze sociali. Quando parliamo di rappresentanza politica
indipendente del blocco sociale antagonista intendiamo riaffermare la
centralità dell’autonomia degli interessi di classe da quelli delle
compatibilità di sistema. L’espressione organizzata di questi interessi, anche
sul piano elettorale, confligge apertamente con ogni subalternità alla logica
bipartizan di gestione della crisi ed a forze politiche che dichiarano
apertamente di voler cooptare i lavoratori dentro al patto neocorporativo.
Voler battere Berlusconi non significa consegnare nuovamente le classi
subalterne nelle mani dei suoi competitori nelle banche, nella Confindustria e
nell’establishment dell’Unione Europea. I comunisti non possono che lavorare ad
una rappresentanza politica indipendente e di classe che sia il risultato di
alleanze sociali di segno anticapitalista.
Allo stesso tempo non è
possibile ignorare che la soggettività antagonista che si esprime nella società
non è tutta nè solo dei comunisti. Nel conflitto di classe sono venuti
emergendo attivisti e movimenti sociali anticapitalisti che non riconoscono la
propria identità dentro quella comunista. E’ così nel nostro paese ed è così in
molte parti del mondo. I soggetti politici della trasformazione sociale sono
oggi molto più articolati di quanto lo siano stati in passato. Il confronto e
l’azione comune con queste soggettività presuppone rapporti leali e identità
politiche definite. La ricomposizione di un fronte politico-sociale
anticapitalista che includa organizzazioni sociali, sindacali, ambientaliste,
soggetti politici, intellettuali antagonisti o democratici su una piattaforma
politica e sociale avanzata, può e deve diventare un percorso praticabile anche
in un paese a capitalismo maturo come l’Italia. E’ dentro e non fuori questo
fronte politico-sociale che i comunisti debbono e possono svolgere una funzione
propulsiva e non meramente strumentale o propagandistica.
Occorre riaffermare con
forza come la rappresentanza politica non può che essere l’espressione
organizzata degli interessi del blocco sociale antagonista e dei settori
sociali che lo esprimono. Si tratta dunque di una visione estremamente diversa
da quella di compagni che la interpretano come mera rappresentanza elettorale o
semplice coordinamento delle forze della sinistra. Confondere questi due
livelli ingenera confusione e riproduce quel politicismo da cui occorre
liberarsi con estrema decisione.
Nota 70
[Il partito che la Rete
intende costruire, quindi, sarebbe un organismo tra i tanti. Sarebbe il
multipartitismo, che è forma di organizzazione politica della società borghese,
e che quindi non costituisce una novità dal punto di vista storico.]
C. IL RAPPORTO DI MASSA E
IL FRONTE SOCIALE
L’elemento dirimente per
ogni prospettiva credibile di ricostruzione dell’opzione comunista in Italia o
di una rappresentanza politica del blocco sociale antagonista, è il rapporto
tra i militanti e i settori sociali. Un rapporto che non può certo fondarsi
solo sulla propaganda (tantomeno solo sulla propaganda elettorale) ma che deve
essere un nesso stretto e inscindibile nella funzione dei comunisti. Quando
negli anni Settanta si era parlato di “proletarizzazione” dei militanti non si
indicava una prospettiva di tipo missionario quanto un approccio alla realtà e
un metodo di lavoro.
In questi anni abbiamo
elaborato, costruito e praticato un metodo nel lavoro di massa attraverso la
costruzione del conflitto sociale organizzato, sia nei posti di lavoro sia
nelle aree metropolitane; una ipotesi che riprende esperienze già sperimentate
in passato e tenta di adeguarle alla realtà e alla complessità sociale di oggi.
L’individuazione delle
aree metropolitane come ambito in cui quantità e qualità delle contraddizioni
di classe possono ricomporsi in fronte di lotta e blocco sociale antagonista in
presenza di una profonda frammentazione sociale, indica concretamente una
ipotesi di sperimentazione, radicamento e ricomposizione di classe a nostro
avviso decisivi. La questione del rapporto di massa è un terreno di verifica
importante nel ruolo dei comunisti in una società integrata nel cuore
sviluppato del capitalismo, soprattutto perché intendiamo una rapporto di massa
organizzato e non limitato alla propaganda.
Alla disgregazione
materiale e culturale indotta dalla riorganizzazione produttiva e sociale del
sistema occorre dare risposta con un forte ruolo della soggettività politica
dei comunisti nei processi di ricomposizione del conflitto di classe, ma
sarebbe un errore clamoroso pensare di avviare questi processi fondamentali a
partire dalla “politica” e non dalla comprensione teorica di come si costruisce
il rapporto di massa, qui ed ora. Far crescere il rapporto di massa
organizzato, e di conseguenza la coscienza di classe, fornire ai quadri
politici un metodo di lavoro e degli strumenti interpretativi adeguati alle
caratteristiche della classe reale è un compito al quale i comunisti non
possono sottrarsi.
7. COSTRUIRE
L’ORGANIZZAZIONE DEI COMUNISTI
Il punto è, allora, cosa
sono i comunisti oggi e cosa fanno nell’Italia e nell’Europa appena descritte.
Certamente la questione del partito, dell’organizzazione, del rapporto di massa
sono le questioni concrete cui dare una risposta più adeguata possibile alle
condizioni in cui si opera, ma vengono prima alcune questioni di fondo, alla
base, cioè, di ogni processo di riorganizzazione dei comunisti, attenendo alla
funzione che questi devono svolgere nell’indicare una diversa idea di società e
di relazioni sociali.
La prima questione che
riteniamo fondamentale è quella del senso del collettivo. Gli ultimi decenni sono stati devastanti
dal punto di vista della cultura politica dei comunisti. La crisi politica e la
dimensione pervasiva delle relazioni istituzionali, vissute come esclusive e
autoreferenziali, ha prodotto un individualismo diffuso, una competizione
personale e un arrivismo indecente che ha smontato, pezzo a pezzo, un
patrimonio unico nell’occidente capitalistico: quello del movimento operaio,
del PCI e dell’intero movimento degli anni ’70. Questa mutazione è stato il
riflesso assorbito passivamente dai comunisti verso la modifica dei rapporti di
forza tra le classi, della ripresa di egemonia dei valori borghesi che ha
riguardato la classe ed il popolo del nostro paese ed ha portato al tradimento
di quella democrazia progressiva obiettivo delle lotte popolari del dopoguerra.
Su questa seconda natura posticcia, acquisita dai comunisti e dalla sinistra in
genere, va dato anche un netto giudizio etico: la corruzione intellettuale
subita, sebbene non sia il punto centrale, ci obbliga, infatti, ad assumere
posizione anche su questo piano.
Nota 71
[Giusto. La posizione da
prendere è: “il collettivo è principale, l’individuo è secondario.”]
Il danno principale, per
i comunisti italiani, è stato, invece, l’effetto prodotto da questi
comportamenti: la distruzione dell’indipendenza delle organizzazioni di classe
e il cui metro di valutazione obiettiva, oggi, sono i sempre più disastrosi
risultati elettorali e la perdita d’indipendenza che ha avuto conseguenze
profonde e devastanti nella battaglia delle idee per una concezione alternativa
del mondo. Ricostruire, nella realtà odierna l’identità, la militanza e il
senso del collettivo è, dunque, un compito primario da svolgere.
È il ruolo della teoria,
l’altro terreno saccheggiato: l’oblio e la mistificazione di un pensiero forte
che, lungi dall’essere fuori dal tempo, funziona ancora oggi, e cioè il
marxismo. Anche questo è un segno della lotta di classe in atto: la forza del
movimento operaio è stata la potenza di un pensiero razionale che sapeva
interpretare il mondo e le sue dinamiche. Aver abdicato a questa funzione, aver
favorito l’egemonia del pensiero debole, come anche aver sistematicamente
anteposto il politicismo all’interpretazione e all’analisi, ha portato alla
situazione attuale. La qualità della elaborazione teorica rimane centrale per
una ricostruzione che, per quanto non dogmaticamente legata al passato, allo
stesso modo non getti, però, il bambino con l’acqua sporca, riprendendo quegli
elementi di teoria validi per l’azione, per recuperare, così, capacità
d’analisi e d’intervento sul presente che calate compiutamente all’interno
delle strutture socio-economiche e politico-culturali del momento, assumono
tutta la loro specificità e tutta la loro dirompente forza di trasformazione:
altro che ferri vecchi!
Nota 72
[Se la teoria è viva,
cresce. Crescere significa trasformarsi. Il marxismo oggi non è né può essere
lo stesso della seconda metà dell’Ottocento.]
Se una critica deve esser
mossa al movimento comunista del ‘900 – tutto intero – è di aver subordinato la
teoria alla linea politica. Aver insomma messo la teoria al servizio – o a
giustificazione – di scelte che sono sempre politiche. E come tali soggette ad
errore. Non è avvenuto soltanto per l’Urss o il Pci. Ogni “eresia” di sinistra,
nel secolo scorso, ha seguito l’identico schema, magari solo per giustificare
scelte diverse o leader poi sconfitti.
Infine: il rapporto di
massa. Non esiste nessuna seria “organizzazione comunista” se non è radicata
nella classe e nel conflitto. Non si forma nessun quadro comunista se non si
fanno i conti in prima persona con la realtà delle “masse” concretamente
esistenti. Quando un “rivoluzionario” si scopre “senza un popolo”, vuol dire
cha ha perso il sentiero. Il rapporto di massa è l’unico terreno di verifica
delle capacità individuali e collettive di “costruire organizzazione”. Ogni
ipotesi strategica o di linea politica, se non riceve il conforto della
verifica di massa, resta una pura ipotesi. Ogni argomento che non “fa presa” su
un interlocutore di massa reale, o è sbagliato o è “detto” in modo
incomprensibile. Tra gli anglofoni si parla inglese, non italiano o latino.
Alla disgregazione
materiale indotta dalla riorganizzazione produttiva e sociale si risponde con
un forte ruolo della soggettività nei processi di ricomposizione del conflitto
di classe; pensare di farlo partendo immediatamente dalla “politica” – magari
intesa o nella sua dimensione più autonoma e astratta – significa continuare a
seguire una via senza uscita. Far crescere il rapporto di massa organizzato, e
di conseguenza la coscienza di classe, fornire ai quadri politici un metodo di
lavoro e di verifica delle proprie ipotesi, è invece un compito cui nessuno si
può sottrarre. Noi per primi, ovviamente.
E’ partendo da questi
elementi che vanno intrapresi i processi di ricostruzione. Crediamo di poter
affermare, perciò, che oggi l’Organizzazione dei comunisti non può che avere il
carattere della militanza dei quadri e anche quello della ricerca di una
qualità intesa come capacità edificatrice di un punto di vista organico al
mondo moderno, quindi, recuperare quella “conoscenza del rapporto tra tutte le
classi dal punto di vista della classe operaia” come viene ricordato nel “Che
Fare?”. Il carattere militante dei quadri non significa ipotizzare una chiusura
settaria ma è, al contrario, la condizione presupposta e necessaria per
sviluppare al massimo una funzione di massa, per costruire processi larghi di
organizzazione dovunque questo sia possibile, al di là di ogni concezione
schematica e ossificata della classe e che coinvolga, invece, tutti i settori
sociali, culturali e produttivi che hanno il comune interesse a una
trasformazione sociale.
Solo così – ci sembra –
diventa chiara la funzione dei progetti di costruzione della rappresentanza
sociale, sindacale e politica – organizzata e indipendente – del blocco sociale
penalizzato sia dallo sviluppo che dalla crisi del capitalismo.
E’ su questa chiarezza,
su questa dimensione del fare, che fondiamo il senso stesso dell’agire da
comunisti oggi. Perché siamo ciò che facciamo, non quel che diciamo – magari a
noi stessi – di essere.
Nota 73
[“Nella rivoluzione socialista quello che
pensiamo, decide di ciò che facciamo.”(1)]
NOTE
1. La
Voce del (n)PCI, n. 46, p. 23
IL REGOLAMENTO DELLA RETE
DEI COMUNISTI
Approvato all’Assemblea
Nazionale
del 2 e 3 Aprile 2011
La Rete dei Comunisti
dalla data della sua costituzione, nel 1998 ha scelto di non formalizzare il
modello di organizzazione concretamente funzionante cosciente dei propri limiti
soggettivi qualitativi e quantitativi, basando le ragioni della proprie
esistenza sui contenuti e sulla funzione generale che si voleva svolgere nel
contesto a cavallo del passaggio di secolo.
La tenuta
dell’organizzazione è stata garantita dalla costruzione processuale di una
identità collettiva ed il collante è stato il “patto politico” tra compagni che
condividevano un punto di vista generale a partire dalla riaffermazione della
indipendenza politica del movimento di classe e dei comunisti. Questi elementi
strategici assieme al continuo consolidamento e crescita del rapporto di massa
sociale e politico nelle sue molteplici forme hanno permesso una omogeneità
costruita sul confronto interno che ha permesso il mantenimento della
prospettiva generale.
Questa “forma informale”
di organizzazione ha permesso nell’ultimo decennio di affrontare le varie fasi
che hanno caratterizzato il conflitto sociale e politico nel paese ed il
confronto con le altre ipotesi politiche, spesso in una nostra condizione di
relativa dimensione organizzativa. Oggi, di fronte alle possibilità che produce
lo sviluppo delle contraddizioni e la richiesta di organizzazione che viene
dalla crisi delle formazioni comuniste, riteniamo sia necessario ipotizzare e
sperimentare ipotesi organizzative più avanzate di quelle praticate da noi in
questi anni.
Non si tratta, ora, di
costituire un nuovo partito da aggiungere ad altri, ma di intraprendere un
processo di organizzazione dei comunisti che sappia essere strumento politico
effettivo ma che non si chiuda in un modello definitivamente confezionato ed
impermeabile alle evoluzioni del rapporto con le altre strutture che si
collocano nella nostra stessa prospettiva. In questo senso ha ancora vigenza il
“patto politico” che ha permesso la tenuta della RdC in anni certamente
complessi e vogliamo lasciare il carattere a rete delle relazioni con altre
esperienze comuniste coscienti di essere dentro un processo di ricomposizione i
cui esiti sono ancora da definire.
La scelta di essere
organizzazione di militanti con funzioni di massa e la disillusione prodotta da
innumerevoli esperienze negative fatte dentro e fuori i partiti, ci spinge a
definire due piani di relazione organizzata, quella dei militanti e quella
degli attivisti. I militanti sono coloro i quali intendono non solo aderire al
progetto ma assumere responsabilità soggettive nelle strutture e nella attività
dell’organizzazione. Impegni individuali che devono avere a riferimento la
discussione e le decisioni collettivamente prese sia nelle strutture di
direzione che di lavoro di cui la RdC si fornisce. L’importanza del collettivo
non risiede solo nella necessità di affrontare adeguatamente i complessi
problemi che intendiamo affrontare ma anche essere una controtendenza alle
derive individualiste, leaderistiche e competitive che si sono ampiamente
radicate nella cultura politica della sinistra e dei comunisti.
Attivista è chi, pur
condividendo il progetto politico, non intende impegnarsi con incarichi di
responsabilità nelle strutture. L’obbligo che si chiede è quello della
partecipazione attiva al dibattito politico delle strutture di appartenenza ed
alle iniziative politiche dell’organizzazione. Vanno naturalmente sollecitate e
costruite tutte quelle forme di collaborazione organizzata praticabili in base
alle esigenze degli attivisti. La condizione di attivista ha però un’altra
funzione da svolgere in quanto il rapporto tra attivisti e militanti è
dinamico. La relazione che si stabilisce è anche un momento di reciproca
verifica, sulla condivisione delle scelte e dalla pratica politica, funzionale
ad un rafforzamento del rapporto da militanti tramite l’assunzione di
responsabilità nelle strutture, naturalmente se è il risultato di una verifica
positiva. D’altra parte questa elasticità della relazione politica interna
permette anche di tornare in modo non traumatico su scelte d’organizzazione già
fatte ma che possono mostrare difficoltà politiche o individuali nello sviluppo
della attività organizzata.
L’adesione alla Rete dei
Comunisti avviene tramite rilascio della tessera individuale in cui vengono
definiti i rispettivi ambiti di dibattito e di organizzazione; per gli
attivisti sono l’Assemblea Nazionale annuale e gli attivi locali, per i
militanti, inoltre, sono il Coordinamento Nazionale e la Segreteria.
La Rete dei Comunisti ha
deciso di dotarsi di un responsabile d’organizzazione che svolga anche una
funzione di coordinatore sulla formazione che verrà effettuata tramite
l’associazione “Politica e Classe”.
L’ARTICOLATO
1) Assemblea Nazionale.
La Rete dei Comunisti convoca tutti gli anni la propria Assemblea Nazionale con
tutti i suoi aderenti, militanti, attivisti e i rappresentanti delle
organizzazioni che hanno stretto “patti federativi” con la nostra
Organizzazione, per analizzare la situazione politica nazionale ed
internazionale, le scelte politiche fatte nell’anno trascorso, per progettare
l’attività dell’organizzazione per l’anno successivo e per verificare nella
pratica il funzionamento delle strutture dell’organizzazione, infine per
rafforzare il percorso di formazione politica collettiva.
2) Coordinamento
Nazionale. Il Coordinamento Nazionale è l’Attivo Nazionale dei militanti
dell’Organizzazione, è la struttura di direzione che deve attuare le scelte
fatte dalla Assemblea Nazionale, verificare l’attività complessiva delle
strutture nazionali e territoriali. Al Coordinamento partecipano coloro i quali
hanno incarichi di responsabilità nella direzione e nella gestione delle
strutture di lavoro nazionali, settoriali e di quelle territoriali. Alla
attività del Coordinamento Nazionale partecipano di diritto i rappresentanti
delle Organizzazioni Federate nella misura decisa nei patti federativi
reciprocamente sottoscritti.
3) Segreteria. La
Segreteria è la struttura di gestione dell’attività complessiva
dell’Organizzazione. La Segreteria deve attuare le scelte politiche decise dal
Coordinamento Nazionale e verificarle a tutti i livelli necessari; deve,
inoltre, promuovere il dibattito interno alle strutture di lavoro e di
intervento e la formazione politica coinvolgendo i militanti ed gli attivisti
dell’organizzazione.
4) I livelli locali. Per
i livelli locali si devono intendere le strutturazioni provinciali e regionali
come ambiti di gestione e coordinamento della attività della Rete dei
Comunisti. La strutturazione della direzione di questi livelli devono fare
riferimento a quelle nazionali con la formazione di coordinamento e segreteria
locale, composti dai quadri militanti, e con l’attivo generale come ambito
formale di dibattito, confronto politico e organizzazione anche per gli
attivisti dell’organizzazione.
5) Patti Federativi.
Possono essere ipotizzati patti federativi con strutture politiche e
settoriali, nazionali e locali che prevedano la partecipazione di queste al
Coordinamento Nazionale o nelle strutture di direzione dei livelli locali
previsti. Può essere prevista, se necessaria, la reciprocità della
partecipazione alle strutture di direzione con le organizzazioni federate.
6) Le adesioni. La Rete
dei Comunisti ha scelto di strutturarsi come organizzazione di quadri con
funzione di massa ed è dunque necessario definire due livelli di partecipazione
alla sua attività complessiva. La prima, e più larga, è quella degli attivisti
cioè per chi condivide il nostro punto di vista generale, lo sostiene e
partecipa alla attività politica ma che non ha un impegno e responsabilità
dirette nella gestione dell’organizzazione. Gli attivisti partecipano alla
definizione delle scelte politiche generali e locali come membri della
Assemblea Nazionale e degli Attivi Territoriali. Chi è impegnato in modo
militante nel lavoro dell’organizzazione è membro del Coordinamento Nazionale e
partecipa alla gestione della vita dell’Organizzazione con incarichi e
responsabilità conseguenti. Il Coordinamento Nazionale esprime al suo interno
una Segreteria.
L’adesione è individuale
ed è inizialmente in qualità di Attivista. L’Organizzazione deve operare
affinché gli attivisti maturino la necessità di assumersi maggiori
responsabilità e divenire militanti a pieno titolo, questo passaggio ha bisogno
di un periodo di reciproca verifica per poter fare una scelte di impegno
pienamente cosciente. Il periodo può essere orientativamente di un anno con le
eventuali eccezioni che vanno valutate dalle strutture locali dell’Organizzazione.
Lotta e Unità per l’organizzazione
proletaria - La crisi del capitale e la lotta di classe
[Tratto dall’opuscolo
omonimo del giugno 2010]
La crisi del Capitale e
la lotta di classe
(Giugno 2010)
(NOTE PER IL
DIBATTITO POLITICO)
Che il capitalismo sia in
crisi è un fatto, come ammettono i suoi stessi apologeti. Un po’ meno scontata
è, invece, l’individuazione delle cause.
Sistemiche, intrinseche,
affermiamo. Non siamo di fronte ad una semplice crisi ciclica del sistema
capitalismo, bensì ad una profonda crisi strutturale, economica e sociale,
scatenata dall’impetuoso sviluppo delle forze produttive, che “forzano” gli
obsoleti rapporti sociali di produzione capitalisti.
Una contraddizione tra
forze produttive e rapporti sociali che si manifesta sotto forma di crisi per
sovrapproduzione, per cui il capitale prodotto non riesce a valorizzarsi
secondo le aspettative dei capitalisti.
Nel capitalismo
dell’avvenuta totalizzazione del rapporto di capitale, dove praticamente tutte
le sfere della vita sociale - non solo strettamente economiche - sono state
sottomesse alla mercificazione capitalista (D – M – D’), la merce rappresenta
principalmente la forma del capitale che, com’è noto, non è una cosa bensì un
rapporto sociale (di sfruttamento).
In tal senso si può
affermare che le merci denaro, mezzi di produzione, forza lavoro e beni
prodotti, sono in “sovrapproduzione” esclusivamente se considerate all’interno
del processo di accumulazione capitalista, in cui assumono le differenti forme
del capitale anticipato, capitale costante, capitale variabile, valore e
plusvalore, quindi, profitto.
[L-U (analogamente, come
vedremo, ad altre organizzazioni) afferma che il sistema capitalistico sia
attraversato da una crisi di natura diversa dalle crisi cicliche che si sono
susseguite alla fine del XIX secolo. L-U non usa il termine “generale”, ma
indica la crisi attuale come “strutturale, economica e sociale” e facendo
riferimento a Marx (Il Capitale vol. III), L-U indica la crisi attuale
come “crisi per sovrapproduzione assoluta di capitale”.] (nota di chi ha
pubblicato il documento sul sito dei promotori dell’appello – da qui in poi
Nota UFC)
Secondo Marx si ha
sovrapproduzione assoluta di capitale quando il capitale addizionale per lo
sviluppo della produzione capitalistica è uguale a zero, ossia quando il
capitale aggiuntivo non riesce a valorizzarsi. Egli specifica che col procedere
del processo di accumulazione la valorizzazione del capitale va incontro a vari
ostacoli, connessi allo sviluppo della produttività del lavoro necessario alla
sopravvivenza dei singoli capitali nella lotta di concorrenza tra loro.
Il capitalista per
affrontare la concorrenza deve infatti cercare di vendere ad un prezzo
inferiore dei suoi concorrenti e ciò è possibile solo con la crescita della
produttività del lavoro. La crescita della produttività ha però un costo, non è
gratis. Questa è per la maggior parte connessa ad una “crescita del
macchinario” (innovazione) nel processo produttivo, quindi al peso del valore
del macchinario in rapporto al capitale totale. Il macchinario non fa che
trasmettere il proprio valore al prodotto, man mano che viene consumato nel
processo di produzione.
Finché il capitalista
avrà il monopolio dell’innovazione, potrà ottenere comunque un sovrapprofitto,
vendendo ad un prezzo di mercato superiore ai costi di produzione. Nel momento
in cui gli altri capitalisti, costretti dallo stesso meccanismo della
concorrenza, introdurranno anch’essi nuovi metodi di produzione e questi ultimi
si generalizzeranno, il prezzo di mercato cadrà, adeguandosi al nuovo livello
raggiunto dalla produttività del lavoro e tutto il peso del costo dei nuovi
macchinari introdotti si scaricherà sul saggio di profitto. Trattandosi di un
processo continuo, Marx parla di caduta tendenziale del saggio di profitto.
Il “nocciolo” della
questione
In questa fase storica la
borghesia, detenendo le leve del comando economico, politico-militare e
sociale, si dimostra più consapevole dei propri interessi di classe, battendosi
senza esclusione di colpi contro il proletariato, per arginare le falle del
proprio sistema ed escogitando sempre nuovi meccanismi per salvarlo. Nella loro
logica antagonistica, i padroni cercano di seguire una precisa “agenda di
lavoro”, nel tentativo di abbassare la composizione organica del capitale -
ossia il rapporto tra quello costante e quello variabile - verso il cui aumento
il sistema si muove irrimediabilmente, sotto l’agire delle leggi stesse
dell’accumulazione capitalista.
Nota 74
[Data la composizione organica
del capitale come la descrive Lotta e Unità, si tratterebbe di calo o di
aumento di uno dei due poli rispetto all’altro, e non di abbassare o aumentare
l’intera composizione. La definizione esatta di composizione organica del
capitale è quella che segue:
“La composizione del capitale è da considerarsi in
duplice senso.
Dal lato del valore essa si determina mediante la proporzione in cui
il capitale si suddivide in capitale
costante ossia valore dei mezzi di produzione e in capitale variabile ossia valore della
forza-lavoro, somma complessiva dei salari.
Dal lato della materia, quale essa opera nel processo di produzione,
ogni capitale si suddivide in mezzi di
produzione e in forza-lavoro vivente; questa composizione si determina
mediante il rapporto fra la
massa dei mezzi di produzione usati da una parte e della quantità di lavoro
necessaria per il loro uso dall’altra.
Chiamerò composizione
del valore la prima e composizione
tecnica del capitale la seconda. Fra entrambe esiste uno stretto rapporto
reciproco. Per esprimere quest’ultimo, chiamerò la composizione del valore del
capitale, in quanto sia determinata dalla sua composizione tecnica e in quanto
rispecchi le variazioni di questa: la composizione organica del
capitale.” (1)]
NOTE
1. Marx, Il
capitale, cap. 23. In
http://www.nilalienum.it/Sezioni/Marx/Opere/Capitale/I%20Libro/SezVIICap23.html.
La prima parte di questa
“agenda di contenimento”, a fronte di massicci investimenti in capitale
costante per ottenere profitti straordinari utili a sbaragliare la concorrenza,
prevede una sistematica azione dell’incremento della produttività (di
plusvalore) della forza-lavoro, nei suoi termini relativi e assoluti.
Licenziamenti, precarizzazione, aumento dei ritmi lavorativi, orario di lavoro
straordinario, diminuzione del salario reale, sono solo alcuni dei trattamenti
draconiani che i capitalisti riservano ai lavoratori, visti esclusivamente come
“capitale variabile”, sui quali aumentare il tasso di sfruttamento, allo scopo
di contrastare la tendenza suddetta.
Nota 75
[Aumento della
produttività e aumento di plusvalore non sono la stessa cosa.]
A questo primo approccio,
fa poi seguito il contenimento della crescita del capitale costante.
Peggioramento delle condizioni di lavoro, disinvestimenti, speculazioni,
evasione fiscale, deindustrializzazione, delocalizzazione, sono alcuni dei
rimedi immediati, escogitati dal padronato per raggiungere l’obiettivo.
[Secondo L-U la
borghesia, in quanto classe dominante, si dimostra più (di prima, del
proletariato?) consapevole dei propri interessi e lotta per difendere il suo
ordinamento sociale, in declino, basato sullo sfruttamento del proletariato. A
tale scopo la borghesia opera attraverso due fasi (che dal testo sembra che L-U
ponga come temporalmente successive l’una all’altra).] (Nota UFC)
Sviluppo del capitalismo
monopolistico di Stato
Lo scivolamento nella
crisi e le inevitabili necessità di mastodontici investimenti in capitale
costante, improduttivo per sua natura, hanno come conseguenza più importante,
la maturazione del sistema imperialista in capitalismo monopolistico di stato.
Un sistema integrato, dove il connubio e la fusione tra le multinazionali e lo
Stato, in tutte le loro sfumature, diventa un inestricabile sistema-paese. Un
sistema monopolistico che domina in tutti i campi della vita sociale, con lo
scopo di procurare e garantire profitti capitalistici, quindi privati. Non un
fenomeno storico nuovo, ma una tappa dell’imperialismo che, nel procedere della
crisi, subisce un’accelerazione, rafforzando il processo di concentrazione e
centralizzazione capitalistico.
Andando avanti nel
ragionamento va rimarcato che una delle principali confusioni su questo
concetto, è quella di confonderlo, in quanto stadio superiore della fase
imperialista, con il “capitalismo di stato” nella prospettiva del socialismo,
impiegato come mezzo di sviluppo, temporaneo, delle forze produttive nei paesi
arretrati. Di cui uno degli esempi storici più conosciuti fu la NEP bolscevica,
nei primi anni della Repubblica dei Soviet. Non è un errore concettuale da poco
confondere il “capitalismo monopolistico di stato” - nel quadro della dittatura
della borghesia - così come si determina nella metropoli imperialista, con il
“capitalismo di stato” nei paesi arretrati - concepito nel quadro della
dittatura del proletariato -.
Nota 76
[Questa affermazione ha
assonanza con quelle del (n)PCI in MP, p. 75]
Avere chiaro nei
ragionamenti in merito, qual’è la classe al potere - borghesia o proletariato –
dovrebbe essere una lapalissiana discriminante, sostanziale e formale.
Di questa confusione,
furbescamente, se ne sono approfittati i revisionisti di ogni risma, che nel
corso dei decenni hanno mestato nel torbido, spacciandola addirittura come la
“via italiana al socialismo” – iniettando velenose categorie come il welfare,
piuttosto che il sistema delle partecipazioni statali -, cercando solo di
mistificare l’abiura della lotta rivoluzionaria e l’arruolamento allo
sfruttamento capitalistico.
Nota 77
[Questo è un guazzabuglio.
Il cosiddetto welfare e il sistema delle partecipazioni statali, velenosi o
meno che siano, non sono “categorie” ma fatti e sistemi concreti, da cui è
dipesa l’esistenza e la sopravvivenza o meno di decine di milioni di persone.
Non a caso oggi le masse popolari ancora lottano per quello che viene chiamato
welfare, che è l’insieme delle conquiste che la classe operaia ha strappato
alla borghesia, e che è quindi l’opposto di quello che dice Lotta e Unità.
Velenosa qui è solo l’influenza su Lotta e Unità della Scuola di Francoforte e
degli operaisti nostrani, secondo i quali la borghesia decise di fare stare
bene la classe operaia come “trucco” per fare loro dimenticare la rivoluzione.
Così fosse, perché non continuano a usare il trucco e a farci stare bene? Gli
operai, e noi tutti, vogliamo appunto stare bene, cioè potere soddisfare le
nostre esigenze materiali e spirituali, e l’unico motivo per cui vogliamo fare
la rivoluzione e perché siamo certi che la borghesia non ha alcun potere di
farci stare bene, e anzi vuole sterminarci. Se invece la borghesia dimostrasse
con i fatti che il nostro è un pregiudizio, e che effettivamente essa è in
grado di farci stare non solo bene ma sempre meglio, certamente dovremmo
abbandonare l’idea di fare la rivoluzione, come d’altro canto predicavano di
fare Togliatti e Napolitano dagli anni Cinquanta in poi.]
Il capitalismo
monopolistico di Stato, nel centro del sistema, rappresenta un particolare
stadio di evoluzione dell’imperialismo, un sistema in cui, seppur giganteschi,
i grandi monopoli privati multinazionali non sono più in grado di affrontare
“in proprio” i mercati internazionali. I costi e gli investimenti per la
competizione risultano proibitivi ed i rischi, ancor di più. In questo senso la
sua continua evoluzione rappresenta la risposta adatta, per l’oligarchia
finanziaria, in grado di affrontare la situazione di crisi, scaricandone i
costi sull’apparato statale. Per meglio dire, sulle casse pubbliche finanziate
in larga misura dalle masse di lavoratori “dipendenti”, ai quali tocca
accollarseli, nell’impossibilità di sottrarsi a quella sorta di questua sociale
pro-capitale che sono le tasse, in tutte le loro innumerevoli, rapaci
declinazioni.
Lo Stato è trasformato,
così, in una sorta di SpA dove i maggiori azionisti sono proprio i monopoli
privati che ne dispongono a loro uso e consumo. Le costosissime e gigantesche
infrastrutture energetiche, dei trasporti, delle comunicazioni, della sanità e
dell’acqua…, costruite drenando la ricchezza prodotta dal proletariato,
passano, a prezzi stracciati, direttamente nelle mani della borghesia.
Nell’insaziabile ricerca di valorizzazione del capitale in eccedenza, infatti,
gli oligarchi hanno scoperto che anche i cosiddetti servizi possono essere resi
produttivi in termini capitalisti: dando avvio a processi di privatizzazione
del patrimonio infrastrutturale “pubblico”.
Sotto lo slogan del “privatizzare
i profitti e socializzare i costi”, si potrebbe sostenere che i monopoli
capitalistici stanno strutturando proprio quello stato imperialista delle
multinazionali che, nel passato, i loro tirapiedi avevano cercato in tutti i
modi di liquidare come una farneticante suggestione di matrice…“terroristica”!
ENI, ALITALIA, FS, TELECOM, OSPEDALI, UNIVERSITA’, POSTE, AUTOSTRADE…, sono
esempi lampanti che lo dimostrano. Così come la decisione dei governi
imperialisti, di fronte alla recente crisi finanziario-speculativa delle Borse
occidentali, di appianare i debiti delle banche espropriando migliaia di
miliardi di € di ricchezza pubblica ed indebitando tutta la popolazione con
quello stesso sistema finanziario.
Nota 78
[Quindi i monopoli
capitalisti stanno riuscendo nello scopo di costruire lo stato imperialista
delle multinazionali, secondo Lotta e Unità, che quindi sposa le tesi degli
operaisti e della Scuola di Francoforte, secondo le quali la borghesia è in
grado di governare le proprie contraddizioni.]
La guerra totale della
borghesia
Ovviamente il capitalismo
monopolistico di stato ha anche una sua evoluzione politico-militare,
contraddistinta da uno straordinario consolidamento della “macchina statale”,
l’inaudito accrescimento del suo apparato burocratico e militare, teso a
garantire una più efficace repressione contro il proletariato, progressivamente
sempre più rigido ed insubordinato, in opposizione all’aumento del tasso di
sfruttamento.
Vanno in questo senso
tutti i provvedimenti politici, legislativi, istituzionali e culturali di una
ridefinizione dello Stato in termini ultrareazionari. Un adeguamento della
forma di dominio, che pur nella continuità del contenuto di classe dello stato
borghese, adatta la sovrastruttura alla struttura imperialista. In questa
Grande Riforma oligarchica, allo Stato viene “cambiata” la pelle, abbandonando
i suoi formali caratteri democratico-borghesi quali la distinzione dei poteri,
l’uguaglianza di fronte alla legge, finanche le più elementari “libertà” politiche,
sindacali e sociali, precedentemente tollerate. Un nuovo rapporto di forza tra
le classi, a suggello del predominio della borghesia monopolista, viene
impiantato attraverso una vera e propria guerra psicologica, fatta di emergenze
continue ed insicurezza diffusa, dove persino ai vigili del fuoco, ai
tramvieri, ai portieri, ai dirigenti scolastici e sanitari, verrà imposto di
far parte del dispositivo di prevenzione e repressione politico-sociale. Un
assetto securitario per cui a tutti gli insubordinati, gli oppositori o i
semplici non-conformi al nuovo regime politico, sarà riservata la famigerata
“tolleranza zero”. La demagogica utopia borghese della “liberté, egalité e
fratenité”, tanto cara ai benpensanti, sarà definitivamente sostituita dalla ben
più ruvida e rinnovata legalità.
Per gestire la sua crisi
il grande capitale ha, quindi, dichiarato guerra al proletariato. Una guerra
civile totale, che le classi dominanti conducono contro quelle sfruttate ed
oppresse, ricorrendo a tutti i mezzi a disposizione, pur di preservare il
proprio dominio. Mezzi e metodi diversi, combinati e modulati secondo il
livello raggiunto dallo scontro, ma tutti sapientemente maneggiati. Che siano
finanziarie da lacrime, terrorismo psicologico di massa, pestaggi di piazza,
legislazioni razziste e securitarie, campagne repressive, rastrellamenti di
quartiere o ristrutturazioni selvagge e punitive, tutto è impiegato dalla
borghesia per colpire il proletariato e frustrarne le spinte emancipatorie. Da
questi orizzonti della guerra borghese, lo stesso concetto di esercito nemico
si è evoluto. Oggi, più di ieri, è inappropriato limitarlo a uomini e donne in
uniforme, dotati di armi da fuoco. A questa milizia armata i capitalisti
affiancano figure “insospettabili”, che possono vestire la giacca e cravatta
del manager del consiglio d’amministrazione, il gessato del diplomatico, il
cappuccio del massone, il doppiopetto del burocrate, i jeans del pusher, od
impugnare la penna del giornalista embedded, la valigetta del bonzo sindacale,
il conto del direttore di banca…
Un esercito di nuovo tipo
al servizio del Capitale che, coscientemente e costantemente, attacca la classe
lavoratrice sul terreno economico, sociale, politico, ideologico, culturale e
militare, senza esclusione di colpi, apparentemente con “poco spargimento di
sangue”. Basta però contare le migliaia di morti bianche nei luoghi di lavoro,
quelle per autolesionismo di chi non sa più come tirare avanti, quelle per
malattie rese incurabili dai costi proibitivi delle cure e tutte le altre non
evitate perché profittevoli, per capire che la società in cui siamo costretti a
vivere è l’immenso campo di battaglia della guerra totale non dichiarata che il
padronato sta conducendo in nome del profitto e dove la maggioranza delle vittime
non sono combattenti, ma inconsapevoli effetti collaterali della spietatezza di
classe (borghese) in difesa di un sistema marcio: quello capitalista.
Nota 79
[Qui è accenno alla
guerra di sterminio non dichiarata della borghesia imperialista contro le masse
popolari.]
Il fronte esterno e la
guerra imperialista
Proporzionalmente
all’inasprimento delle contraddizioni e delle difficoltà del sistema sul fronte
interno, la militarizzazione dei rapporti sociali avviene anche a livello
internazionale, sul cosiddetto fronte esterno.
Mentre la competizione
tra le potenze capitaliste si è fatta più aspra, nel tentativo di accaparrarsi
e controllare monopolisticamente i mercati internazionali, la guerra,
nuovamente, viene ritenuta la via più sicura e semplice per proteggersi dagli
effetti della crisi. In chiave economica il business della
distruzione/ricostruzione delle forze produttive, rappresenta un vero e proprio
affare capitalista. Migliaia di miliardi di € sottratti ai servizi sociali e
gettati nel buco nero delle distruzioni di massa e delle ricostruzioni
clientelari, a favore delle multinazionali che sono dietro le caste
governative.
Una variante del tema già
noto del business guerrafondaio è rappresentata dal processo di privatizzazione
della guerra stessa. L’abbandono della “leva obbligatoria” di massa a favore di
eserciti professionali di elìte, ha rappresentato solo il primo passo di una
strategia che punta alla vera e propria aziendalizzazione della guerra, alla
strutturazione del cosiddetto Progetto Difesa SpA. Nell’ottica del capitalismo
monopolistico di Stato, la logistica, i rifornimenti e finanche i
combattimenti, saranno sempre più appaltati a multinazionali del settore che
mettono a disposizione degli stati appaltatori, mezzi e mercenari. In questo modo,
nonostante la demagogia mediatica tesa a giustificarne i costi – rigorosamente
mantenuti “pubblici” -, viene svincolata la condotta della guerra dai controlli
e dalle Convenzioni internazionali sottoponendola alle convenienze di profitto
di multinazionali che hanno contemporaneamente le mani in pasta in tutti i
settori coinvolti nella guerra.
A livello politico e
strategico, l’imperialismo mostra che l’aggressione e la violenza sono i metodi
che predilige usare contro chi si oppone ai suoi piani, per la spartizione dei
mercati e rapinare i popoli delle loro ricchezze. Dall’inizio del nuovo secolo,
apertosi con il fatidico e “provvidenziale” 11 settembre 2001, questo sistema
ha sempre più militarizzato la propria politica estera, facendo un metodico
ricorso all’uso della guerra per migliorare le proprie posizioni. Non solo nei
casi più eclatanti come l’aggressione a tutta l’area geostrategica che va dalla
Palestina all’Afghanistan, passando per l’Iraq, la Siria e l’Iran, ma
aumentando i presidi in Africa, America Latina e Asia, col compito di vigilare
i siti strategici e di garantire i flussi di risorse importantissime per i
propri profitti. Un assalto alle relazioni internazionali post-Guerra Fredda,
teso a ridisegnare lo schema dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo su scala
planetaria caratterizzato dall’oppressione di un pugno di nazioni oligarchiche
ai danni di tutte le altre. Un assalto condotto in maniera aggressiva e
spregiudicata, di volta in volta ammantato dalle bandiere ipocrite della “lotta
al terrorismo”, delle “missioni umanitarie” e per la diffusione dei valori
della “democrazia” (occidentale). Una pacificazione in punta di missile che
tanto ricorda le pax imperiali dei secoli passati e che prevede letteralmente
la desertificazione economico-sociale e politico-militare, nonché culturale, di
intere aree e popolazioni del pianeta. Una desertificazione che poi vorrebbero
chiamare “pace” (la loro pace).
E il proletariato?
Il passo titanico che il
movimento operaio deve compiere è quello di smarcarsi da apparati e burocrati
parassitari, lottare e resistere costruendo al tempo stesso la propria
indipendenza politica, ideologica ed organizzativa.
Nota 80
[Senza retorica, il passo
che il movimento operaio, o meglio, che il movimento comunista cosciente e
organizzato a partire dai suoi dirigenti e dai paesi imperialisti deve compiere
è avanzare nell’elaborazione scientifica della lotta di classe, il che
consentirà di lasciare alle spalle l’economicismo di cui questo documento è
espressione chiara. Non servono titani, ma compagni che hanno l’umiltà di
mettersi a studiare in modo che quando parlano sono sicuri di quello che dicono,
in modo che non dicano una cosa e il suo contrario, in modo che quando parlano
di un concetto della teoria rivoluzionaria a partire dal marxismo, cioè dalla
sua prima formulazione, siano precisi come preciso è il bisturi del chirurgo la
cui mano è guidata da una scienza acquisita in decenni. Il rivoluzionario deve
essere anche più preciso del chirurgo, perché da lui dipende la vita della
collettività, e non solo di singoli.]
Ciò che manca oggi non è
la resistenza e la mobilitazione di spezzoni di classe operaia e proletaria.
Anzi, essa si moltiplica per effetto della crisi. Quello che manca è un punto
di riferimento di classe, la cui costruzione può essere indubbiamente favorita
da un’azione politica capace di assumersi il duplice compito di interagire con
le lotte e le mobilitazioni operaie e popolari e di serrare i ranghi e di una
scompaginata capacità rivoluzionaria che, frammentata, è troppo debole per
svolgere un ruolo all’altezza della situazione.
Ai più coscienti tra i
militanti è noto da tempo che sulla strada per l’indipendenza di classe, il
problema principale che attualmente deve affrontare il proletariato, è la
mancanza di un suo stato maggiore politico che concretizzi una strategia
rivoluzionaria. Non considerando le caricature riformiste o i circoli comunisti
di tipo famigliare – per composizione o dimensione -, la questione del Partito
è lungi dall’essere risolta. Vale la pena precisare, però, quali sono gli
elementi mancanti per poter affermare che un Partito comunista può dirsi
formato e su cosa bisogna lavorare.
Per poter parlare di
un’Organizzazione Comunista adeguata allo scopo, è necessaria la presenza
contemporanea di tre elementi: un nutrito corpo di militanti di base, un buon
livello di quadri intermedi, un qualificato e determinatissimo nucleo di
dirigenti. Dal punto di vista storico-concreto nel nostro paese, lungo tutto
l’articolato fronte dello scontro di classe, non è difficile incontrare
militanti di base e quadri intermedi che si battono “come leoni”, nelle varie
trincee del conflitto. Sono sotto gli occhi di tutti le migliaia di operai e
proletari che nei luoghi di lavoro, sul territorio e nelle scuole, si
comportano da “comunisti”, organizzando e dirigendo la “resistenza” proletaria
all’assalto padronale. Non c’è quasi tema sul quale, seppur in ordine sparso,
questi militanti non cerchino di interdire l’avanzata nemica, mobilitando ed
organizzando i settori di massa in cui sono inseriti e di cui sono espressione.
Il più delle volte accettando il compromesso di essere “parcheggiati” in
organizzazioni politiche e sociali che non riflettono le loro aspirazioni
rivoluzionarie, ma che per lo meno rispondono ad elementari ed indispensabili
necessità organizzative.
Di potenziali
“comunisti”, in parte coincidenti con i suddetti, sono composti anche le
centinaia di circoli politici extraparlamentari che in tutto il paese, a vario
titolo, cercano di fornire una concezione ed un metodo di lavoro che vada oltre
l’orizzonte resistenziale della lotta.
Il vero limite è
rappresentato dal fatto che finora il proletariato, inteso nell’accezione
politica di settore di classe più cosciente ed organizzato, non è riuscito a
trovare in sé la determinazione e il metodo adatti per esprimere il proprio
stato maggiore in grado di centralizzare le energie proletarie disponibili, trasformandone
l’atteggiamento difensivo in uno politicamente offensivo. Una delle cause
“soggettive” di questo divario tra realtà e necessità, va ricercata nella
frantumazione e nel settarismo diffusi. Un frutto avvelenato della sindrome da
“ritirata strategica”, maturata tra le file della generazione di militanti
politici usciti sconfitti dall’impetuoso - a tratti entusiasmante – ciclo di
lotte a cavallo tra gli anni ’60 e ‘80. A seguito di quel fallito assalto al
cielo, la necessità di “salvare il salvabile”, la disorganizzazione della
“ritirata” - politica e sociale - unite all’infiltrazione di una pervasiva
mentalità individualista, diffusa dalla borghesia trionfante, hanno determinato
concezioni e metodi di lavoro che hanno intaccato in profondità la coscienza
del proletariato, intossicando il concetto stesso di Organizzazione Comunista,
lasciato degradare e coincidere con le formazioni politiche
riformistico-istituzionali o con ristretti circoli politici a conduzione
egocentrica.
Adattare concezione e
metodo della lotta alla situazione concreta
Questa contraddizione ci
riguarda tutti, soprattutto quelli tra di noi che si ritengono “i più capaci”
del proprio circolo e per i quali incombe il peso maggiore del ritentare di
fare un passo in avanti. Un passo nella rielaborazione di una concezione e di
un metodo adeguati che, interpretando scientificamente la realtà, sappiano
cogliere gli elementi di novità ed elaborare una strategia politica adatta ai
tempi, capace di combinare diverse tattiche e forme di lotta, da contrapporre
alla guerra totale della borghesia sui differenti terreni dello scontro. Una
combinazione centralizzata e simultanea della lotta politica, sociale e
ideologica, che tra le masse definisca il profilo di una strategia in grado di
battere il nemico di classe, ridefinito e blindato nella sua “nuova” egemonia
corazzata.
Su questa strada va
ricalibrata la concezione dello scontro Capitale/Lavoro e l’analisi della
composizione di classe. Soprattutto va risolto una volte per tutte l’equivoco
che ruota attorno al concetto di PRODUZIONE. Per quanto ci riguarda, lo
consideriamo come segue: “Lavoro produttivo, nel senso della produzione
capitalistica è il lavoro salariato che, nello scambio con la parte salariale
del capitale (la parte del capitale spesa in salario), non solo riproduce
questa parte del capitale (o il valore della propria capacità lavorativa) ma
oltre ciò produce plusvalore per il capitalista. E’ produttivo solo il lavoro
salariato che produce capitale …” [K. Marx Teorie del plusvalore Vol. 1°].
Da qui ci deriva che il
punto di riferimento dell’azione politica debbono essere principalmente i
lavoratori produttivi, che rappresentano la centralità nel sistema della
contraddizione Capitale/Lavoro.
Questo principio sulla
produttività del lavoro, che rappresenta il filo rosso della nostra analisi
della crisi capitalista, va impiegato per diradare le incrostazioni
politico-ideologiche, derivate dalla confusione generata dall’imponente
ridimensionamento della classe operaia tradizionale nella realtà italiana. La
gigantesca ristrutturazione o delocalizzazione di tradizionali settori
produttivi (metalmeccanica, chimica, siderurgia, ecc.) attuata in cerca di
migliori profitti, ha solo trasformato la classe operaia, non l’ha cancellata.
Al contrario si è
assistito all’incremento esponenziale del processo di proletarizzazione di
classi e gruppi sociali intermedi. Con un tessuto produttivo (di plusvalore)
che nel contenuto si è ulteriormente centralizzato e concentrato attorno a
potentissimi oligopoli multinazionali, ma che nella forma è stato volutamente
frammentato in un gigantesco “indotto produttivo”, in modo da poter affrontare
meglio la crisi ed amministrare le contraddizioni. Le condizioni produttive
della rigidità operaia sono state polverizzate nella frammentazione produttiva
che, lungi dal rappresentare il “riscatto” della piccola-media impresa, ne ha
sancito la maggior sottomissione ai grandi consorzi bancario-industriali, che
decidono costi, prezzi, modalità lavorative, beni e servizi prodotti, mantenendo
saldamente il comando nelle loro mani attraverso un articolato sistema di
controllo. In questo modo, milioni di operai sono stati sparpagliati in un
funzionale pulviscolo produttivo, che ha reso inadeguate le formule
politico-organizzative vigenti dalla seconda metà del secolo scorso,
costringendoci tutti ad un aggiornamento e ad un sforzo elaborativo per una
nuova organizzazione della classe, sia politica che sociale, che tenga conto di
questa materialità. E’ innegabile che come effetto della centralizzazione e
della concentrazione capitalista, della sua ridefinizione, sono comparse
“nuove” figure di proletariato produttivo, marginali solo pochi lustri
addietro. Il lavoratore precario e quello immigrato, sono le “nuove” figure
proletarie, produttive, che vanno ad aggiungersi alle vecchie figure operaie,
sempre più ridimensionate dalle ristrutturazioni capitaliste. Generalmente, in
termini di produttività del lavoro, l’immigrato o il precario risultano essere
più produttivi per il capitale. A parità di lavoro, infatti, percepiscono un
salario minore.
Sia qualitativamente che
quantitativamente, la comparsa di queste “nuove” figure, rende necessaria
un’attualizzazione del concetto stesso di centralità operaia. Attualizzazione
che non significa stravolgimento, ma sforzo dialettico di legare questo
concetto politico-organizzativo con la materialità dell’odierna composizione di
classe.
In conclusione, non abbiamo la pretesa, con
questo nostro scritto, di risolvere i decennali problemi che attanagliano il
movimento proletario. Vogliamo semplicemente sottoporre all’attenzione di chi è
interessato al confronto per avanzare, alcuni spunti della nostra riflessione
collettiva condotta in questi ultimi anni, coscienti che necessitano di
maggiori e qualificati approfondimenti.
Siamo però convinti che
nel prossimo futuro bisognerà moltiplicare gli sforzi per superare la mentalità
settaria e la sfiducia diffusa, che vede i problemi sul terreno come
insormontabili, spesso commettendo l’errore di scambiare la propria
immaturità/inadeguatezza individuale/collettiva con la situazione generale,
rovesciando quindi i termini dei problemi.
Bisognerà lottare molto
per unirsi e bisognerà unirsi per lottare meglio. Lo abbiamo affermato nel
tempo e siamo tuttora persuasi che questa sia la via politica da percorrere.
Una strada che probabilmente, alla luce dell’esperienza maturata, non darà
risultati immediati ma è, a nostro avviso, l’unica percorribile. L’unica che
permette di fare i conti con le proprie virtù ed i propri limiti. Dobbiamo
lavorare per creare le condizioni più favorevoli al confronto tra i circoli più
politicizzati ed attivi del movimento di classe, valorizzando il patrimonio di
esperienze di cui sono portatori.
In questo contraddittorio
percorso, pensiamo che si possa e si debba procedere con una linea di massa,
concepita come una linea per la resistenza proletaria, con cui definirsi in
fronte di classe con tutti quei soggetti della lotta politica e sociali
disposti ad avanzare.
Nota 81
[Un accenno utile, sopra,
alla scientificità come criterio necessario. Della linea di massa però non si
dà una definizione scientifica. Lotta e Unità intende “linea di massa” come
“stare tra le masse”, e lì, in quei luoghi, incontrarsi con altre forze e
pianificare unità possibili, in incontri a
latere. La linea di massa invece è un processo pratico e teorico che serve
al partito comunista per legarsi con le masse popolari, e la cui definizione
precisa è stata data da Mao Tse tung. La definizione della linea di massa è uno
dei contributi più importanti del maoismo. Il metodo della linea di massa è
descritto in modo approfondito anche nei Quaderni
del carcere di Gramsci, anche se non è chiamato con questo nome e anche se
Gramsci non lo potè sperimentare. Questo strumento è d’importanza tale che
senza di esso il partito comunista non può legarsi alle masse popolari. Questo
è un motivo per conoscerlo bene e per maneggiarlo con la massima maestria.(1)
NOTE
1. La definizione più
recente sul tema è in Mao Tse-Tung e la linea di massa, in Resistenza, n.3, marzo 2014, in http://www.carc.it/index.php?option=com_content&view=article&id=1891:mao-tse-tung-e-la-linea-di-massa&catid=172:resistenza-n-32014&Itemid=152.
Abbiamo coscienza che
inizialmente sarà possibile adottare questa linea su contenuti e conflitti
limitati e parziali, a volte contingenti, che però si presenteranno come
terreni da seminare con i semi dell’anticapitalismo, dell’antimperialismo,
finanche del comunismo. L’importante in questa fase, è sedimentare un lavoro in
comune, cercando di spazzare via vecchi pregiudizi, approntando dei laboratori
di lotta e di confronto politici che permettano di ossigenare il dibattito, di
far fluire lo scambio di idee, contribuendo attivamente a togliere il
proletariato dall’immobilismo politico, favorendo l’affossamento della
borghesia nella sua stessa crisi.
Piattaforma Comunista – Proposte
per un dibattito
[Tratto da Teoria &
Prassi, n. 8, pagg. 5-7 - anno 2003]
PROPOSTE PER UN DIBATTITO
La creazione di una
solida organizzazione rivoluzionaria radicata tra la classe operaia, che sia il
germe del partito, è il primo e più importante compito che dobbiamo assolvere.
Quando lo scorso ottobre
siamo usciti con la nuova serie di “Teoria & Prassi” avevamo in mente una
idea piuttosto precisa: non ci interessava una rivista fra le tante che
vivacchiano sugli scaffali delle librerie; la nostra doveva essere una rivista
militante, che contribuisse a sviluppare la partecipazione degli operai
avanzati alla lotta di classe in quanto “partito indipendente”, del tutto
distinto dalle correnti borghesi e piccolo-borghesi. Soprattutto doveva essere
rivista con una funzione organizzativa in grado di creare attorno a se una
impalcatura, a cominciare dagli elementi esistenti; capace di estendere i
legami fra i circoli ed i gruppi comunisti del nostro paese, di individuare ed
aggregare le forze che vogliono avanzare verso il partito, riunendole in un
solo programma, in una sola organizzazione.
Dunque un mezzo per
svolgere una funzione propulsiva nel campo dell’ organizzazione comunista, per
andare oltre le realtà che la producono, per mettere di fronte ai propri
compiti numerosi compagni, ponendo in primo piano quelle questioni che -corrispondendo
alle condizioni ed alle necessità della situazione -spostano il movimento su
posizioni più avanzate. Con questi presupposti vogliamo affrontare il problema
più scottante del momento: l’ incapacità dei comunisti di compiere passi
decisivi verso la costruzione del partito. Una incapacità che perdura
nonostante le condizioni obiettive siano favorevoli, nonostante le tradizionali
organizzazioni politiche riformiste versino in una crisi profonda e non siano
più in grado di risolvere alcun compito che la nuova fase, caratterizzata
dall’acutizzazione dello scontro di classe, pone. Noi pensiamo che oggi il
problema principale non consiste nella poca chiarezza sugli obiettivi finali.
Sta piuttosto nello scarso radicamento tra la classe operaia da parte degli
elementi e gruppi comunisti (che per giunta sono divisi fra loro), nell’
assenza di un programma comune, di una piattaforma politica, nelle debolezze
politiche e tattiche. Guardiamo alla realtà. Noi abbiamo una ripresa dei
movimenti di massa, specie della classe operaia, abbiamo organizzazioni di
massa degli operai e degli altri lavoratori sfruttati, alcuni dei quali con una
visione socialista spontanea (non scientifica), nel senso che afferrano la
necessità che i lavoratori devono dirigere la società. Dall’ altro lato abbiamo
il movimento comunista che consiste in una serie di piccoli circoli e gruppi
spesso imbevuti di settarismo e di localismo, composti principalmente di
intellettuali e lavoratori d’avanguardia non inseriti nelle grandi
concentrazioni industriali. Nella situazione attuale movimento operaio e
movimento socialista esistono praticamente uno separato dall’altro, uno accanto
all’altro. Mentre gli operai lottano e scioperano i comunisti analizzano la
società contemporanea e rivendicano il suo superamento rivoluzionario. Si fanno
vedere nelle manifestazioni, in qualche iniziativa pubblica, ma quello che
propagandano rimane una aspirazione astratta, con scarsa incidenza nella
realtà, a causa del distacco esistente fra il socialismo scientifico e la lotta
di classe. Se i due movimenti continuano a stare separati l’ uno dall’ altro,
se continueremo ad avere la prassi senza la teoria e la teoria senza la prassi,
se non riusciremo a legare indissolubilmente il marxismo-leninismo con la vita
e la lotta del movimento operaio non avremo mai il partito. Avremo invece un
duplice danno per entrambi i termini di questa contraddizione, che si
indeboliranno a vicenda. Un danno per il movimento spontaneo che staccandosi
dal comunismo non potrà mai diventare un movimento rivoluzionario, ma resterà
sempre un movimento di carattere ristretto, economico, senza alcuna capacità
trasformatrice della società. In definitiva un appendice dei partiti borghesi e
riformisti, come segnalano molti lavoratori avanzati che sentono di “lottare a
vuoto”. Un danno per il movimento comunista che senza collegarsi con il
movimento operaio, senza penetrare nella classe operaia rimarrà sempre un
fenomeno di opinione limitato, debole, tendente al cospirativismo, all’
intellettualismo, senza alcuna possibilità di svilupparsi ulteriormente.
Soltanto l’ unione di questi due movimenti può rafforzare entrambi, può fornire
una base solida sia all’ uno che all’ altro. Se noi studiamo l’ attività
pratica dei nostri maestri, dei grandi capi rivoluzionari, vedremo che il punto
fondamentale della loro attività pratica e politica è sempre consistito nel
portare la teoria scientifica del socialismo dentro il movimento operaio, nel
sostenerne il più stretto legame, ed in una “certa misura” la loro fusione.
Nota 82
[Teoria e Prassi indica
il problema: teoria e pratica sono separate. Il problema, dice TP, non “è la
poca chiarezza sugli obiettivi finali”. Infatti il problema non è sapere dove
vogliamo arrivare, ma come arrivarci, e non solo come arrivare al comunismo, ma
oggi come risolvere la questione della relazione tra teoria e pratica, che è
relazione dialettica, e che se non è trattata come relazione dialettica come
relazione non esiste, cioè esistono solo una teoria da una parte e una pratica
dall’altra. TP dice che la separazione è un problema che va risolto, ma non
dice come.]
E’ solo grazie a questa
particolare combinazione che la lotta di classe diventa lotta cosciente per l’
abolizione dello stato di cose presente e si crea la forma suprema di
organizzazione di classe: un forte e combattivo partito comunista, il partito
indipendente della classe operaia. In caso contrario si tratterebbe di un
partito campato in aria, slegato dal movimento operaio, una setta di “testimoni
di Lenin”. Chi non comprende questa vitale necessità, chi si tiene in disparte,
chi amplia la scissione, chi crea ostacoli ulteriori o si oppone alla relativa
fusione con le più larghe masse proletarie (sia sottomettendosi alla teoria
della “spontaneità“, sia limitando i compiti al coltivare il proprio orticello,
sia trascinandosi alla coda delle masse con l’ economicismo, sia sostituendosi
ad esse con azioni provocatorie) non solo dimostra di non aver alcuna fiducia
nella classe operaia, ma con la propria posizione retrograda reca un grave
pregiudizio alla causa del partito e del socialismo. E poco importa in tal caso
se si definisca comunista. Mentre prendiamo nettamente le distanze da queste
tendenze arretrate e liquidazioniste dobbiamo chiederci: è possibile fare dei
passi in avanti per portare le idee comuniste nella massa del proletariato?
Quali proposte di carattere politico-organizzativo dobbiamo lanciare per
stringere i legami fra le realtà comuniste delle varie città e svolgere un
ruolo più incisivo nel processo di formazione del partito? Come guadagnare alla
nostra causa gli operai più avanzati, senza i quali è impossibile conquistare
una influenza nelle grandi masse sfruttate?
La capacità dei comunisti
non sta nel proclamare teoricamente queste necessità che sorgono da potenti
cause obiettive. Sta nel trovare nella pratica la via particolare dell’ unione
del movimento comunista con il movimento operaio che in Italia sarà
necessariamente diversa, seguirà un percorso specifico ed avrà dei tempi propri
rispetto a quella seguita in altri paesi; ciò a causa delle particolari
condizioni politiche, delle tradizioni, del grado di sviluppo ideo-politico
delle avanguardie e delle masse, ecc. Nelle attuali condizioni pensiamo che
-nonostante tutte le difficoltà che abbiamo davanti, nonostante le esitazioni
che ancora affliggono diversi compagni -sia possibile, doveroso e necessario
iniziare questo processo dando vita ad una organizzazione che prepari la
costruzione del partito comunista come partito di tipo bolscevico. Il primo
passo in questo senso dovrebbe essere la formazione di una “unione di lotta per
il socialismo” sulla base dei principi marxisti-leninisti applicati alle
particolari condizioni italiane. Tale movimento politico centralizzato – che si
distingue dal partito comunista per il suo legame ancora poco sviluppato con il
proletariato, che sorge proprio per consolidare ed estendere tale rapporto
organico -avrà essenzialmente due funzioni:
1) sostenere le lotte
della classe operaia e delle masse sfruttate, le esplosioni della protesta
sociale, collegando la lotta politica rivoluzionaria alle rivendicazioni
immediate, cooperando alla loro organizzazione ed al loro sviluppo politico;
2) definire le basi, i
prerequisiti ideologici-politici-programmatici-organizzativi del futuro partito
ed i passi necessari per raggiungere questo obiettivo, unendo tutte le forze
rivoluzionarie disponibili e gli operai più coscienti.
La creazione di
un’organizzazione intermedia -che ponga esplicitamente la ricostruzione del
partito come suo fine e compito prioritario -servirà a costituire quella massa
critica che servirà a dar luogo ad una reazione a catena consistente nel
raggruppamento dei circoli comunisti, nella convergenza dei genuini elementi
comunisti, nell’ avvicinamento di gruppi di operai rivoluzionari, di lavoratori
avanzati che esistono nelle varie città (i quali fin da oggi costituiscono il
nostro principale referente). Allo stesso tempo incoraggerà il sorgere di nuovi
circoli operai, di gruppi e associazioni comuniste che in seguito troveranno la
strada della unità. E’ in questo modo che si passerà dalla propaganda fra pochi
circoli ed elementi alla agitazione fra molti sfruttati, creando sulla base di
una giusta linea un legame politico con la classe operaia e le grandi masse
popolari. Su quale base dar vita a questa formazione? E’ chiaro che se non c’è
unità di fondo sui principi ideologici il tentativo di creare una
organizzazione unica e autodisciplinata, di pianificare e portare avanti una
attività pratica è destinato al fallimento. Ciò è dovuto al fatto che i
componenti di un’ organizzazione eclettica -a causa del loro diverso
orientamento -non riusciranno a mettersi d’accordo sulle attività ritenute
giuste ed appropriate, si procederebbe in ordine sparso e ciò che divide
finirebbe per prevalere su ciò che unisce. Per questo siamo contrari ai fronti,
alle reti, ai coordinamenti, ecc., che in realtà sono nebulose in cui si
mescolano correnti ed organismi che si trovano su giuste posizioni ed altri che
sono ostili al socialismo proletario, che lottano contro di esso pur mostrando
di trovarsi sul suo terreno generale. I fronti, le reti, ecc. servono più ai
secondi che ai primi, e spesso vengono utilizzati strumentalmente allo scopo di
evitare l’ isolamento degli opportunisti di destra e di sinistra. Certi
“ambiti” in cui ogni realtà mantiene la propria autonomia politica ed
organizzativa, in cui ognuno sostiene a modo suo e secondo la sua natura la
ricostruzione del partito, sono più vicini allo spirito di Porto Alegre che a
quello del bolscevismo. Noi parliamo di unificazione sulla base di una solida
ed integrale piattaforma marxista-leninista. Abbiamo bisogno, senza scivolare
nel dottrinarismo astratto, di definirci correttamente poggiando sui principi
direttivi del socialismo scientifico elaborati da Marx, Engels, Lenin e Stalin.
Principi che vanno applicati, approfonditi e sviluppati in modo conforme al
mutare della situazione concreta, degli sviluppi sociali, delle particolarità
dei diversi paesi. Diversamente da molti elementi che in un modo o nell’ altro
respingono aspetti essenziali del marxismo-leninismo oppure pretendono di
correggerlo con “superiori” apporti, noi siamo dei comunisti coerenti, nel
senso che non ci conciliamo con nessuna dottrina borghese o piccolo-borghese,
con nessuna revisione del socialismo scientifico. Non è la concezione del mondo
marxista-leninista a dover essere messa in discussione. E’ il nostro contributo
ad essa che dobbiamo discutere, la nostra analisi e comprensione in campo
storico, economico, filosofico, scientifico, ecc. delle trasformazioni che si
sono succedute negli ultimi decenni. Per poter fare dei passi in avanti
dobbiamo dunque basarci sulle migliori e più alte esperienze del movimento
operaio e comunista internazionale dai tempi di Marx ed Engels; dobbiamo
prendere come punto di riferimento indispensabile la teoria e la prassi della
III Internazionale, le elaborazioni del Kominform, la lotta contro il moderno
revisionismo (adottato ufficialmente nel XX Congresso del PCUS), gli sviluppi
prodotti dall’odierno movimento comunista internazionale; dobbiamo saldamente
appoggiarci sulle tradizioni comuniste, rivoluzionarie ed antifasciste della
classe operaia e delle masse oppresse del nostro paese, che vanno difese e
portate avanti. Dove è in questo senso la differenza fra una organizzazione
intermedia ed il futuro partito? La differenza sta che nel futuro partito l’ omogeneità ideologica dovrà
essere totale, mentre oggi non può essere ancora tale. Ci sono e
rimarranno per un certo tempo -ed entro certi limiti -disaccordi non di
principio, differenti interpretazioni di alcuni processi storici e fenomeni
sociali, punti di vista diversi su alcune questioni tattiche, ecc. Nelle
condizioni attuali tutto ciò è naturale e non dobbiamo trarne pretesti per la
divisione, che sarebbero -questi sì -manifestazioni di settarismo e dogmatismo.
Al contrario, abbiamo il dovere di approfondire e chiarire tali questioni
tramite il confronto che deve avvenire mentre procediamo nel lavoro comune tra
la classe operaia (dato che non ci limitiamo alle dichiarazioni di principio ma
vogliamo metterle in pratica). E’ per questo motivo che insistiamo su alcuni
concetti chiave. Primo, per poter lavorare politicamente in modo adeguato alle
nostre necessità abbiamo bisogno di applicare fin da subito il principio
fondamentale del centralismo democratico (vedi articolo apparso sul numero 7
della nostra rivista). Grazie ad esso sono elaborate, sintetizzate e convertite
in un unico orientamento le opinioni e le iniziative che sorgono dai militanti
e potremo procedere con una sola volontà di azione, una disciplina comune e con
la necessaria vigilanza.
Nota 83
[Una “organizzazione
intermedia” che non si unisce su una e una sola scienza (scienza che non è
dogma su cui inginocchiarsi ma lavoro in corso su un campo nuovo) e dove quindi
ci sono soggetti e aree ciascuno dei quali mantiene riserve, non seguirà le
pratiche comuni che il centralismo democratico impone. Questi problemi esistono
in Italia e in tutto il mondo, anche se secondo TP “questi sono problemi che non esistono dal
momento che vogliamo farla finita con le tante strutture che vanno ognuna per
proprio conto”. Se TP voleva farla finita con tutto questo poteva averlo già
fatto da tempo. TP, invece, come altri organismi simili, viene piuttosto da un
processo contrario, cioè da una situazione dove lavoravano insieme persone a
migliaia, come il movimento marxista leninista degli anni Sessanta e Settanta
in Italia, e da un movimento comunista come quello marxista leninista che aveva
governo diretto su un terzo dell’umanità. Perché oggi sono ridotti a un
frammento di tutto ciò?]
Secondo, una
organizzazione comunista deve differenziarsi non solo ideologicamente ma anche
politicamente dai gruppi che tali non sono, siano essi di lotta o partiti come
“Rifondazione socialdemocratica”. Lo deve fare cominciando ad elaborare un
programma generale che partendo dalla situazione e dai problemi reali mostri
come possiamo spazzare via la vecchia società basata sullo sfruttamento e
costruire una società in cui il potere sia nelle mani della classe operaia e
dei suoi alleati. Sulla base dell’ unità sui fondamenti ideologici, del
centralismo democratico e di un programma per un’ Italia nuova e socialista non
abbiamo alcun timore del “prevalere di una maggioranza” sull’ altra, alcuna preclusione
verso l’ espressione di tutte le sfumature di opinione esistenti fra i
marxisti-leninisti per dar vita ad una vera discussione e ad un approfondimento
delle questioni teoriche e politiche. Questi sono problemi che non esistono dal
momento che vogliamo farla finita con le tante strutture che vanno ognuna per
proprio conto e dirigerci verso una organizzazione unica, combattiva, tesa alla
costante soluzione dei problemi teorici, politici, tattici ed organizzativi,
inserita nella pratica sociale. Ciò consentirà anche lo sviluppo di un serrato
e costruttivo confronto esterno a partire dai principi e dal programma. Quale
dovrà essere uno dei primi passi, se non il primo, di questa organizzazione?
Secondo noi dovrà essere la realizzazione di un giornale politico nazionale,
che potrà sorgere solo dalla sforzo congiunto dei comunisti e delle
organizzazione proletarie più avanzate. Non un foglietto fra i tanti ma un
organo capace di svolgere una azione politica degna di questo nome, creando l’
intelaiatura intorno alla quale convergeranno le forze più mature, svolgendo
una propaganda ed una agitazione rivoluzionaria senza la quale non potremo
avere una funzione dirigente nel movimento operaio ed andare verso il partito.
Su tali temi e indicazioni chiamiamo ad un dibattito, al quale invitiamo tutti
i sinceri comunisti e rivoluzionari.
Esso servirà ad avanzare
nel processo unitario, a tracciare la linea di demarcazione verso le numerose
deviazioni revisioniste, socialdemocratiche ed estremiste che affliggono il nostro
movimento, a definire alcuni elementi di programma politico, a mettere
finalmente all’ ordine del giorno l’ unione dei comunisti e prendere le
opportune decisioni. In ogni caso ci riferiremo ai diversi gruppi ed elementi
non per quello che dicono di essere, ma per il contenuto effettivo della loro
linea e del loro lavoro pratico. Per tornare a “Teoria & Prassi” pensiamo
che queste pagine avranno un significato superiore se rifletteranno il
superamento della deleteria e spesso ingiustificata frammentazione
organizzativa, della reciproca indifferenza che regna fra le diverse realtà
comuniste; se di conseguenza esprimeranno la concentrazione delle forze sane,
che rappresenta la condizione indispensabile per consentire lo sviluppo di
tutta l’ attività che prospettiamo.
Conclusioni
Ai promotori dell’appello
Cari compagni,
dall’esame dei documenti da voi proposti si riscontrano le principali deviazioni del movimento comunista, cioè
dogmatismo ed economicismo. Sono due facce della stessa medaglia, e per rimuoverle
occorre rimuovere l’errore che le accomuna. Senza di questo, nessuna unione è
possibile così come è impossibile qualsiasi avanzamento del movimento comunista
in generale e in ogni sua parte.
Alcuni soggetti che qui intervengono si lamentano
delle frammentazioni ma non le spiegano. Queste sono dovute a una prima
“divisione dell’uno in due”, che è quella tra chi opera o cerca di operare
in modo scientifico, cioè sulla base
della “verità che è una sola”, e il
resto che si divide a sua volta in area che si dichiara comunista e area che
non si dichiara tale, e qui sta la sinistra borghese le cui “narrazioni di
fantasia si moltiplicano all’infinito”(1). Entro l’area che si dichiara
comunista si danno a loro volta divisioni, la principale tra le quali è quella
tra area antirevisionista e area revisionista. La prima, a sua volta, si divide
seguendo le due deviazioni che sono il dogmatismo e l’economicismo, e qui
arriviamo ai documenti che voi promotori dell’appello affiancate a quelli della
carovana. Vi chiediamo se li ponete a disposizione perché ciascuno abbia modo
di fare la sua scelta, o se chiedete a chi li ha scritti di togliere le parti
che non collimano e mantenere quelle su cui si dà identità.
Ora chiaro che la seconda richiesta del genere non
può avere riposta positiva, e non per cattiva volontà dei vari soggetti
interpellati. Negli ultimi vent’anni più volte e più soggetti hanno tentato
questa strada, ed è sempre fallita. La ragione sta nel fatto su cui insisto: ci
si unisce su una visione giusta della realtà, e non combinando diverse
concezioni del mondo. Non c’è movimento rivoluzionario senza teoria
rivoluzionaria, e questa teoria è una sola. Ognuno deve sforzarsi di
elaborarla, di elaborare scientificamente l’esperienza della lotta di classe
dei paesi imperialisti. Ogni avanzamento in questa elaborazione sarà
avanzamento della rivoluzione e su questo ci uniremo, su questo le forze
migliori si uniranno. Non si sono ancora unite? Questo non è strano: la via da
percorrere è tutta da inventare, come quella, appunto, di una carovana che non
procede sulla strada, ma la crea. Questo richiede tempo, e comporta alta
probabilità di errore.
L’unica parte su cui c’è identità tra tutti i
documenti che voi portate sta nel dichiararsi comunisti, il che è proprio poco.
Il nome che uno si dà, dice Hegel, è la cosa meno universale che ci sia e più
aleatoria: il fatto che io all’atto della mia nascita venga chiamato e quindi
di seguito riconosciuto come Pietro o Paolo avrà scarsa influenza su ciò che
sarò nel resto della vita, ma se all’atto della mia nascita vengo riconosciuto
come essere umano quale effettivamente sono il fatto ha valenza universale,
cioè come essere umano sono unito a tutti gli esseri umani passati, presenti e
futuri, reali, immaginari e immaginati.
Prendiamo sul serio lo scopo che dichiarate,
quello di costruire l’unità del movimento comunista. Allo scopo, ho portato
questa analisi dei documenti da voi proposti, traendone come positiva la
tensione all’unità, indicandone contemporaneamente quelli che sono nei pensieri
esposti gli ostacoli che ne impediscono la realizzazione, spiegando che al
termine del discorso quello che conta non è decidere per il partito A o B, ma
per l’elaborazione scientifica della lotta di classe più avanzata, quella che
ci spiana la via verso la vittoria.
Rinnovo (rinnoviamo) la disponibilità a trattare
direttamente delle questioni qui poste, nei tempi e luoghi che potremo stabilire,
con voi e con altri disponibili a discutere dei temi e dei progetti qui
esposti.
Saluti comunisti,
Paolo Babini
Firenze, 11 aprile 2014
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