IL MANIFESTO POLITICO
DELLA RETE DEI COMUNISTI
Siamo alla fine
di un lungo sonno. Dopo l’89 i reazionari avevano deciso che eravamo giunti
alla fine della Storia. Gli ideologi del postmoderno s’erano rapidamente
accodati, spiegando che i fatti erano in fondo solo opinioni, o che le
contraddizioni materiali del sistema economico in cui tutto il mondo vive si
stavano smussando in un grande impero progressista, senza lasciare troppi
residui conflittuali. Il desiderio di ogni classe dominante – «resteremo qui
per sempre» – veniva narrato come una realtà virtuale sotto gli occhi di tutti.
Chi non la vedeva era pazzo, vecchio, «ideologico» e fuori dal mondo. La crisi
ha strappato il velo: il re è nudo. E zoppica pure vistosamente.
E’ quindi
possibile oggi – sul piano del pensiero teorico, ma soprattutto su quello dello
scontro sociale e politico – mettere in moto nuove energie intellettuali e
fisiche, innervare con pensiero lungimirante i processi sociali che pretendono
un cambiamento radicale. E’ possibile riannodare i fili della riflessione
critica e promuovere l’organizzazione ex novo di una soggettività antagonista
capace di formulare risposte all’altezza dei tempi. Dopo venti anni di
capitalismo vittorioso e pensiero unico trionfanti, la Storia ha ripreso a
correre. Guai a chi cammina o resta fermo a giocare con le macerie.
1. DALLA
FINANZIARIZZAZIONE ALLA CRISI DI SISTEMA
Gli equilibri
mondiali emersi negli anni ’90, dopo la fine del «socialismo reale», sono oggi
tutti in discussione.
Il periodo della
finanziarizzazione sembra aver esaurito la sua spinta propulsiva aprendo un
nuovo scenario carico di pericoli, ma soprattutto di potenzialità.
L’instabilità è ormai la condizione generale dello sviluppo sociale, politico e
internazionale. L’Occidente – fin qui soggetto centrale dell’imperialismo – si
trova ad affrontare un trauma senza precedenti.
L’irrazionalità
capitalista emerge con chiarezza dalla distruzione di ricchezza, diritti,
culture che ne avevano caratterizzato il periodo di espansione; mette fine al
post-bellico «compromesso tra capitale e lavoro» e il degrado sociale investe
ora direttamente i settori di classe interni ai paesi più avanzati. La crisi
occupazionale, la precarietà generalizzata, il calo dei redditi da lavoro, la
devastazione ambientale dei territori e la fine di ogni tutela sociale o
legale, fino all’eliminazione dei diritti sociali e di quelli di genere, sono
effetti che si riproducono con molte somiglianze a livello mondiale.
Sullo sfondo di
questa regressione generalizzata, di questa autentica crisi di civiltà,
traspare ora con nettezza il lavorìo della contraddizione fondamentale tra
sviluppo delle forze produttive e rapporti sociali di produzione. Se la
vogliamo dire in parole semplici, la potenza immane del sistema industriale
esistente ha preso a girare a vuoto nel momento in cui lo scopo del produrre –
il profitto – è diventato troppo «miserabile» per andare oltre. Questa potenza
permetterebbe di sfamare fino alla sazietà l’umanità intera. Permetterebbe di
ridurre il tempo di lavoro individuale a una frazione accettabile delle 24 ore,
liberando tempo di vita per ciascuno. Ma un impiego socialmente utile di questa
potenza implica un rovesciamento completo delle finalità della produzione, che
parte dal chi decide cosa produrre, ridisegna il come farlo e come si
ridistribuisce la ricchezza prodotta.
Lo strappo
violento della crisi sistemica mette davanti agli occhi di tutti quella
lampante contraddizione: si potrebbe fare di tutto, ma non possiamo fare nulla.
E ci chiedono di subire, cercando di dividere chi è obbligato a lavorare sempre
di più e chi deve inginocchiarsi per chiedere un lavoro. L’ostacolo diventa
evidente: la proprietà degli strumenti, dei mezzi, delle macchine con cui si
produce è in mano a pochi. E’ privata nel duplice senso: appartiene solo ad
alcuni, tutti gli altri ne sono privi.
Quando questa
contraddizione riemerge dal sottosuolo delle stratificazioni e diviene
sensibile alla percezione comune si pongono, in senso quasi «tecnico», le
condizioni oggettive per un’epoca di rivoluzioni sociali. La partita del potere
si apre, senza soluzioni predeterminate. Ogni classe e ogni opzione politica fa
il suo gioco. Ma il risultato, marxianamente, dipende da come si gioca.
Questa
contraddizione che alimenta, dunque, il conflitto capitalelavoro nelle sue
forme attuali e mondializzate, dà corpo materiale a quell’internazionalismo
della classe che il movimento comunista ha sempre avuto come riferimento ma
che, negli ultimi decenni, ha diluito in una solidarietà internazionalista
doverosa ma sempre più generica perché confusa nelle sue finalità di classe.
Siamo insomma di
fronte a un passaggio cruciale che – fra progressivo impoverimento in Occidente
e contestuale sviluppo di altre aree
– determina
modificazioni sostanziali anche nelle figure che concretamente operano dentro i
singoli contesti nazionali e continentali.
La distruzione di
ogni futuro per le giovani generazioni, la contrapposizione tra aspettative e
realtà, accompagna la svalorizzazione di quelle funzioni produttive di
carattere intellettuale che, da sempre, venivano considerate privilegiate e
parti integranti del blocco sociale dominante.
Ma si presentano
oggi altri limiti che il capitale non ha voluto o saputo considerare. La
devastazione dell’ambiente e l’utilizzo dissennato delle risorse non
riproducibili del pianeta – in diversi casi vicine o oltre il punto di non
ritorno – si vanno ad aggiungere alla resistenza opposta dalla forza-lavoro.
Secondo diversi
indicatori attendibili, ci troviamo già oggi molto vicini al punto in cui la
devastazione ambientale ed il saccheggio indiscriminato della natura porta
all’irreversibile esaurimento delle risorse. Questi due problemi, dunque, vanno
collocati fin da subito dentro la prospettiva – e il programma – della
trasformazione radicale dell’esistente. I popoli dell’America Latina ci sono
arrivati per primi. E’ bene impararne la lezione.
Tale accumulo di
contraddizioni non è più sopportabile neanche per la democrazia borghese.
Vediamo in ogni paese dell’Occidente, sotto la pressione della crisi, avanzare
una nuova idea di gestione del potere mutuato direttamente dalla cultura
d’impresa. La governance viene a sostituire la ricerca della mediazione tra
interessi diversi, funzione storica della democrazia parlamentare. La
governabilità – per restare dentro gli asfittici confini italiani – è uno
schiacciasassi che non tollera più i limiti posti dalla Costituzione
antifascista. Si crea perciò una situazione contraddittoria: per un verso è
indispensabile difendere ed estendere gli spazi democratici e difendere la Costituzione , per
l’altro questa difesa impedisce di pensare un equilibrio sociale più avanzato,
che vada oltre quei confini e un equilibrio sociale superato nei fatti.
La sfera
politica, interna e internazionale, si mostra impotente davanti al potere
devastante di organismi economici sovranazionali, di fatto irresponsabili di
fronte a qualsiasi conseguenza sociale o nazionale e del tutto privi di
«legittimità democratica». Lo scontro passa oggi per linee interne agli assetti
dominanti, lungo le rime di frattura che si vanno creando nei rapporti tra
imprese multinazionali, poteri statuali di forza altamente diseguale (la Cina non si fa certo
«comandare», a differenza di paesi più piccoli), aree geostrategiche un tempo
di importanza secondaria. Le possibilità di conflitto (interimperialista,
anti-colonialista o anti-neocolonialista, di emancipazione complessiva – vedi
il mondo arabo all’inizio del 2011) si vanno moltiplicando senza trovare
nessuna istanza politica globale che possa corrispondere, sia pure
imperfettamente, all’inestricabile interconnesione delle economie.
L’impossibilità
di un «keynesismo del ventunesimo secolo» nasce qui. Ogni tentativo di
riproporlo su base nazionale non può che accelerare – come negli anni ‘30 del
secolo scorso – la prospettiva della guerra. Ma se non si può gestire in modo
razionale l’economia, la politica diventa un luogo di gestione puramente
passiva di vincoli decisi altrove. Non c’è quindi da stupirsi se assistiamo a
un degrado etico e morale di dimensioni mai viste. E non parliamo certo solo dell’Italia
berlusconiana.
Il pericolo della
guerra appare in tutta la sua evidenza se si tiene conto che – a fronte della
profonda crisi dell’imperialismo classico – si va affermando una crescita
impetuosa dei paesi della periferia produttiva, dall’Asia all’America Latina,
che rimette in discussione gli equilibri strategici del pianeta. L’espansione
delle economie emergenti aveva fin qui permesso al «centro» una tenuta
economica, sociale e politica, basata su uno scambio non esplicito: salari
fermi, ma mercibase a prezzi inferiori o bloccati. Ora queste aree hanno
un’autonomia relativa che permette anche un maggiore protagonismo politico. E’
un grande cambiamento, la dimostrazione delle grandi opportunità offerte dalla
crisi. Non certo prive di rischi.
2. APPRENDERE
DALLA STORIA. UNA QUESTIONE DI METODO
Siamo davanti a
una crisi sistemica, dicevamo. Ma nessuna crisi, per quanto violenta, produce
da sola la «crisi finale» del modo di produzione capitalistico. Per quanto
devastanti possano esserne gli effetti, il «salto epocale» di sistema richiede
un intervento soggettivo: ovvero una classe e un progetto. E se, all’inizio del
movimento operaio, la visione globale era il portato soprattutto di un’analisi
scientifica, oggi sono diventate visibili le condizioni comuni che
caratterizzano non solo la forza lavoro in ogni paese del mondo, ma anche i
limiti posti dall’ambiente e dalle risorse non riproducibili a una «ripresa»
non traumatica del business as usual.
Ogni fideistica
attesa della «catastrofe» che dovrebbe consegnarci un «nuovo mondo» va perciò
allontanata come la peste. Così come ogni illusione – tipica delle «sette»
politico-religiose – che «le masse» possano improvvisamente accorgersi che c’è
già pronta una «linea giusta» pronta a guidarle.
Quello della
soggettività, in effetti, è stato un autentico punto di crisi del Socialismo
sul finire del XX secolo. Tante le cause, di ordine sia storico che teorico.
Potremmo elencarne molte, a partire dall’arretratezza della Russia
pre-sovietica e dal peso che quell’arretratezza ha avuto – marxianamente – nel
delineare i caratteri salienti del «socialismo possibile» nella prima metà del
‘900. Limiti che nulla tolgono all’assalto al cielo compiuto nel secolo
passato, con centinaia di milioni di uomini e di donne, popoli interi, capaci
di reagire alla barbarie imperialista e a due guerre mondiali. Un patrimonio
inestimabile su cui scarsa è stata l’analisi e l’elaborazione teorica, tanto
più indispensabile alla luce dell’autentico «crollo» verificatosi alla fine
degli anni ‘80 e che non può certo essere ascritto a errori contingenti.
Percorso da cui peraltro si distinguono, per motivi diversi, sia l’ircocervo
cinese che la resistenza cubana.
I partiti che,
specie in Italia, hanno gestito il «tesoretto» elettorale ereditato dal PCI,
hanno preferito invece lucrare sulla simbologia e la retorica, mentre si
adattavano senza troppi problemi a un’idea di governo come amministrazione
dell’esistente.
Grande è, da
questo punto di vista, la responsabilità, nel nostro paese, di chi si è
intestato la
Rifondazione Comunista , ma,nei fatti, ha lavorato per la
rimozione e la demonizzazione di quell’esperienza, ignorando scientificamente
un approccio critico (anche radicale) ma che rimanesse dentro il solco del
pensiero marxista e del movimento operaio internazionale.
3. QUALE
SOCIALISMO DEL XXI SECOLO?
Non siamo un
setta che attende la terra promessa. Non abbiamo in tasca un talismano che ci
protegga dagli errori e ci guidi nelle scelte dure che la realtà pone ogni
giorno. Dobbiamo perciò dire con chiarezza che per noi “il comunismo non è uno
stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà
conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di
cose presente. Le condizioni di questo movimento risultano dal presupposto ora
esistente”.
E’ insomma un
principio attivo, un motore di conflitto, un prodotto dell’esistente e al tempo
stesso ciò che la trasforma. Ogni “progetto” che non tenga conto della realtà
empirica, fuori dai processi di organizzazione e mobilitazione di massa, è solo
un sogno.
Il presente globale
ci fornisce innumerevoli esempi di conflitto, in forme anche impensabili solo
30 anni fa (i movimenti integralisti, per dirne solo una). Ma certo non ci dà
più un “modello” di riferimento sul tipo di approdo, desiderabile o possibile,
della trasformazione sociale. Si può vivere questa “libertà di pensare” con
angoscia o come un formidabile stimolo per mettere al lavoro la capacità
creativa. Per guardare in faccia la realtà e cercare in essa le soluzioni, le
strade del cambiamento, i punti di frattura nel muro dello sfruttamento.
L’America Latina,
anche grazie al ruolo storico di Cuba, ci consegna un esempio di quest’ultimo
tipo. Le soluzioni differenti da un paese all’altro, 30 anni fa, sarebbero
facilmente state tacciate di “riformismo”, oppure di “localismo”, “etnicismo” e
così via. E invece sono oggi l’avanguardia del “movimento reale che abolisce lo
stato di cose presente”, perché sono riuscite a mettere in radicale discussione
il dominio del-l’imperialismo USA proprio nel loro “cortile di casa” e a
determinarsi in chiave anticapitalista.
Non possiamo dire
– né loro lo dicono – che lì ci si trovi di fronte al “superamento del modo di
produzione capitalistico”. Ma l’emersione di questa nuova realtà ha vivificato
i movimenti di classe in varie parti del mondo, è diventata il luogo
privilegiato dei social forum, aggregando forme di attivismo politico e sociale
che altrimenti resterebbero disperse e non comunicanti. Fornisce spunti, idee
nuove, ricchezza di soluzioni originali, spesso uniche e irripetibili. Indicano
una strada concreta in direzione del socialismo possibile in quelle condizioni
date. Rimettono lo sviluppo economico con i piedi per terra, dandogli finalità
di eguaglianza e recuperando un rapporto sano con la natura, i suoi tempi, i
suoi limiti. Ma soprattutto ricorda a tutti che nessuna idea può esser “giusta”
se non sa conquistare il cuore e la mente di sfruttati e diseredati.
Altrettanto
importante è anche la ripresa del movimento comunista in Asia, dal Nepal alle
Filippine, fino al subcontinente indiano, un movimento che sta ponendo il
socialismo come opzione credibile in grado di coniugare l’antimperialismo e
l’anticapitalismo.
Certamente più
problematica è una valutazione sul modello sociale cresciuto sotto la bandiera
rossa di Pechino. Per un verso, ha rotto con i principi della rivoluzione
maoista e dato vita a un poderoso processo di “accumulazione originaria” del
capitale per far uscire il paese dall’arretratezza contadina. Nel far questo ha
consapevolmente messo a disposizione delle imprese multinazionali centinaia di
milioni di propri cittadini, in condizioni di lavoro inumane e senza alcun
diritto, né in fabbrica né fuori. Per altro verso, nel far questo, ha seguito
linee progettuali che non prevedevano una “resa” al modo di produzione
dominante, ma il suo utilizzo per raggiungere uno scopo. Dalla Cina non arriva
affatto, dunque, un’indicazione di alternativa sociale universalmente valida.
Tanto più se teniamo conto che la sua crescente potenza manifatturiera accelera
tutti i processi che portano a scontrarsi con i limiti naturali invalicabili
(clima, ambiente, risorse non riproducibili).
Sul piano
geostrategico, invece, lo sviluppo cinese ha modificato i rapporti di forza
globali. La delocalizzazione della manifattura ha lasciato infine l’Occidente
imperialista privo di una leva fondamentale per l’accumulazione. Sul piano
delle condizioni di vita, il miglioramento relativo dei livelli di reddito per
la popolazione cinese (cui si è aggiunto il pesante contributo dell’India e di
altri paesi “emergenti”) è andata di pari passo con l’impoverimento relativo
delle classi subordinate dei paesi sviluppati. L’esplicitarsi dei caratteri
strutturali e sistemici della crisi si è quindi tradotto, da questa parte del
mondo, nel rapido accantonamento del “compromesso tra capitale e lavoro”,
proprio mentre laggiù si cominciano a introdurre i primi istituti di welfare.
La “convergenza” oggettiva dei livelli di reddito e degli stili di vita riduce
i differenziali su cui le imprese son solite giocare per massimizzare i
profitti e crea situazioni sociali meno distanti, composizioni di classe meno
disomogenee. Avvicina i popoli perché rende simili i loro problemi e quindi
anche le possibili soluzioni.
Segnali
ambivalenti, su cui manca per ora un’analisi adeguata, ma che sconsigliano
facili entusiasmi o condanne ideologiche che lasciano il tempo che trovano
(declinabili – su fronti opposti – sia come “tradimento del comunismo” o come
“mancato rispetto dei diritti umani”).
Il dato nuovo che
deve interessare è di tutt’altra natura: con la crisi si vanno creando le
condizioni oggettive che rendono contemporaneamente possibile e necessario, per
l’umanità, porre all’ordine del giorno il superamento dell’attuale modello di
sviluppo. Da forze, movimenti e stati storicamente esterni al “centro
imperialista” come dal patrimonio storico, ma in tempo reale – possono venire
suggestioni, analogie, “sponde”. Ma il compito di definire una strategia e
un’azione politico-sociale che sia all’altezza della situazione e sagomata
sulle caratteristiche dell’area in cui viviamo è per intero responsabilità
nostra; dei comunisti presenti in ogni paese.
4. L’UNIONE
EUROPEA, UN POLO IMPERIALISTA
Non possiamo che
partire da un giudizio chiaro sulla natura della Unione Europea, un progetto
imperialista ancora incompleto, ma che va avanti nonostante le crescenti
contraddizioni dell’economia e della politica internazionale.
La nascita
dell’euro ha segnato una svolta importante per la storia dell’Europa ma ha
anche dato il segno del carattere strategico dell’Unione Europea nella
competizione globale.
Le cause che
hanno spinto il processo di unificazione economica europea sono profondamente
strutturali e attengono pienamente alle dinamiche dello sviluppo capitalista.
Il rapido sviluppo che le forze produttive hanno avuto, nell’ultimo trentennio
nei paesi imperialisti dell’Europa, gli hanno consentito d’imporre una
razionalità produttiva che, per sostenere i livelli di competizione e di
ristrutturazione produttiva conseguente, ha imposto una dimensione economica, e
quindi politica e statale, più ampia di quella fornita dalla sola dimensione
nazionale dei singoli Stati europei.
Si è trattato,
dunque, di scelte eminentemente politiche dettate dalla necessità di
assecondare le dinamiche del capitalismo moderno. E’ in corso a livello globale
un processo di costituzione in aree economiche e monetarie che non riguarda
solo l’Europa ma anche gli altri stati imperialisti: gli USA, ad esempio, con
il NAFTA e il tentativo di estenderlo a livello centro e latinoamericano, ma
anche in Asia, prima intorno al Giappone, sebbene i tentativi siano falliti.
Questa necessità di strutturarsi in blocchi di Stati integrati, per poi
competere a livello globale, si presenta anche per i paesi della periferia produttiva
dell’Asia, dell’America Latina, dell’Africa concretizzandosi con l’emersione
dei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica).
In questa fase
storica in cui l’Euro si sta ormai conquistando un ruolo economico
internazionale capace di competere con il dollaro, si vanno costituendo, con
fusioni e acquisizioni, imprese europee capaci di superare la loro precedente
base nazionale, assurgendo ad una dimensione transnazionale che influenza in
senso reazionario le politiche delle istituzioni europee, le quali, a loro
volta, condizionano pesantemente e sempre più frequentemente le scelte
politiche dei singoli Stati nazionali. A chi lamenta l’inadeguatezza o il lento
procedere della costruzione dell’Unione Europea, va fatto rilevare che, assai
spesso, sono proprio gli europeisti più convinti a mostrare la loro
insoddisfazione per un processo che avrebbero voluto molto più veloce e
irreversibile anche attraverso una Costituzione Europea tecnocratica e molto
lontana da una concezione di effettiva democrazia.
Abbiamo davanti
agli occhi una nuova accelerazione dovuta all’acuirsi anche in senso politico e
sociale crisi economica internazionale: il salvataggio del sistema finanziario,
delle banche europee e l’esplosione del debito sovrano che produce un enorme
trasferimento di ricchezza dalla classe lavoratrice ai detentori di titoli e
alla finanza; tutto ciò rafforza la gerarchizzazione delle borghesie
continentali e la costituzione, dentro questo quadro, di una vera e propria
borghesia europea.
La borghesia
tedesca si candida, più delle altre, a essere il nucleo forte della costituenda
borghesia europea unificata. Emergono in tale contesto sia alleanze e
contraddizioni con le borghesie degli altri paesi forti dell’Europa, quali la Francia e l’Inghilterra,
sia una subordinazione gerarchica degli altri Stati europei più deboli quali la Spagna , la Grecia , il Portogallo,
l’Irlanda e l’Italia. Una subordinazione che diviene totale per la vicina
periferia produttiva interna alla Unione Europea come i paesi (ex socialisti)
dell’est Europa.
Lo sviluppo della
produzione, nella dimensione internazionale ed europea, ha determinato
nell’ultimo trentennio (e continua a determinare) profonde modificazioni nella
classe lavoratrice dei paesi imperialisti come in quelli della periferia. Nel
polo imperialista europeo è andata creandosi una gerarchia legata al ruolo
produttivo dei diversi paesi, generando condizioni oggettive e percezioni di se
stessa da parte della classe lavoratrice, diverse dal passato e variamente
modulate all’interno del proprio assetto attuale.
Al centro della
produzione in Europa, ci sono infatti i livelli scientificamente e
tecnologicamente più avanzati, la finanza e le grandi banche, lo sviluppo della
società dei servizi e le aree dove il commercio e il consumo rappresentano il
mercato maggiormente appetibile.
Con gli eventi
nell’Europa dell’Est alla fine del XX Secolo, si è creata una prima periferia
produttiva continentale dove il costo del lavoro è tale da poter produrre
profitti elevati per le imprese del nucleo forte europeo e dove attraverso la
disgregazione forzata o la debolezza degli Stati sono state prodotte condizioni
ottimali per la finanza e le banche del-l’Europa occidentale.
Ma è venuta
emergendo anche una nuova periferia produttiva, istituzionalmente ancora
esterna all’Unione Europea, situata nella sponda sud del Mediterraneo, una
periferia che consente nuovi spazi per la realizzazione dei profitti aumentando
lo sfruttamento della forza lavoro. Questa ambizione europea si disloca anche in
Asia ed in America Latina.
L’Europa
imperialista produce, dunque, una diversificazione della classe lavoratrice e
delle classi subalterne che è funzionale alla stabilità e al proprio dominio
politico. Il riconoscimento della nascita di un’aristocrazia salariata europea,
con privilegi economici e sociali che oggi iniziano a essere erosi dalla crisi,
è parte integrante dell’analisi marxista e leninista della società e pone
problemi politici rilevanti e adeguamenti altrettanto importanti per le
organizzazioni comuniste che agiscono nello spazio europeo. Infatti anche in
uno dei cuori pulsanti del capitalismo, l’assetto prodotto dalle precedenti
fasi di riorganizzazione internazionale deve oggi, fare i conti con la crisi di
sistema che continuerà a caratterizzare i prossimi anni e che costituirà lo
scenario nel quale sarà possibile ricostruire il terreno per la riaffermazione
delle forze di classe.
5. ITALIA. UN
CAPITALISMO SENZA BORGHESIA
L’Italia è parte
integrante di questo processo, lo promuove e lo subisce con intensità superiore
alla media, con la polarizzazione ormai evidente tra le pochissime imprese di
dimensione multinazionale e la poltiglia delle microaziende senza alcuna
autonomia progettuale.
Di conseguenza,
difficilmente la nostra borghesia – se paragonata col resto dell’Europa – può
meritare d’esser definita tale, in quanto non è classe dirigente. I gruppi più
rilevanti fanno profitto sfruttando posizioni di monopolio o oligopolio
acquisite grazie ai processi di privatizzazione, al parassitismo a spese dello
Stato a stretto contatto – negli appalti e subappalti – con le grandi
organizzazioni criminali. Sfruttano economie di scala nella concorrenza con la
piccola impresa e contribuiscono a tener bassissimo il costo del lavoro. Un
esempio concreto viene dalle banche, che hanno dato vita a un processo di
concentrazione per fusione dopo la privatizzazione degli istituti di diritto
pubblico e di quelli “di interesse nazionale”. Si vanno unificando così le
quantità e le funzioni derivanti dalle rendite di posizione e di quelle
immobiliari e finanziarie.
Profitti e
rendite sono state salvaguardate anche eliminando gli investimenti in ricerca e
sviluppo; mai con una politica industriale forte, come in Germania e in
Francia. Del resto questa è una conseguenza diretta della volontà di limitare
oltre il ragionevole “l’intervento dello Stato nel-l’economia”.
Incapace di
sostenere la normale competizione capitalista (idolatrata a chiacchiere), è una
borghesia che si è rifugiata in una condizione protetta ma debole, che oggi
paga dazio a una storica debolezza strutturale. La crisi permanente della
classe politica – da Tangentopoli in poi – è lo specchio di una classe senza
spina dorsale, che rende di fatto impossibile un compattamento intorno a
progetti-paese. Centrodestra e centrosinistra ne sono espressione fedele e
impotente.
Una borghesia,
dunque, da sempre e per sempre forte con i deboli e debole con i forti,
incapace di essere classe dirigente ma solo classe dominante. La sua crisi
rischia di far pagare al nostro paese un prezzo molto più salato del solo
arretramento economico e “competitivo”. Sta rapidamente perdendo ruolo in
Europa e precipita verso una posizione subordinata e ininfluente, prefigurando
un futuro non troppo dissimile da quello della borghesia meridionale durante il
processo di unificazione nazionale dell’Italia.
Un quadro che
rende ancora più critica la condizione dei lavoratori, sotto ogni tipo di
azienda o condizione contrattuale (“stabili”, precari, in nero). Qui più che
altrove è stato violento l’arretramento sul piano sindacale, salariale, dei
diritti. Perché qui più che altrove il movimento operaio aveva realizzato
conquiste poi incardinate in atti legislativi, riforme del welfare, istituzioni
e corpi sociali intermedi. Un processo di smantellamento iniziato assai presto
(l’abolizione del “punto di scala mobile”, voluta da Craxi addirittura nell’84)
e che ha subito un’accelerazione violenta dalla metà degli anni ’90 in poi,
qualsiasi fosse la composizione del governo in carica. Un processo che ha
coinvolto i sindacati confederali, inchiodati al patto di concertazione fin dal
1993, ed ora in caduta libera nella “complicità” neocorporativa.
Una situazione
difficilissima, risultato della mutazione genetica dei partiti e dei sindacati
della sinistra storica, più ancora che delle modificazioni nella composizione
di classe.
Questa Italia,
dunque, dentro il processo di unificazione europea, viaggia in direzioni
opposte: dentro il nucleo forte dell’Europa, attraverso l’apparato produttivo
del nord e, in parte, verso la marginalizzazione. Una polarizzazione che
aggrava la permanente questione meridionale e ha fatto crescere, nel nord del
paese, pericolose derive separatiste e apertamente razziste.
L’aristocrazia
salariata di casa nostra ha visto modificarsi la propria condizione economica
e, nel crollo delle soggettività di sinistra, anche la coscienza di sé. La
propensione razzista verso gli immigrati, percepiti come un pericolo per il
mantenimento del proprio status sociale, affonda in parte la sua ragion
d’essere nella confusa consapevolezza che il vecchio sistema sta cadendo a
pezzi. La Lega e
il berlusconismo si sono inseriti in queste paure di massa, alimentandole a
cavalcandole senza riserve.
E’ un quadro
molto diverso da quello che era stato ereditato dal dopoguerra e fino a metà
degli anni ’80. Per chi, come i comunisti, si pone l’obiettivo della
trasformazione sociale, diventa perciò fatale qualsiasi coazione a ripetere
vecchie soluzioni, argomentazioni, slogan. E soprattutto qualsiasi tentazione
di “arroccarsi” nella pura gestione di un patrimonio di consensi ormai in
scadenza (sul piano elettorale), così come nella dimensione di “piccola
comunità ideale”. Due tendenze manifestatasi ampiamente nel corso dell’ultimo
decennio, quando la dimensione meramente istituzionale ha prevalso su tutto.
6. LA PROPOSTA POLITICA
DELLA RETE DEI COMUNSITI
Fino alla seconda
Assemblea Nazionale del 2007 la
Rete dei Comunisti ha agito come una sorta di intellettuale
collettivo al «servizio» dell’azione politica e sindacale e della ricostruzione
di un punto di vista comunista della realtà. Non abbiamo mai inteso essere un
«cenacolo», al contrario abbiamo sempre ritenuto doverosa e discriminante
l’internità dei militanti ai movimenti reali che si esprimono sul piano delle
lotte sociali, per la solidarietà internazionalista, per il sindacato di
classe, né ci siamo mai sottratti al dibattito sulla rappresentanza politica
che oggi riguarda materialmente pezzi significativi del blocco sociale
antagonista e della sinistra di classe. Sta qui la dialettica tra progetto
strategico della Rete dei Comunisti e capacità di agire nelle lotte e nei
movimenti sociali, senza rinunciare alla battaglia delle idee e all’analisi
critica della nostra storia passata e presente.
Abbiamo definito
questa modalità di concezione e di azione politica come articolata su “tre
fronti”.
A Il “fronte
strategico” attraverso la ricostruzione di una analisi e di un punto di vista
comunista della realtà, un processo iniziato a metà degli anni Novanta che ha
sviluppato la ricerca e l’attualizzazione su temi come l’imperialismo, la
composizione e l’inchiesta di classe, le caratteristiche del conflitto tra
capitale e lavoro, il passato e il presente delle esperienze di transizione al
socialismo
B Il “fronte
politico” che ha sempre avuto ben presente l’esigenza della rappresentanza
politica (anche elettorale) come espressione però di interessi di classe
definiti e organizzati e non – dunque – di mera rappresentazione di residue
storie politiche e personali della sinistra per quanto dignitose esse possano
essere.
C Il “fronte
sociale” dell’organizzazione diretta dei settori del blocco sociale antagonista
tramite il conflitto di classe nei posti di lavoro e nelle aree metropolitane,
un processo questo che ha le sue radici, esperienze, elaborazioni e convinzioni
sin dagli anni Settanta.
Abbiamo inteso
articolare la nostra azione politica su tre fronti perché la loro sintesi nel
nostro paese è andata liquidandosi nel corso del tempo, sia sotto i colpi
dell’avversario e delle modificazioni nella realtà sociale, sia per le
crescenti contraddizioni interne dei partiti comunisti esistenti.
Rimettere in
campo una nuova e immediata sintesi tra strategia, organizzazione del blocco
sociale antagonista e rappresentanza politica di classe, non ci è sembrato in
questi anni un traguardo accessibile. Più volte e pubblicamente abbiamo
dichiarato la nostra non autosufficienza come organizzazione politica comunista
per riempire un vuoto che si è andato allargando negli anni.
Nasce da questa
coscienza comune la decisione di procedere “a rete”, riconnettendo un tessuto
di quadri, militanti, attivisti, intellettuali comunisti, consapevoli dei
passaggi da operare e liberati culturalmente dal macchiettismo che produce
continuamente piccoli e nuovi partiti comunisti, generali senza eserciti, o
eserciti di attivisti sociali ma senza una sintesi generale con i piedi
saldamente piantati a terra.
Questa concezione
dei tre fronti è stata spesso poco compresa o talvolta avversata da compagni
che hanno perpetuato una concezione riformista del partito comunista o una
“affascinante” ma finora inefficace sintesi tra soggetto politico e
soggettività sociale.
Con la terza
Assemblea Nazionale della Rete dei Comunisti abbiamo inteso precisare le
caratteristiche e le ambizioni possibili di tale proposta.
A. LA COSTRUZIONE DEL
PARTITO DEI COMUNISTI
Il documento e
l’incontro nazionale del febbraio 2010 su “Organizzazione e Partito” ha messo
nero su bianco la nostra elaborazione sul partito comunista, inteso come
“partito di quadri con funzione di massa”. In essa vi è l’analisi sulla realtà
in cui siamo chiamati ad agire (un paese intermedio ma nel cuore del
capitalismo maturo), sul nesso tra il partito e la composizione di classe esistente
e nella collocazione del nostro paese nella divisione internazionale del
lavoro, sulla funzione di un partito comunista dentro la complessità di una
società come quella in cui viviamo nel XXI Secolo. La nostra concezione di
partito confligge apertamente con quella venuta imponendosi negli anni, che ha
visto prevalere i partiti dei funzionari, organizzazioni della mera propaganda,
apparati elettorali e della predominanza dei gruppi parlamentari sulla vita
politica e sulle priorità.
Abbiamo potuto verificare
come militanza e organizzazione siano diventate due esperienze desuete nella
formazione e nella sperimentazione di migliaia di compagne e compagni nel
nostro paese. Dalle teorizzazioni del “partito leggero” alla realtà dei partiti
come “apparati elettorali” o dei nuovi “partiti ad personam”; l’idea stessa
dell’organizzazione come ambito per l’aggregazione, la formazione, la
discussione, la comprensione, l’attivizzazione dei compagni e come strumento
indispensabile del conflitto sociale, è stata demolita. La militanza si è ormai
trasformata solo in adesione tramite tesseramento, in una attività quasi
dopolavoristica nelle sedi (quando ci sono), in propaganda e campagne
elettorali. Costruire soggettività e identità politica con questi criteri si è
rivelato devastante per una idea anche minima di militanza attiva e di
radicamento sociale.
Riaffermiamo,
dunque, la nostra concezione di partito come intellettuale collettivo piuttosto
che come “appendice del segretario e delle sue capacità”. Ma è anche una
concezione processuale della sua costruzione che nega al partito il valore
feticista che gli si è venuto attribuendo come soluzione taumaturgica di tutti
i problemi. In tal senso affermiamo che in questo processo di costruzione del
partito la Rete
dei Comunisti non è e non ritiene di poter essere autosufficiente. Ne deriva
che intendiamo facilitare – anche formalmente - in ogni modo i processi di
confronto, convergenza, amalgama con altri compagni e soggettività comuniste
che lavorano nella stessa direzione. Rivendichiamo come nostra la storia del
movimento comunista del XX, ne rivendichiamo gli errori e i successi ma
intendiamo indagarne e comprenderne a fondo le contraddizioni. La trascuratezza
nell’elaborazione teorica, la scarsa conoscenza della storia e lo schematismo
che hanno dilagato in questi ultimi trenta anni, sono stati un ostacolo ad un
serio bilancio storico ed hanno spianato la strada alle posizioni
liquidazioniste che oggi si offrono di nuovo come soluzione alla crisi della
sinistra e dei comunisti.
B. RAPPRESENTANZA
POLITICA INDIPENDENTE E FRONTE POLITICO-SOCIALE ANTICAPITALISTA
I comunisti non
possono sottovalutare le contraddizioni che si sono accumulate in questi anni e
i conti che gli presenta la storia. Non esiste più il tesoretto elettorale del
PCI, né rendite di posizione che consentono di dare come scontata la
credibilità e la funzione emancipatrice che hanno avuto nella storia. La
funzione dinamica e di avanguardia dei comunisti va completamente riconquistata
dentro le contraddizioni e le forze sociali. Quando parliamo di rappresentanza
politica indipendente del blocco sociale antagonista intendiamo riaffermare la
centralità del-l’autonomia degli interessi di classe da quelli delle
compatibilità di sistema. L’espressione organizzata di questi interessi, anche
sul piano elettorale, confligge apertamente con ogni subalternità alla logica
bipartizan di gestione della crisi ed a forze politiche che dichiarano
apertamente di voler cooptare i lavoratori dentro al patto neocorporativo. Voler
battere Berlusconi non significa consegnare nuovamente le classi subalterne
nelle mani dei suoi competitori nelle banche, nella Confindustria e
nel-l’establishment dell’Unione Europea. I comunisti non possono che lavorare
ad una rappresentanza politica indipendente e di classe che sia il risultato di
alleanze sociali di segno anticapitalista.
Allo stesso tempo
non è possibile ignorare che la soggettività antagonista che si esprime nella
società non è tutta nè solo dei comunisti. Nel conflitto di classe sono venuti
emergendo attivisti e movimenti sociali anticapitalisti che non riconoscono la
propria identità dentro quella comunista. E’ così nel nostro paese ed è così in
molte parti del mondo. I soggetti politici della trasformazione sociale sono
oggi molto più artico-lati di quanto lo siano stati in passato. Il confronto e
l’azione comune con queste soggettività presuppone rapporti leali e identità
politiche definite. La ricomposizione di un fronte politico-sociale
anticapitalista che includa organizzazioni sociali, sindacali, ambientaliste,
soggetti politici, intellettuali antagonisti o democratici su una piattaforma
politica e sociale avanzata, può e deve diventare un percorso praticabile anche
in un paese a capitalismo maturo come l’Italia. E’ dentro e non fuori questo
fronte politico-sociale che i comunisti debbono e possono svolgere una funzione
propulsiva e non meramente strumentale o propagandistica.
Occorre
riaffermare con forza come la rappresentanza politica non può che essere
l’espressione organizzata degli interessi del blocco sociale antagonista e dei
settori sociali che lo esprimono. Si tratta dunque di una visione estremamente
diversa da quella di compagni che la interpretano come mera rappresentanza
elettorale o semplice coordinamento delle forze della sinistra. Confondere
questi due livelli ingenera confusione e riproduce quel politicismo da cui
occorre liberarsi con estrema decisione.
C. IL RAPPORTO DI
MASSA E IL FRONTE SOCIALE
L’elemento
dirimente per ogni prospettiva credibile di ricostruzione dell’opzione
comunista in Italia o di una rappresentanza politica del blocco sociale
antagonista, è il rapporto tra i militanti e i settori sociali. Un rapporto che
non può certo fondarsi solo sulla propaganda (tantomeno solo sulla propaganda elettorale)
ma che deve essere un nesso stretto e inscindibile nella funzione dei
comunisti. Quando negli anni Settanta si era parlato di “proletarizzazione” dei
militanti non si indicava una prospettiva di tipo missionario quanto un
approccio alla realtà e un metodo di lavoro.
In questi anni
abbiamo elaborato, costruito e praticato un metodo nel lavoro di massa
attraverso la costruzione del conflitto sociale organizzato, sia nei posti di
lavoro sia nelle aree metropolitane; una ipotesi che riprende esperienze già
sperimentate in passato e tenta di adeguarle alla realtà e alla complessità
sociale di oggi.
L’individuazione
delle aree metropolitane come ambito in cui quantità e qualità delle
contraddizioni di classe possono ricomporsi in fronte di lotta e blocco sociale
antagonista in presenza di una profonda frammentazione sociale, indica
concretamente una ipotesi di sperimentazione, radicamento e ricomposizione di
classe a nostro avviso decisivi. La questione del rapporto di massa è un
terreno di verifica importante nel ruolo dei comunisti in una società integrata
nel cuore sviluppato del capitalismo, soprattutto perché intendiamo una
rapporto di massa organizzato e non limitato alla propaganda.
Alla
disgregazione materiale e culturale indotta dalla riorganizzazione produttiva e
sociale del sistema occorre dare risposta con un forte ruolo della soggettività
politica dei comunisti nei processi di ricomposizione del conflitto di classe,
ma sarebbe un errore clamoroso pensare di avviare questi processi fondamentali
a partire dalla “politica” e non dalla comprensione teorica di come si
costruisce il rapporto di massa, qui ed ora. Far crescere il rapporto di massa
organizzato, e di conseguenza la coscienza di classe, fornire ai quadri
politici un metodo di lavoro e degli strumenti interpretativi adeguati alle
caratteristiche della classe reale è un compito al quale i comunisti non
possono sottrarsi.
7. COSTRUIRE
L’ORGANIZZAZIONE DEI COMUNISTI
Il punto è,
allora, cosa sono i comunisti oggi e cosa fanno nell’Italia e nell’Europa
appena descritte. Certamente la questione del partito, del-l’organizzazione,
del rapporto di massa sono le questioni concrete cui dare una risposta più
adeguata possibile alle condizioni in cui si opera, ma vengono prima alcune
questioni di fondo, alla base, cioè, di ogni processo di riorganizzazione dei
comunisti, attenendo alla funzione che questi devono svolgere nell’indicare una
diversa idea di società e di relazioni sociali.
La prima
questione che riteniamo fondamentale è quella del senso del collettivo. Gli
ultimi decenni sono stati devastanti dal punto di vista della cultura politica
dei comunisti. La crisi politica e la dimensione pervasiva delle relazioni
istituzionali, vissute come esclusive e autoreferenziali, ha prodotto un individualismo
diffuso, una competizione personale e un arrivismo indecente che ha smontato,
pezzo a pezzo, un patrimonio unico nell’occidente capitalistico: quello del
movimento operaio, del PCI e dell’intero movimento degli anni ’70. Questa
mutazione è stato il riflesso assorbito passivamente dai comunisti verso la
modifica dei rapporti di forza tra le classi, della ripresa di egemonia dei
valori borghesi che ha riguardato la classe ed il popolo del nostro paese ed ha
portato al tradimento di quella democrazia progressiva obiettivo delle lotte
popolari del dopoguerra. Su questa seconda natura posticcia, acquisita dai
comunisti e dalla sinistra in genere, va dato anche un netto giudizio etico: la
corruzione intellettuale subita, sebbene non sia il punto centrale, ci obbliga,
infatti, ad assumere posizione anche su questo piano.
Il danno
principale, per i comunisti italiani, è stato, invece, l’effetto prodotto da
questi comportamenti: la distruzione dell’indipendenza delle organizzazioni di
classe e il cui metro di valutazione obiettiva, oggi, sono i sempre più
disastrosi risultati elettorali e la perdita d’indipendenza che ha avuto
conseguenze profonde e devastanti nella battaglia delle idee per una concezione
alternativa del mondo. Ricostruire, nella realtà odierna l’identità, la
militanza e il senso del collettivo è, dunque, un compito primario da svolgere.
È il ruolo della
teoria, l’altro terreno saccheggiato: l’oblio e la mistificazione di un
pensiero forte che, lungi dall’essere fuori dal tempo, funziona ancora oggi, e
cioè il marxismo. Anche questo è un segno della lotta di classe in atto: la
forza del movimento operaio è stata la potenza di un pensiero razionale che
sapeva interpretare il mondo e le sue dinamiche. Aver abdicato a questa
funzione, aver favorito l’egemonia del pensiero debole, come anche aver
sistematicamente anteposto il politicismo all’interpretazione e all’analisi, ha
portato alla situazione attuale. La qualità della elaborazione teorica rimane
centrale per una ricostruzione che, per quanto non dogmaticamente legata al
passato, allo stesso modo non getti, però, il bambino con l’acqua sporca,
riprendendo quegli elementi di teoria validi per l’azione, per recuperare,
così, capacità d’analisi e d’intervento sul presente che calate compiutamente
all’interno delle strutture socio-economiche e politico-culturali del momento,
assumono tutta la loro specificità e tutta la loro dirompente forza di
trasformazione: altro che ferri vecchi!
Se una critica
deve esser mossa al movimento comunista del ‘900 – tutto intero – è di aver
subordinato la teoria alla linea politica. Aver insomma messo la teoria al
servizio – o a giustificazione – di scelte che sono sempre politiche. E come
tali soggette ad errore. Non è avvenuto soltanto per l’Urss o il Pci. Ogni
“eresia” di sinistra, nel secolo scorso, ha seguito l’identico schema, magari
solo per giustificare scelte diverse o leader poi sconfitti.
Infine: il
rapporto di massa. Non esiste nessuna seria “organizzazione comunista” se non è
radicata nella classe e nel conflitto. Non si forma nessun quadro comunista se
non si fanno i conti in prima persona con la realtà delle “masse” concretamente
esistenti. Quando un “rivoluzionario” si scopre “senza un popolo”, vuol dire
cha ha perso il sentiero. Il rapporto di massa è l’unico terreno di verifica
delle capacità individuali e collettive di “costruire organizzazione”. Ogni
ipotesi strategica o di linea politica, se non riceve il conforto della
verifica di massa, resta una pura ipotesi. Ogni argomento che non “fa presa” su
un interlocutore di massa reale, o è sbagliato o è “detto” in modo
incomprensibile. Tra gli anglofoni si parla inglese, non italiano o latino.
Alla
disgregazione materiale indotta dalla riorganizzazione produttiva e sociale si
risponde con un forte ruolo della soggettività nei processi di ricomposizione
del conflitto di classe; pensare di farlo partendo immediatamente dalla
“politica” – magari intesa o nella sua dimensione più autonoma e astratta –
significa continuare a seguire una via senza uscita. Far crescere il rapporto
di massa organizzato, e di conseguenza la coscienza di classe, fornire ai
quadri politici un metodo di lavoro e di verifica delle proprie ipotesi, è
invece un compito cui nessuno si può sottrarre. Noi per primi, ovviamente.
E’ partendo da
questi elementi che vanno intrapresi i processi di ricostruzione. Crediamo di
poter affermare, perciò, che oggi l’Organizzazione dei comunisti non può che
avere il carattere della militanza dei quadri e anche quello della ricerca di
una qualità intesa come capacità edificatrice di un punto di vista organico al
mondo moderno, quindi, recuperare quella “conoscenza del rapporto tra tutte le
classi dal punto di vista della classe operaia” come viene ricordato nel “Che
Fare?”. Il carattere militante dei quadri non significa ipotizzare una chiusura
settaria ma è, al contrario, la condizione presupposta e necessaria per
sviluppare al massimo una funzione di massa, per costruire processi larghi di
organizzazione dovunque questo sia possibile, al di là di ogni concezione
schematica e ossificata della classe e che coinvolga, invece, tutti i settori
sociali, culturali e produttivi che hanno il comune interesse a una
trasformazione sociale.
Solo così – ci
sembra – diventa chiara la funzione dei progetti di costruzione della
rappresentanza sociale, sindacale e politica – organizzata e indipendente – del
blocco sociale penalizzato sia dallo sviluppo che dalla crisi del capitalismo.
E’ su questa
chiarezza, su questa dimensione del fare, che fondiamo il senso stesso
dell’agire da comunisti oggi. Perché siamo ciò che facciamo, non quel che
diciamo – magari a noi stessi – di essere.
IL REGOLAMENTO DELLA RETE DEI COMUNISTI
Approvato all’Assemblea Nazionale
del 2 e 3 Aprile 2011
La tenuta
dell’organizzazione è stata garantita dalla costruzione processuale di una
identità collettiva ed il collante è stato il “patto politico” tra compagni che
condividevano un punto di vista generale a partire dalla riaffermazione della
indipendenza politica del movimento di classe e dei comunisti. Questi elementi
strategici assieme al continuo consolidamento e crescita del rapporto di massa
sociale e politico nelle sue molteplici forme hanno permesso una omogeneità
costruita sul confronto interno che ha permesso il mantenimento della
prospettiva generale.
Questa “forma
informale” di organizzazione ha permesso nell’ultimo decennio di affrontare le
varie fasi che hanno caratterizzato il conflitto sociale e politico nel paese
ed il confronto con le altre ipotesi politiche, spesso in una nostra condizione
di relativa dimensione organizzativa. Oggi, di fronte alle possibilità che
produce lo sviluppo delle contraddizioni e la richiesta di organizzazione che
viene dalla crisi delle formazioni comuniste, riteniamo sia necessario
ipotizzare e sperimentare ipotesi organizzative più avanzate di quelle
praticate da noi in questi anni.
Non si tratta,
ora, di costituire un nuovo partito da aggiungere ad altri, ma di intraprendere
un processo di organizzazione dei comunisti che sappia essere strumento
politico effettivo ma che non si chiuda in un modello definitivamente
confezionato ed impermeabile alle evoluzioni del rapporto con le altre
strutture che si collocano nella nostra stessa prospettiva. In questo senso ha
ancora vigenza il “patto politico” che ha permesso la tenuta della RdC in anni
certamente complessi e vogliamo lasciare il carattere a rete delle relazioni
con altre esperienze comuniste coscienti di essere dentro un processo i
ricomposizione i cui esiti sono ancora da definire.
La scelta di
essere organizzazione di militanti con funzioni di massa e la disillusione
prodotta da innumerevoli esperienze negative fatte dentro e fuori i partiti, ci
spinge a definire due piani di relazione organizzata, quella dei militanti e
quella degli attivisti. I militanti sono coloro i quali intendono non solo
aderire al progetto ma assumere responsabilità soggettive nelle strutture e
nella attività dell’organizzazione. Impegni individuali che devono avere a
riferimento la discussione e le decisioni collettivamente prese sia nelle
strutture di direzione che di lavoro di cui la RdC si fornisce. L’importanza del collettivo non
risiede solo nella necessità di affrontare adeguatamente i complessi problemi
che intendiamo affrontare ma anche essere una controtendenza alle derive
individualiste, leaderistiche e competitive che si sono ampiamente radicate
nella cultura politica della sinistra e dei comunisti.
Attivista è chi,
pur condividendo il progetto politico, non intende impegnarsi con incarichi di
responsabilità nelle strutture. L’obbligo che si chiede è quello della
partecipazione attiva al dibattito politico delle strutture di appartenenza ed
alle iniziative politiche dell’organizzazione. Vanno naturalmente sollecitate e
costruite tutte quelle forme di collaborazione organizzata praticabili in base
alle esigenze degli attivisti. La condizione di attivista ha però un’altra
funzione da svolgere in quanto il rapporto tra attivisti e militanti è
dinamico. La relazione che si stabilisce è anche un momento di reciproca
verifica, sulla condivisione delle scelte e dalla pratica politica, funzionale
ad un rafforzamento del rapporto da militanti tramite l’assunzione di
responsabilità nelle strutture, naturalmente se è il risultato di una verifica
positiva. D’altra parte questa elasticità della relazione politica interna
permette anche di tornare in modo non traumatico su scelte d’organizzazione già
fatte ma che possono mostrare difficoltà politiche o individuali nello sviluppo
della attività organizzata.
L’adesione alla
Rete dei Comunisti avviene tramite rilascio della tessera individuale in cui
vengono definiti i rispettivi ambiti di dibattito e di organizzazione; per gli
attivisti sono l’Assemblea Nazionale annuale e gli attivi locali, per i
militanti, inoltre, sono il Coordinamento Nazionale e la Segreteria.
L’ARTICOLATO
1) Assemblea
Nazionale. La Rete
dei Comunisti convoca tutti gli anni la propria Assemblea Nazionale con tutti i
suoi aderenti, militanti, attivisti e i rappresentanti delle organizzazioni che
hanno stretto “patti federativi” con la nostra Organizzazione, per analizzare
la situazione politica nazionale ed internazionale, le scelte politiche fatte
nell’anno trascorso, per progettare l’attività dell’organizzazione per l’anno
successivo e per verificare nella pratica il funzionamento delle strutture
dell’organizzazione, infine per rafforzare il percorso di formazione politica
collettiva.
2) Coordinamento
Nazionale. Il Coordinamento Nazionale è l’Attivo Nazionale dei militanti
dell’Organizzazione, è la struttura di direzione che deve attuare le scelte
fatte dalla Assemblea Nazionale, verificare l’attività complessiva delle
strutture nazionali e territoriali. Al Coordinamento partecipano coloro i quali
hanno incarichi di responsabilità nella direzione e nella gestione delle
strutture di lavoro nazionali, settoriali e di quelle territoriali. Alla
attività del Coordinamento Nazionale partecipano di diritto i rappresentanti
delle Organizzazioni Federate nella misura decisa nei patti federativi
reciprocamente sottoscritti.
3) Segreteria. La Segreteria è la
struttura di gestione dell’attività complessiva dell’Organizzazione. La Segreteria deve attuare
le scelte politiche decise dal Coordinamento Nazionale e verificarle a tutti i
livelli necessari; deve, inoltre, promuovere il dibattito interno alle
strutture di lavoro e di intervento e la formazione politica coinvolgendo i
militanti ed gli attivisti dell’organizzazione.
4) I livelli
locali. Per i livelli locali si devono intendere le strutturazioni provinciali
e regionali come ambiti di gestione e coordinamento della attività della Rete
dei Comunisti. La strutturazione della direzione di questi livelli devono fare
riferimento a quelle nazionali con la formazione di coordinamento e segreteria
locale, composti dai quadri militanti, e con l’attivo generale come ambito
formale di dibattito, confronto politico e organizzazione anche per gli
attivisti dell’organizzazione.
5) Patti
Federativi. Possono essere ipotizzati patti federativi con strutture politiche
e settoriali, nazionali e locali che prevedano la partecipazione di queste al
Coordinamento Nazionale o nelle strutture di direzione dei livelli locali
previsti. Può essere prevista, se necessaria, la reciprocità della
partecipazione alle strutture di direzione con le organizzazioni federate.
6) Le adesioni. La Rete dei Comunisti ha scelto
di strutturarsi come organizzazione di quadri con funzione di massa ed è dunque
necessario definire due livelli di partecipazione alla sua attività
complessiva. La prima, e più larga, è quella degli attivisti cioè per chi
condivide il nostro punto di vista generale, lo sostiene e partecipa alla
attività politica ma che non ha un impegno e responsabilità dirette nella
gestione dell’organizzazione. Gli attivisti partecipano alla definizione delle
scelte politiche generali e locali come membri della Assemblea Nazionale e
degli Attivi Territoriali. Chi è impegnato in modo militante nel lavoro
dell’organizzazione è membro del Coordinamento Nazionale e partecipa alla
gestione della vita dell’Organizzazione con incarichi e responsabilità
conseguenti. Il Coordinamento Nazionale esprime al suo interno una Segreteria.
L’adesione è
individuale ed è inizialmente in qualità di Attivista. L’Organizzazione deve
operare affinché gli attivisti maturino la necessità di assumersi maggiori
responsabilità e divenire militanti a pieno titolo, questo passaggio ha bisogno
di un periodo di reciproca verifica per poter fare una scelte di impegno
pienamente cosciente. Il periodo può essere orientativamente di un anno con le
eventuali eccezioni che vanno valutate dalle strutture locali
dell’Organizzazione.
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