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domenica 15 settembre 2013

Collettivo Aurora - La crisi del sistema capitalista e la ricostruzione del partito comunista in Italia

Un appello alla trasformazione dei rapporti tra i comunisti,
 per l’unione delle forze e la rinascita del movimento comunista.

Da dove veniamo?
Il secolo scorso è stato il secolo in cui le rivoluzioni socialiste e proletarie hanno cambiato radicalmente la vita dell’uomo sul pianeta. Sia dove l’ordinamento sociale è diventato socialista, sia dove le rivoluzioni proletarie (di nuova democrazia, antimperialiste) hanno abbattuto i regimi reazionari, sia dove l’ordinamento sociale è rimasto quello capitalista, sia, infine, dove gli imperialisti sono riusciti a mantenere la loro oppressione coloniale, praticamente in ogni angolo della terra nulla è stato più come prima.
La lotta della classe operaia e delle masse popolari dirette dai partiti comunisti rivoluzionari ha cambiato in meglio la vita di miliardi di persone: negare questo è come affermare, oggi, che la terra è piatta.
Non vi è dubbio che l’esperienza della costruzione del socialismo e della lotta per l’emancipazione dei popoli dallo sfruttamento capitalista sia stata ricca di insegnamenti. Un’esperienza fatta di successi e di sconfitte, di cose giuste e cose sbagliate, di concezioni giuste e di concezioni sbagliate. In ogni caso è stata complessivamente un’esperienza positiva che ha fatto fare un gran passo in avanti all’umanità, un passo in avanti ben più ampio di qualsiasi altro passo compiuto in precedenza e ancora mai eguagliato fino ad oggi. Miliardi di individui si sono tirati fuori, ciascuno con ruoli diversi, dall’esistenza praticamente e intellettualmente quasi primitiva in cui, ancora nel XVIII secolo la classe borghese li teneva soggiogati e in pochi anni hanno compiuto un balzo in avanti che nessuno avrebbe mai immaginato.
I detrattori delle rivoluzioni proletarie non fanno altro che esaltarne i difetti (veri o presunti) e negarne i successi. Essi,  a qualsiasi classe appartengano, non fanno altro che esprimere la gioia, la paura, l’interesse della borghesia - classe  di aguzzini e sfruttatori - che se l’è vista brutta e che non è ancora tranquilla dopo il grande rischio che ha corso: scomparire come classe.
Ma come per la borghesia è stato necessario più di mezzo millennio per affermarsi come classe dirigente nel mondo, anche per il proletariato saranno necessarie più ondate successive per rivestire quel ruolo. La storia non procede in linea retta e non è nemmeno una serie di cicli indistinti che si ripetono; è piuttosto una spirale che sale ininterrottamente portando ogni anello ad un livello più alto di sviluppo.

Dalle rivoluzioni vittoriose molta acqua è passata sotto i ponti. La maggior parte dei partiti comunisti che le hanno condotte ha abbandonato il ruolo rivoluzionario[1] che in passato aveva indubbiamente svolto. Ma oggi, nel cuore di una crisi mondiale del sistema capitalista, di fronte alla crescente sofferenza dei popoli del pianeta, non spiccano ancora partiti e organizzazioni d’avanguardia a promuovere un nuovo e necessario sconvolgimento radicale dello stato delle cose presenti.
Sono orami passati oltre 50 anni dall’inizio “ufficiale” e dispiegato della svolta revisionista dei principali partiti comunisti del mondo, con alla loro testa il Partito Comunista dell’Unione Sovietica (PCUS). Il Partito Comunista Italiano (PCI) ha seguito anch’esso la linea revisionista che prevalse al XX congresso del PCUS (1956).
In quella fase, spinto anche dall’opposizione antirevisionista capeggiata dal Partito Comunista Cinese (PCC), anche nel nostro paese prese corpo un lavoro tanto tenace e coraggioso, quanto purtroppo ancora inconcludente, per ridare alla classe operaia un partito comunista che non seguisse la svolta revisionista, cioè un partito comunista rivoluzionario.
In Italia, anziché “salvare” l’allora PCI dalla deriva revisionista e condurlo o riportarlo sulla via rivoluzionaria, la maggior parte dei comunisti più avanzati (o che comunque si ritenevano rivoluzionari) abbracciò la linea di fondare un nuovo partito. Già questa considerazione, così come quella del ruolo del PCC nella lotta contro il revisionismo, sono state fin dall’inizio fonte di profonde divisioni all’interno del movimento comunista.
Il primo tentativo di portata significativa di costruzione di un partito comunista rivoluzionario in opposizione alla deriva revisionista fu la costruzione, da parte di alcuni compagni che uscirono dal PCI, del Movimento marxista-leninista italiano che pubblicava il settimanale Nuova Unità e che nel 1966 fondò il PCd’I (m-l).
Il PCd’I (m-l), che dalla sua fondazione aveva come segretario Fosco Dinucci, ottenne nel 1968 il riconoscimento del PCC e del Partito del Lavoro d’Albania. L’Unione della gioventù comunista (m-l) era l’organizzazione giovanile del partito.
Dal 1966 in poi nel PCd’I (m-l) vi furono numerose scissioni:
-          nel 1969 da parte di Angiolo Gracci e Dino Dini (Partito Comunista d'Italia (marxista-leninista) - Linea Rossa, scioltosi nel 1991 nel PRC);
-          nel 1969 da parte dell'Organizzazione Comunista Bolscevica Italiana marxista-leninista (OCBI m-l),
-          nel 1970 da parte di Osvaldo Pesce che fonda l’Organizzazione Comunista d'Italia-marxista-leninista (OCI m-l);
-          nel 1979 da parte del gruppo raccolto attorno al quotidiano Ottobre, su posizioni più attente all'Unione Sovietica e alla sinistra del PCI;
-          nel 1980 da parte di Ubaldo Buttafava (La nostra lotta) su posizioni filo-albanesi.
Un’altra importante componente che si distaccò dal PCI fu l’Unione dei Comunisti Italiani (marxisti-leninisti) fondata nel 1968. Pubblicava Servire il Popolo e aveva a capo Brandirali. Nel 1972 si trasformò in Partito Comunista (Marxista-Leninista) Italiano. Negli anni successivi il PC(m-l)I si frantumò in seguito a numerosi scissioni.
L’OCBI m-l nel 1977 fondò il Partito marxista-leninita italiano (PMLI), con a capo Scudieri, che pubblica a tutt’oggi Il Bolscevico.
Nel 1991 PCd’I (M-L) e l'UGC (M-L) confluirono nel Movimento per la Rifondazione Comunista.

Parallelamente le organizzazioni comuniste combattenti, in primo luogo le Brigate Rosse, hanno condotto un processo che pure ha visto una vasta partecipazione - in diversa misura e forma - di operai, lavoratori, studenti ed elementi delle masse popolari alla lotta contro i padroni, il loro Stato e le loro strutture repressive. Anche in questo ambito il tentativo di ricostruzione del partito comunista ha trovato le sue spinte e i suoi contrasti, ma è indubbiamente stata la questione centrale che, insoddisfatta, ha portato alla crisi e infine al crollo di quelle organizzazioni (che pure avevano raccolto anche quantitativamente un significativo contributo di massa).
Da allora ad oggi il movimento comunista italiano è stato via via sempre più costellato da una miriade di organizzazioni che si formano, si frazionano, si sciolgono.
Le principali di queste organizzazioni hanno in qualche modo quell’origine comune, un passato più o meno ereditato che ne determina per certi versi le caratteristiche. Quindi una parte fondamentale dell’attuale movimento comunista ha avuto un obiettivo comune: nasceva come tentativo di dare alla classe operaia del nostro paese un partito comunista rivoluzionario, per strappare la classe operaia stessa dall’influenza della deriva revisionista della direzione del vecchio PCI. Questo tentativo non ha dato i frutti sperati: abbiamo mancato l’obiettivo fondamentale. A distanza di oltre 50 anni è necessario, oltre che onesto, ammetterlo e farci i conti.

D’ora in poi indicheremo con il termine componenti del movimento comunista quei partiti, organizzazioni, gruppi, collettivi, organismi, ecc. che in qualche modo si rifanno al comunismo e si dichiarano comuniste.
Oggi praticamente ogni componente del movimento comunista si sta ponendo il problema della ricostruzione del partito comunista o dell’unità dei comunisti. In sostanza ogni compagno che vuole ragionare con la propria testa si pone il problema della frammentazione (frantumazione, disgregazione o che dir si voglia) del movimento comunista e delle sue sorti nel prossimo futuro.
Anche quelle componenti che ritengono di essere esse stesse il partito comunista necessario (di averlo cioè già costruito) sono costrette ad ammettere che il loro partito non è ancora all’altezza dei compiti che spetterebbero ad esso, nonostante alcuni di questi partiti siano stati fondati da 10, 20 anni o oltre (PMLI, (n)PCI, PCm, ecc.). È segno che nel movimento comunista del nostro paese è in corso, apertamente riconosciuto o meno che sia, un sano processo di autocritica. Dobbiamo afferrarlo coscientemente e saldamente, condurlo a fondo per fare un significativo passo avanti, se vogliamo riconquistare la perduta influenza sulle larghe masse, per arrivare finalmente a individuare e quindi a smuovere le cause che ci inchiodano ad un ruolo ancora sostanzialmente ininfluente nella lotta di classe.
Quindi possiamo affermare che nel nostro paese manca un partito comunista all’altezza dei compiti che la fase attuale pone di fronte ad esso. Questa è una delle questioni fondamentali (dal punto di vista soggettivo la principale) che noi comunisti dobbiamo affrontare. È una questione che riguarda sostanzialmente tutti i comunisti dei paesi imperialisti; risolvendo il problema nel nostro paese contribuiremo alla sua soluzione anche negli altri paesi.

Ognuna delle diverse componenti del movimento comunista sviluppa la propria attività rivolta alle masse popolari, ai lavoratori, alla classe operaia, contro la borghesia, contro i padroni, contro gli apparati repressivi dello Stato, ecc. Allo stesso tempo ognuna di esse sviluppa una propria attività interna di formazione, di dibattito, ecc.
Organizzazioni e partiti, gruppi e collettivi esistenti, nonostante i numerosi tentativi, raramente riescono a mettere in campo iniziative comuni che producono un livello di unità superiore.
In Italia il numero delle componenti del movimento comunista oscilla tra fondazioni e scioglimenti, divisioni (molte) e fusioni (poche), espulsioni (molte) e reclutamenti (pochi). Indicativamente si aggirano tra le 20 e le 30 organizzazioni che raccolgono ciascuna dai 3 – 4 fino a 80 – 100 militanti. Quelle oltre i 50 militanti sono comunque solo due o tre. Complessivamente saremo, ad essere generosi con noi stessi, circa 2000 compagni organizzati.
Naturalmente il grado di militanza è anch’esso molto vario. Alcuni membri sono militanti a tempo pieno, qualcuno pure funzionario, e questi svolgono un ruolo attivo permanente; altri, all’opposto, sono più che altro collaboratori saltuari più o meno scoordinati, la terra di mezzo è la più nutrita.

Parallelamente a questa situazione del movimento comunista, i passi indietro che la classe operaia e le masse popolari sono costrette a subire in termini di condizioni di vita e di lavoro, sono la dimostrazione che la classe operaia ancora non è armata (cioè non ha il suo reparto d’avanguardia: il partito comunista): quando combatte - e ancora capita raramente in rapporto agli attacchi che subisce – lo fa disarmata.
Non bastano le buone intenzioni del membri e delle componenti del movimento comunista: nessuna di esse esercita oggi una significativa influenza politica sulla la classe operaia e sulle masse popolari tale da favorire il suo armarsi. Nessuna di esse, nel corso della sua storia – e per alcune si tratta anche di oltre 20 anni di esistenza sotto la medesima sigla – si è sviluppata fino a diventare un punto di riferimento nazionale per una cerchia di lavoratori e masse popolari che superino il qualche centinaio di elementi. Non vale contare le sporadiche iniziative che periodicamente mettiamo in piedi e alle quali arrivano a partecipare complessivamente qualche migliaio di persone: queste non sono indice di influenza politica sulla classe, benché restino comunque, in alcuni casi, una dimostrazione di dignitosa capacità organizzativa e soprattutto di lodevole spirito di abnegazione dei membri che più vi si impegnano.
Se la nostra influenza fosse reale, dalle diverse iniziative che sviluppiamo dovremmo conseguentemente trovare risorse per accrescere le nostre forze, anche di poco. Ma poco per poco, essere in 20 o 50 dopo 10 o 20 anni di lavoro non può significare altro che noi non siamo ancora in grado di convincere un lavoratore – che per di più subisce crescenti attacchi dai padroni – a lottare nelle nostre fila, cioè a combattere, almeno in teoria, meglio organizzato, più forte, più incisivo. La nostra proposta, nelle sue varie forme in cui si esprime per mano e bocca delle 20 o 30 organizzazioni comuniste, non convince.
Ma ancora peggio possiamo dire se consideriamo per un momento noi stessi come un unico corpo del movimento comunista: da alcune decine di migliaia che eravamo negli anni 70 siamo rimasti meno di 2000 compagni! Con un seguito tra le masse che fatica a superare lo stesso numero dei militanti.
La questione risulta ancor più grave se consideriamo verosimile quello che molte componenti dichiarano: “la situazione è favorevole”. Per fortuna!
Siamo pochi, divisi e non cresciamo! Per amara che sia, questa verità la dobbiamo riconoscere, dobbiamo smetterla di ignorarla, dobbiamo studiarla a fondo per capirne le cause e trovare la soluzione. Questo è il nostro compito! Ogni altra cosa a cui dedichiamo risorse ed energie, non è altro che una forma di tentativo di sopravvivenza, al di là delle nostra più buona volontà: è un tirare a campare, anche se non ci sembra tale.
L’accusa di pessimismo e di disfattismo rivolta a chi si riconosce in questa visione della situazione del movimento comunista, o comunque a chi mette in evidenza i nostri limiti, corrisponde al comportamento da struzzi. Fingere che il bicchiere sia mezzo pieno ci mantiene fuori strada. Non ci sono forse sufficienti motivi per combattere se viene a mancare l’ottimismo di facciata che per tanto tempo molti di noi assumono? Forse che le sofferenze e la rabbia di milioni di lavoratori non sono forza motrice sufficiente a farci superare la nostra spiegabile demoralizzazione di fronte alla nostra debolezza? È certamente più serio fare bene i conti con le nostre debolezze e trovare la strada per superarle, ovviamente partendo dal vederle!


È un problema di linea giusta?
In merito alle scissioni, espulsioni, fuoriuscite o mancanza di crescita, ogni componente del movimento comunista dichiara l’ineluttabilità della divisione da o dell’espulsione di sulla base di una teoria giusta, più avanzata, più rivoluzionaria; oppure sostiene che la linea seguita è giusta ma al proprio interno la volontà di applicarla è ancora debole.
Non v’è dubbio che l’elaborazione teorica prodotta dal movimento comunista nel suo complesso sia formata da idee giuste e idee sbagliate, come è altrettanto vero (s pur non automatico) che da idee giuste conseguono tattiche e strategie giuste e viceversa per le idee sbagliate.
La lotta ideologica nell’ambito del movimento comunista è quel movimento cosciente determinato, in fin dei conti, dalla contraddizione fondamentale tra borghesia e proletariato; è il riflesso nel movimento comunista della lotta tra borghesia e proletariato; essa è pertanto una forma della lotta di classe.
Quindi, ad un certo livello, la lotta ideologica anche nel movimento comunista è lo scontro tra due poli di una contraddizione antagonista.
La lotta ideologica è anche, più in generale, la lotta per l’affermazione delle idee giuste e delle linee tattiche e strategiche ad esse conseguenti. All’interno del movimento comunista, così come all’interno del proletariato e di tutte le masse popolari in quanto classi, esistono anche contraddizioni non antagoniste che determinano uno scontro di idee espressione dei poli di quelle stesse contraddizioni. Si tratta di contraddizioni in seno al popolo e non di contraddizioni antagoniste. Il loro superamento, a differenza del superamento della contraddizione fondamentale tra borghesia e proletariato, è un’unità superiore.
Oggi spesso nemmeno all’interno di ciascuna delle componenti del movimento comunista di una certa dimensione (diciamo dai 20 membri in su) c’è una linea unitaria. Spesso non c’è unità nemmeno sulle questioni più generali: sulla mobilitazione delle masse, sul ruolo e i nostri compiti verso e nei cosiddetti sindacati di regime e su quelli alternativi; sulle forme di propaganda, sulle elezioni borghesi, sulla repressione, sull’ambiente, sui movimenti di massa emergenti come ad esempio il Movimento 5 Stelle. Nemmeno c’è unità sulla linea organizzativa, sulla linea della costruzione del partito comunista. Questi sono solo alcuni esempi. Ognuna delle componenti del movimento comunista attuale dovrebbe chiedersi: quanta unità abbiamo costruito al nostro interno su questi punti fondamentali? Potremmo forse affermare con certezza che l’unità costruita al nostro interno su questi punti è più forte della divisone che ci separa da altre organizzazioni o da altri compagni?
Leggendo una serie di testi raccolti (vedi Appendice) e di cui suggerisco l’analisi, emerge chiaramente che esiste, almeno nelle dichiarazioni ufficiali, un’ampia convergenza – quando non un’identità di vedute – su alcune questioni fondamentali (strategiche) e su numerose questioni tattiche; una convergenza che spesso è anche più marcata di quanto lo sia l’effettiva coerenza tra la teoria e la sua applicazione pratica di una stessa organizzazione.
Probabilmente invece la frammentazione del movimento comunista è ancora principalmente il frutto di una lunga serie di divisioni storiche di bottega che nulla hanno a che fare con la lotta tra le linee all’interno di un partito comunista.

Lenin esortava i sostenitori di vie alternative a quelle espresse dai bolscevichi a non trascinare questi ultimi nel pantano delle loro inconcludenti concezioni e strade. Ma oggi, qui in Italia (e in parte anche altrove) siamo tutti nel pantano e nessuno ha ancora costruito quel “piccolo nucleo compatto” che marcia deciso sulla giusta via.
Se non usciamo da questo pantano ci affogheremo tutti. Dobbiamo iniziare a dedicare una parte importante del nostro lavoro a tentare strade per superare la frammentazione, altrimenti il movimento comunista finirà per avere un’influenza e quindi un’importanza nulla per le masse popolari.
Forse 50 anni fa poteva avere un senso la linea del “che vinca il migliore”, nel senso che tra varie organizzazioni del movimento comunista che si erano formate poteva condursi una lotta che avrebbe portato quelle guidate da una concezione ed una linea giusta a conquistare più delle altre la fiducia e quindi l’adesione delle masse. Ma, cessata la prima spinta di grande sviluppo del movimento comunista rivoluzionario (i primi 15 anni dall’avvento del revisionismo) nessuno ha vinto, nessuno è stato il migliore, nessuno ha raccolto e ha tutt’ora le larghe(!) masse al suo seguito.
Allora potevamo dire che i fatti avrebbero dimostrato chi era il migliore, chi era il più adatto a incanalare la mobilitazione delle masse nella lotta per il socialismo. I fatti potevano dimostrarlo perché la mobilitazione promossa da varie componenti del movimento comunista era effettiva, corposa. La grande quantità era anche dimostrazione di buona qualità.
Oggi siamo nella situazione in cui nemmeno le iniziative giuste hanno i numeri per qualificarsi tali. Ciò non significa meccanicamente che non siano giuste, che non siano guidate da giuste concezioni, significa solo che ci è per forza difficile valutare la qualità stante la scarsa quantità. È come fare un test con un solo campione scarso di reattivo e di reagente: può riuscire o meno, ma non fa testo!
Tra qualità e quantità c’è un rapporto dialettico. Non è vero che una viene prima dell’altra, che la qualità viene prima della quantità. L’una rafforza l’altra, l’una dimostra l’altra.

In molte componenti del movimento comunista, di fronte alla critica (interna od esterna) di mancanza di unità dell’insieme del movimento comunista, viene contrapposta la teoria che “il partito epurandosi si rafforza”. Sebbene in determinate circostanze questa teoria sia giusta, essa, come ogni teoria, vale in quanto corrispondente ad una situazione concreta. Infatti è tutt’altro che automatico il rafforzamento dell’organizzazione tramite la divisione di concezioni diverse all’interno dell’organizzazione stessa. In certe situazioni vale il principio che se togli lo zucchero al succo d’uva non ottieni il vino: per ottenere il vino bisogna che lo zucchero fermenti e produca alcool!
Così, soprattutto nel contesto attuale (in cui cioè il movimento comunista è al suo minimo storico delle forze), le divisioni che non riguardano i compiti contingenti sono inutili nel migliore dei casi e dannose nella maggior parte.
D’altronde l’esperienza dei principali partiti comunisti vittoriosi ci ha mostrato fasi alterne di unità di forze non omogenee e di divisioni indispensabili. Il POSDR (Partito Operaio Socialdemocratico Russo) si formò come fusione di diversi partiti addirittura di paesi diversi, tra i quali esistevano differenze significative che al momento dell’unificazione non erano fondamentali o dirimenti rispetto all’obiettivo principale. In seguito Il POSDR si epurò dei soggetti più arretrati o destri quando si divise dai menscevichi e dai Socialisti Rivoluzionari di destra, ma rimase unito ai SR di sinistra e con alcuni soggetti che pure avevano reso incerto il successo dell’insurrezione (Kamenev e Zinoviev che preannunciarono l’imminente insurrezione non furono espulsi ma solo sollevati dai loro incarichi più importanti). Poi ancora il POSDR si epurò dei soggetti che non combattevano adeguatamente la controrivoluzione scatenata dai bianchi e dagli imperialisti. Ecc. ecc.
In sostanza anche la questione della “purificazione” nelle file del partito del proletariato è sempre una questione concreta, non è un principio assoluto e astratto.
Oggi nei paesi imperialisti il compito principale per il rafforzamento o la creazione di partiti comunisti è la ricostruzione del legame con le masse che è diventato praticamente inesistente. La nostra influenza tra esse, il loro seguirci o meno, non dipendono solo dalla giustezza delle nostre idee, ma dalla corrispondenza tra queste e la pratica, soprattutto dai risultati pratici. Oggi i nostri risultati sono praticamente nulli su questo campo e questo significa o che nessuno ha una teoria generale - una strategia - giusta (e ciò è anche possibile) oppure che per quanto giusta sia essa comunque non comprende e non sviluppa quasi per nulla il nodo principale: il legame con le masse. Un partito comunista senza un legame con le masse che va progressivamente sviluppandosi non può chiamarsi tale.

D’altra parte come potremmo riuscire a costruire un partito comunista cercando di evitare (come la maggior parte di noi fa oggi) il dibattito e il confronto, che in fondo è l’anima del partito? Perché mai il concetto di centralismo democratico sarebbe assurto alla posizione di principio fondamentale per ogni partito comunista se non costituisse il nervo principale della esistenza del partito stesso e del suo sviluppo come forma cosciente e organizzata della classe?
Il settarismo che in diverse forme si manifesta oggi tra le varie componenti del movimento comunista in fondo non è altro che il rifiuto di ciascuna componente di accettare tutti gli aspetti che il centralismo democratico comporta per la vita del partito e quindi di ogni suo militante. Ma se non diventiamo militanti e istanze capaci di districarci tra le difficoltà dello scontro tra idee e regole che determinano il nostro rapporto, come potremmo pensare di essere capaci di superare le difficoltà determinate da una guerra reale, concreta e terribile contro un nemico che, lo ha più volte dimostrato, userà ogni mezzo per eliminarci dalla storia?


Che cosa sta succedendo oggi?
Il “fenomeno” della rapida ascesa del Movimento 5 Stelle che, diciamocelo, ha colto più o meno di sorpresa anche ogni componente del movimento comunista, indica alcune cose importanti.
Innanzitutto vi è stata la manifestazione di una diffusa voglia di partecipazione delle masse alla vita politica, cosa che nessun altro partito o organizzazione (che sostenesse o meno che le masse volevano partecipare) era stata fino ad ora in  grado di mettere in evidenza. Il voto e la partecipazione ai momenti organizzativi del M5S non sono in se stessi dimostrazione di voglia di far politica. Esprimono però oggettivamente una tendenza a mettersi in gioco, ciascuno con le proprie idee, impressioni, capacità e storia.
Il M5S, diciamo tutti, non ha una strategia che possa portare realmente le masse fuori dal marasma attuale. Grillo e i suoi stretti collaboratori sono stati in grado “solo” di far leva sul malcontento diffuso per incanalarlo principalmente in una opposizione contro l’esistente e solo in parte e per aspetti particolari per la costruzione o l’aggiustamento di alcune questioni importanti per la vita delle masse. Complessivamente però i dirigenti del M5S non indicano la via per eliminare le cause che generano e continueranno a perpetrare lo stato delle cose presente. Il M5S è cioè guidato da una concezione soggettivista che lo rende sostanzialmente un movimento riformista radicale. Per migliorare lo stato di cose presente, per il M5S occorrono una serie di personaggi piazzati nei posti chiave e che siano buoni, onesti, competenti e certo anche un po’ filantropi.
In un certo senso esiste una possibile sovrapposizione tra questa strategia e la lotta di classe, ma solo dal punto di vista soggettivo: c’è una classe di cattivi e una classe di buoni. Al posto delle caratteristiche del modo di produzione, del legame contraddittorio tra forze produttive e rapporti di produzione da cui deriva la divisione in classi della società, per il M5S è una questione di buon senso e di onestà. Per eliminare lo sfruttamento, la povertà, la guerra, l’inquinamento, l’ingiustizia, ecc. bisogna mettere alla direzione della società “cittadini” che non siano (almeno fino ad ora) mai stati sfruttatori, guerrafondai, distruttori dell’ambiente, disonesti, ecc. Anche i ricchi possono andare bene: basta non guardare da dove deriva la loro ricchezza!
Anche noi comunisti vorremmo mettere gente simile al potere. Giusto. Però non ci illudiamo e non illudiamo le masse che questo basti a cambiare le cose: se non si eliminano le condizioni materiali che determinano i rapporti sociali da cui dipendono le possibilità di sfruttare, arricchirsi, distruggere, inquinare, ecc. ecc. non facciamo altro che rimandare alle prossime generazioni la soluzione dei problemi più gravi della società. Noi comunisti infatti abbiamo una strategia: il nostro obiettivo è l’abbattimento del capitalismo, che non esiste perche ci sono gli uomini cattivi al potere, ma perché il modo di produzione capitalista presuppone una divisione in classi, presuppone lo sfruttamento di una classe sull’altra.
Sul piano della mobilitazione delle masse emergono poi tutte le contraddizioni che un movimento come quello dei grillini (e in particolare i suoi dirigenti) esprimono. Alla manifestazione più o meno spontanea raggruppatasi il 20 sera davanti a Montecitorio, Beppe Grillo ha detto che andava, poi però ha detto che arrivava tardi, poi ha detto che arrivava il giorno dopo e che la manifestazione si sarebbe tenuta in un’altra piazza: con l’aiuto di Crimi si è dimostrato un bravo pompiere!
Noi comunisti quindi abbiamo una strategia per uscire dal marasma attuale e il M5S non ce l’ha. Però…
Però i grillini si organizzano, si uniscono, raccolgono consensi e in pochi anni sono riusciti ad ottenere 8 milioni di voti alle elezioni politiche. Mentre il movimento comunista sta quasi scomparendo dalla scena elettorale (e non solo). Possiamo anche tentare di schivare il problema affermando che le elezioni non dimostrano nulla. Ma non raccontiamoci balle! Supponiamo per un momento che una qualsiasi organizzazione comunista avesse raggiunto lo stesso risultato di voti che oggi hanno raggiunto i grillini (o anche solo uno ottavo!): quale componente del movimento comunista non avrebbe gridato all’inconfutabile dimostrazione della voglia di comunismo diffusa tra le masse? Anche quelli di noi che sono sempre stati contrari alla partecipazione dei comunisti alle elezioni avrebbero comunque esultato, indicando in milioni di voti ai comunisti una palese e sacrosanta (per quanto ancora ingenua) dimostrazione delle masse di voler abbattere la borghesia.
La realtà si incarica di dimostrarci in mille modi che la nostra debolezza ha un carattere fortemente soggettivo a cui dobbiamo mettere mano.

Non è facile trovare la via per risolvere la nostra debolezza. Ma perché poi questa lotta dovrebbe essere facile, quando tutte le lotte che conduciamo sono difficili? Indubbiamente per ogni componente del movimento comunista è più facile sopravvivere che crescere e questo atteggiamento (accontentarsi della sopravvivenza) è quello che oggi predomina nel movimento comunista.
Le componenti del movimento comunista soffrono tutte, chi più chi meno, di settarismo. Alcune manifestano apertamente l’insofferenza per esso, altre no. Sono due tendenze, una delle quali rappresenta la spinta a superare il problema. Quelle che non si pongono il problema favoriscono in suo permanere, quelle che se lo pongono favoriscono il suo superamento. E questa lotta esiste anche all’interno di ogni componente e pure all’interno di ogni compagno. Quando affrontiamo il problema andiamo nella direzione del suo superamento, quando lo ignoriamo o lo sottovalutiamo andiamo nella direzione opposta.
Voglio introdurre un esempio a mio avviso significativo dell’atteggiamento settario della maggior parte di noi. Un’organizzazione comunista che non ha basi a Taranto e che vuole intervenire sulla lotta dell’ILVA, solitamente che fa? Manda qualche compagno a contattare direttamente gli operai dell’ILVA. Non capita praticamente mai che vengano contattate le organizzazioni che hanno già stabilito un rapporto con questi operai, in questo caso, ad esempio, i compagni di Proletari Comunisti. Eppure i compagni di ProlCom hanno indubbiamente un’esperienza accumulata in anni di lavoro in zona. Anche se l’organizzazione “esterna” (che non ha compagni a Taranto) ritiene che i compagni di ProlCom abbiano deviazioni “gravissime” in materia di intervento sulla classe operaia, queste deviazioni difficilmente saranno peggiori di quelle espresse, ad esempio, dalla FIOM o, peggio ancora, da altri rappresentanti dei sindacati di regime con i quali indubbiamente l’organizzazione “esterna” si troverebbe ad aver a che fare di primo acchito. In secondo luogo, anche gli stessi operai dell’ILVA vedrebbero di buon grado l’unità di intervento da parte di diverse organizzazioni comuniste e farebbero fatica a comprendere l’atteggiamento compartimentato.
Alla stessa stregua possiamo valutare esempi riguardanti la Strage di Viareggio del 2009 e la mobilitazione del relativo Comitato 29 giugno, situazione nella quale i compagni di Lotta e Unità hanno indubbiamente accumulato una lunga e profonda esperienza e conoscenza. Così pure per quanto riguarda la mobilitazione dei disoccupati di Napoli o degli LSU, in questo caso i Comitati di Appoggio alla Resistenza - per il Comunismo (CARC), o magari l’OCI avranno più esperienza di altri sul campo. Ciascuna organizzazione può trovare da sé gli esempi adatti al caso.


Che fare?
Gran parte dei membri di ogni componente del movimento comunista ha un’esperienza lunga fatta di confronto, scontro, collaborazione, lotta con diverse organizzazioni del movimento comunista. Non c’è dubbio che il lavoro degli anni passati di tanti compagni è una ricca fonte di insegnamenti utili a trattare il problema del rapporto tra componenti del movimento comunista al fine di superare la loro frammentazione.
Sicuramente tanti compagni che stanno ora leggendo questo testo diranno che di tentativi di unificazione, riaggregazione, ecc. se ne sono fatti a centinaia e che “non ci si cava un ragno dal buco”. Possibile che tutto quello che oggi abbiamo da dire è che “non ci si cava un ragno dal buco”?
Con lo stesso criterio potremmo allora dire che nemmeno tra la classe operaia e le masse popolari si cava un ragno dal buco nel tentativo di reclutarle nel lavoro dei comunisti. Certo, direte, la classe operaia e le masse popolari sono più importanti delle altre organizzazioni del movimento comunista! Perché?
Il nostro movimento comunista è forse composto da borghesi e piccolo borghesi con cui non vale la pena perdere tempo? Non siamo forse per la maggior parte provenienti dal proletariato? Non siamo forse, in quanto militanti in questa o quella organizzazione, i soggetti più interessanti proprio perché già avanzati sulla scelta della militanza, del dedicare una parte o tutta la nostra vita alla lotta per il comunismo?
Dobbiamo smetterla di sentire la puzza sotto il naso e iniziare seriamente a dedicare risorse ed energie alla ricerca di una via per unire i comunisti, sì proprio quelli che si dichiarano tali, proprio a partire anche solo da questa loro dichiarazione. Di fatto chiunque oggi dichiari che la sua linea è la linea giusta vale meno di quello che dichiara di non averla ancora trovata, stante gli ancora insignificanti risultati qualitativi e quantitativi raggiunti. Ma per quanto valga meno, è comunque un interlocutore con cui dobbiamo sforzarci di stabilire un rapporto.
Dobbiamo quindi studiare, confrontarci e definire un lavoro di lunga durata (una campagna, chiamiamola come ci pare) fatta sostanzialmente di incontri, confronti, proposte, tentativi di attività comuni, bilanci comuni, ecc. da cui individuare i canali di unione possibile. Non importa quanto doppio gioco verrà fuori sul campo del confronto. Ci saranno coloro che sono disponibili perché pensano di andare a pesca di militanti. Che importa! A volte anche noi stessi tenderemo a fare altrettanto. È nella natura delle attuali componenti del movimento comunista e noi non ne siamo immuni.
Lancio questo appello a tutti quei compagni che non si accontentano della situazione attuale del movimento comunista, che non sono pienamente soddisfatti dei risultati da esso complessivamente raggiunti e che riconoscono che la forza dei comunisti non è solo nelle idee, ma soprattutto nella pratica, da cui le idee si forgiano.
Potrei tentare di dilungarmi nel tentativo di ipotizzare i dettagli di un possibile inizio di lavoro comune. Ma ritengo che al momento l’appello a cercare di costruirlo, questo lavoro comune, sia quello che realmente serve. La testa di tutti coloro che sono realmente disposti a raccoglierlo o che riconoscono che questo appello è semplicemente espressione di una volontà più volte espressa anche da altri compagni e organizzazioni è una testa sufficientemente capace di dare risposte concrete al problema organizzativo. Il resto verrà sulla base dei primi passi compiuti.
Si tratti di una serie di incontri, assemblee, scambi di documenti, dibattiti aperti anche ai non organizzati, quello che si vuole: non nascondiamoci dietro la forma. Molti di noi sono abbastanza navigati per trovare la soluzione pratica più idonea, se c’è la volontà.





[1] Con ruolo rivoluzionario intendiamo sinteticamente il ruolo di influenza e di direzione sulle masse basato su un concreto e stretto legame del partito con esse e volto alla loro mobilitazione per l’abbattimento dell’ordinamento sociale esistente e la costruzione di un nuovo ordinamento sociale. L’attuale ordinamento sociale è basato sullo sfruttamento del lavoro salariato (sullo sfruttamento della stragrande maggioranza della popolazione) per l’interessere della classe che detiene la proprietà dei principali mezzi di produzione (la borghesia) e a scapito degli interessi delle masse. Il nuovo ordinamento sociale superiore è il comunismo: “dopo che è scomparsa la subordinazione asservitrice degli individui alla divisione del lavoro, e quindi anche il contrasto fra lavoro intellettuale e fisico; dopo che il lavoro non è divenuto soltanto mezzo di vita, ma anche il primo bisogno della vita; dopo che con lo sviluppo onnilaterale degli individui sono cresciute anche le forze produttive e tutte le sorgenti della ricchezza collettiva scorrono in tutta la loro pienezza, solo allora l’angusto orizzonte giuridico borghese può essere superato, e la società può scrivere sulle sue bandiere: Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni!” - K. Marx - F. Engels, Opere scelte, Editori Riuniti, Roma, 1962, pag. 962

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