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mercoledì 18 settembre 2013

Lotta e Unità per l’organizzazione proletaria - La crisi del capitale e la lotta di classe

[Tratto dall’opuscolo omonimo del giugno 2010]

La crisi del Capitale e la lotta di classe
(Giugno 2010)
 (NOTE PER IL DIBATTITO POLITICO)

Che il capitalismo sia in crisi è un fatto, come ammettono i suoi stessi apologeti. Un po’ meno scontata è, invece, l’individuazione delle cause.
Sistemiche, intrinseche, affermiamo. Non siamo di fronte ad una semplice crisi ciclica del sistema capitalismo, bensì ad una profonda crisi strutturale, economica e sociale, scatenata dall’impetuoso sviluppo delle forze produttive, che “forzano” gli obsoleti rapporti sociali di produzione capitalisti.
Una contraddizione tra forze produttive e rapporti sociali che si manifesta sotto forma di crisi per sovrapproduzione, per cui il capitale prodotto non riesce a valorizzarsi secondo le aspettative dei capitalisti.
Nel capitalismo dell’avvenuta totalizzazione del rapporto di capitale, dove praticamente tutte le sfere della vita sociale - non solo strettamente economiche - sono state sottomesse alla mercificazione capitalista (D – M – D’), la merce rappresenta principalmente la forma del capitale che, com’è noto, non è una cosa bensì un rapporto sociale (di sfruttamento).
In tal senso si può affermare che le merci denaro, mezzi di produzione, forza lavoro e beni prodotti, sono in “sovrapproduzione” esclusivamente se considerate all’interno del processo di accumulazione capitalista, in cui assumono le differenti forme del capitale anticipato, capitale costante, capitale variabile, valore e plusvalore, quindi, profitto.

[L-U (analogamente, come vedremo, ad altre organizzazioni) afferma che il sistema capitalistico sia attraversato da una crisi di natura diversa dalle crisi cicliche che si sono susseguite alla fine del XIX secolo. L-U non usa il termine “generale”, ma indica la crisi attuale come “strutturale, economica e sociale” e facendo riferimento a Marx (Il Capitale vol. III), L-U indica la crisi attuale come “crisi per sovrapproduzione assoluta di capitale”.]

Secondo Marx si ha sovrapproduzione assoluta di capitale quando il capitale addizionale per lo sviluppo della produzione capitalistica è uguale a zero, ossia quando il capitale aggiuntivo non riesce a valorizzarsi. Egli specifica che col procedere del processo di accumulazione la valorizzazione del capitale va incontro a vari ostacoli, connessi allo sviluppo della produttività del lavoro necessario alla sopravvivenza dei singoli capitali nella lotta di concorrenza tra loro.
Il capitalista per affrontare la concorrenza deve infatti cercare di vendere ad un prezzo inferiore dei suoi concorrenti e ciò è possibile solo con la crescita della produttività del lavoro. La crescita della produttività ha però un costo, non è gratis. Questa è per la maggior parte connessa ad una “crescita del macchinario” (innovazione) nel processo produttivo, quindi al peso del valore del macchinario in rapporto al capitale totale. Il macchinario non fa che trasmettere il proprio valore al prodotto, man mano che viene consumato nel processo di produzione.
Finché il capitalista avrà il monopolio dell’innovazione, potrà ottenere comunque un sovrapprofitto, vendendo ad un prezzo di mercato superiore ai costi di produzione. Nel momento in cui gli altri capitalisti, costretti dallo stesso meccanismo della concorrenza, introdurranno anch’essi nuovi metodi di produzione e questi ultimi si generalizzeranno, il prezzo di mercato cadrà, adeguandosi al nuovo livello raggiunto dalla produttività del lavoro e tutto il peso del costo dei nuovi macchinari introdotti si scaricherà sul saggio di profitto. Trattandosi di un processo continuo, Marx parla di caduta tendenziale del saggio di profitto.

Il “nocciolo” della questione
In questa fase storica la borghesia, detenendo le leve del comando economico, politico-militare e sociale, si dimostra più consapevole dei propri interessi di classe, battendosi senza esclusione di colpi contro il proletariato, per arginare le falle del proprio sistema ed escogitando sempre nuovi meccanismi per salvarlo. Nella loro logica antagonistica, i padroni cercano di seguire una precisa “agenda di lavoro”, nel tentativo di abbassare la composizione organica del capitale - ossia il rapporto tra quello costante e quello variabile - verso il cui aumento il sistema si muove irrimediabilmente, sotto l’agire delle leggi stesse dell’accumulazione capitalista.
La prima parte di questa “agenda di contenimento”, a fronte di massicci investimenti in capitale costante per ottenere profitti straordinari utili a sbaragliare la concorrenza, prevede una sistematica azione dell’incremento della produttività (di plusvalore) della forza-lavoro, nei suoi termini relativi e assoluti. Licenziamenti, precarizzazione, aumento dei ritmi lavorativi, orario di lavoro straordinario, diminuzione del salario reale, sono solo alcuni dei trattamenti draconiani che i capitalisti riservano ai lavoratori, visti esclusivamente come “capitale variabile”, sui quali aumentare il tasso di sfruttamento, allo scopo di contrastare la tendenza suddetta.
A questo primo approccio, fa poi seguito il contenimento della crescita del capitale costante. Peggioramento delle condizioni di lavoro, disinvestimenti, speculazioni, evasione fiscale, deindustrializzazione, delocalizzazione, sono alcuni dei rimedi immediati, escogitati dal padronato per raggiungere l’obiettivo.

[Secondo L-U la borghesia, in quanto classe dominante, si dimostra più (di prima, del proletariato?) consapevole dei propri interessi e lotta per difendere il suo ordinamento sociale, in declino, basato sullo sfruttamento del proletariato. A tale scopo la borghesia opera attraverso due fasi (che dal testo sembra che L-U ponga come temporalmente successive l’una all’altra).]

Sviluppo del capitalismo monopolistico di Stato
Lo scivolamento nella crisi e le inevitabili necessità di mastodontici investimenti in capitale costante, improduttivo per sua natura, hanno come conseguenza più importante, la maturazione del sistema imperialista in capitalismo monopolistico di stato. Un sistema integrato, dove il connubio e la fusione tra le multinazionali e lo Stato, in tutte le loro sfumature, diventa un inestricabile sistema-paese. Un sistema monopolistico che domina in tutti i campi della vita sociale, con lo scopo di procurare e garantire profitti capitalistici, quindi privati. Non un fenomeno storico nuovo, ma una tappa dell’imperialismo che, nel procedere della crisi, subisce un’accelerazione, rafforzando il processo di concentrazione e centralizzazione capitalistico.
Andando avanti nel ragionamento va rimarcato che una delle principali confusioni su questo concetto, è quella di confonderlo, in quanto stadio superiore della fase imperialista, con il “capitalismo di stato” nella prospettiva del socialismo, impiegato come mezzo di sviluppo, temporaneo, delle forze produttive nei paesi arretrati. Di cui uno degli esempi storici più conosciuti fu la NEP bolscevica, nei primi anni della Repubblica dei Soviet. Non è un errore concettuale da poco confondere il “capitalismo monopolistico di stato” - nel quadro della dittatura della borghesia - così come si determina nella metropoli imperialista, con il “capitalismo di stato” nei paesi arretrati - concepito nel quadro della dittatura del proletariato -.
Avere chiaro nei ragionamenti in merito, qual’è la classe al potere - borghesia o proletariato – dovrebbe essere una lapalissiana discriminante, sostanziale e formale.
Di questa confusione, furbescamente, se ne sono approfittati i revisionisti di ogni risma, che nel corso dei decenni hanno mestato nel torbido, spacciandola addirittura come la “via italiana al socialismo” – iniettando velenose categorie come il welfare, piuttosto che il sistema delle partecipazioni statali -, cercando solo di mistificare l’abiura della lotta rivoluzionaria e l’arruolamento allo sfruttamento capitalistico.
Il capitalismo monopolistico di Stato, nel centro del sistema, rappresenta un particolare stadio di evoluzione dell’imperialismo, un sistema in cui, seppur giganteschi, i grandi monopoli privati multinazionali non sono più in grado di affrontare “in proprio” i mercati internazionali. I costi e gli investimenti per la competizione risultano proibitivi ed i rischi, ancor di più. In questo senso la sua continua evoluzione rappresenta la risposta adatta, per l’oligarchia finanziaria, in grado di affrontare la situazione di crisi, scaricandone i costi sull’apparato statale. Per meglio dire, sulle casse pubbliche finanziate in larga misura dalle masse di lavoratori “dipendenti”, ai quali tocca accollarseli, nell’impossibilità di sottrarsi a quella sorta di questua sociale pro-capitale che sono le tasse, in tutte le loro innumerevoli, rapaci declinazioni.
Lo Stato è trasformato, così, in una sorta di SpA dove i maggiori azionisti sono proprio i monopoli privati che ne dispongono a loro uso e consumo. Le costosissime e gigantesche infrastrutture energetiche, dei trasporti, delle comunicazioni, della sanità e dell’acqua…, costruite drenando la ricchezza prodotta dal proletariato, passano, a prezzi stracciati, direttamente nelle mani della borghesia. Nell’insaziabile ricerca di valorizzazione del capitale in eccedenza, infatti, gli oligarchi hanno scoperto che anche i cosiddetti servizi possono essere resi produttivi in termini capitalisti: dando avvio a processi di privatizzazione del patrimonio infrastrutturale “pubblico”.
Sotto lo slogan del “privatizzare i profitti e socializzare i costi”, si potrebbe sostenere che i monopoli capitalistici stanno strutturando proprio quello stato imperialista delle multinazionali che, nel passato, i loro tirapiedi avevano cercato in tutti i modi di liquidare come una farneticante suggestione di matrice…“terroristica”! ENI, ALITALIA, FS, TELECOM, OSPEDALI, UNIVERSITA’, POSTE, AUTOSTRADE…, sono esempi lampanti che lo dimostrano. Così come la decisione dei governi imperialisti, di fronte alla recente crisi finanziario-speculativa delle Borse occidentali, di appianare i debiti delle banche espropriando migliaia di miliardi di € di ricchezza pubblica ed indebitando tutta la popolazione con quello stesso sistema finanziario.

La guerra totale della borghesia
Ovviamente il capitalismo monopolistico di stato ha anche una sua evoluzione politico-militare, contraddistinta da uno straordinario consolidamento della “macchina statale”, l’inaudito accrescimento del suo apparato burocratico e militare, teso a garantire una più efficace repressione contro il proletariato, progressivamente sempre più rigido ed insubordinato, in opposizione all’aumento del tasso di sfruttamento.
Vanno in questo senso tutti i provvedimenti politici, legislativi, istituzionali e culturali di una ridefinizione dello Stato in termini ultrareazionari. Un adeguamento della forma di dominio, che pur nella continuità del contenuto di classe dello stato borghese, adatta la sovrastruttura alla struttura imperialista. In questa Grande Riforma oligarchica, allo Stato viene “cambiata” la pelle, abbandonando i suoi formali caratteri democratico-borghesi quali la distinzione dei poteri, l’uguaglianza di fronte alla legge, finanche le più elementari “libertà” politiche, sindacali e sociali, precedentemente tollerate. Un nuovo rapporto di forza tra le classi, a suggello del predominio della borghesia monopolista, viene impiantato attraverso una vera e propria guerra psicologica, fatta di emergenze continue ed insicurezza diffusa, dove persino ai vigili del fuoco, ai tramvieri, ai portieri, ai dirigenti scolastici e sanitari, verrà imposto di far parte del dispositivo di prevenzione e repressione politico-sociale. Un assetto securitario per cui a tutti gli insubordinati, gli oppositori o i semplici non-conformi al nuovo regime politico, sarà riservata la famigerata “tolleranza zero”. La demagogica utopia borghese della “liberté, egalité e fratenité”, tanto cara ai benpensanti, sarà definitivamente sostituita dalla ben più ruvida e rinnovata legalità.
Per gestire la sua crisi il grande capitale ha, quindi, dichiarato guerra al proletariato. Una guerra civile totale, che le classi dominanti conducono contro quelle sfruttate ed oppresse, ricorrendo a tutti i mezzi a disposizione, pur di preservare il proprio dominio. Mezzi e metodi diversi, combinati e modulati secondo il livello raggiunto dallo scontro, ma tutti sapientemente maneggiati. Che siano finanziarie da lacrime, terrorismo psicologico di massa, pestaggi di piazza, legislazioni razziste e securitarie, campagne repressive, rastrellamenti di quartiere o ristrutturazioni selvagge e punitive, tutto è impiegato dalla borghesia per colpire il proletariato e frustrarne le spinte emancipatorie. Da questi orizzonti della guerra borghese, lo stesso concetto di esercito nemico si è evoluto. Oggi, più di ieri, è inappropriato limitarlo a uomini e donne in uniforme, dotati di armi da fuoco. A questa milizia armata i capitalisti affiancano figure “insospettabili”, che possono vestire la giacca e cravatta del manager del consiglio d’amministrazione, il gessato del diplomatico, il cappuccio del massone, il doppiopetto del burocrate, i jeans del pusher, od impugnare la penna del giornalista embedded, la valigetta del bonzo sindacale, il conto del direttore di banca…
Un esercito di nuovo tipo al servizio del Capitale che, coscientemente e costantemente, attacca la classe lavoratrice sul terreno economico, sociale, politico, ideologico, culturale e militare, senza esclusione di colpi, apparentemente con “poco spargimento di sangue”. Basta però contare le migliaia di morti bianche nei luoghi di lavoro, quelle per autolesionismo di chi non sa più come tirare avanti, quelle per malattie rese incurabili dai costi proibitivi delle cure e tutte le altre non evitate perché profittevoli, per capire che la società in cui siamo costretti a vivere è l’immenso campo di battaglia della guerra totale non dichiarata che il padronato sta conducendo in nome del profitto e dove la maggioranza delle vittime non sono combattenti, ma inconsapevoli effetti collaterali della spietatezza di classe (borghese) in difesa di un sistema marcio: quello capitalista.

Il fronte esterno e la guerra imperialista
Proporzionalmente all’inasprimento delle contraddizioni e delle difficoltà del sistema sul fronte interno, la militarizzazione dei rapporti sociali avviene anche a livello internazionale, sul cosiddetto fronte esterno.
Mentre la competizione tra le potenze capitaliste si è fatta più aspra, nel tentativo di accaparrarsi e controllare monopolisticamente i mercati internazionali, la guerra, nuovamente, viene ritenuta la via più sicura e semplice per proteggersi dagli effetti della crisi. In chiave economica il business della distruzione/ricostruzione delle forze produttive, rappresenta un vero e proprio affare capitalista. Migliaia di miliardi di € sottratti ai servizi sociali e gettati nel buco nero delle distruzioni di massa e delle ricostruzioni clientelari, a favore delle multinazionali che sono dietro le caste governative.
Una variante del tema già noto del business guerrafondaio è rappresentata dal processo di privatizzazione della guerra stessa. L’abbandono della “leva obbligatoria” di massa a favore di eserciti professionali di elìte, ha rappresentato solo il primo passo di una strategia che punta alla vera e propria aziendalizzazione della guerra, alla strutturazione del cosiddetto Progetto Difesa SpA. Nell’ottica del capitalismo monopolistico di Stato, la logistica, i rifornimenti e finanche i combattimenti, saranno sempre più appaltati a multinazionali del settore che mettono a disposizione degli stati appaltatori, mezzi e mercenari. In questo modo, nonostante la demagogia mediatica tesa a giustificarne i costi – rigorosamente mantenuti “pubblici” -, viene svincolata la condotta della guerra dai controlli e dalle Convenzioni internazionali sottoponendola alle convenienze di profitto di multinazionali che hanno contemporaneamente le mani in pasta in tutti i settori coinvolti nella guerra.
A livello politico e strategico, l’imperialismo mostra che l’aggressione e la violenza sono i metodi che predilige usare contro chi si oppone ai suoi piani, per la spartizione dei mercati e rapinare i popoli delle loro ricchezze. Dall’inizio del nuovo secolo, apertosi con il fatidico e “provvidenziale” 11 settembre 2001, questo sistema ha sempre più militarizzato la propria politica estera, facendo un metodico ricorso all’uso della guerra per migliorare le proprie posizioni. Non solo nei casi più eclatanti come l’aggressione a tutta l’area geostrategica che va dalla Palestina all’Afghanistan, passando per l’Iraq, la Siria e l’Iran, ma aumentando i presidi in Africa, America Latina e Asia, col compito di vigilare i siti strategici e di garantire i flussi di risorse importantissime per i propri profitti. Un assalto alle relazioni internazionali post-Guerra Fredda, teso a ridisegnare lo schema dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo su scala planetaria caratterizzato dall’oppressione di un pugno di nazioni oligarchiche ai danni di tutte le altre. Un assalto condotto in maniera aggressiva e spregiudicata, di volta in volta ammantato dalle bandiere ipocrite della “lotta al terrorismo”, delle “missioni umanitarie” e per la diffusione dei valori della “democrazia” (occidentale). Una pacificazione in punta di missile che tanto ricorda le pax imperiali dei secoli passati e che prevede letteralmente la desertificazione economico-sociale e politico-militare, nonché culturale, di intere aree e popolazioni del pianeta. Una desertificazione che poi vorrebbero chiamare “pace” (la loro pace).

E il proletariato?
Il passo titanico che il movimento operaio deve compiere è quello di smarcarsi da apparati e burocrati parassitari, lottare e resistere costruendo al tempo stesso la propria indipendenza politica, ideologica ed organizzativa.
Ciò che manca oggi non è la resistenza e la mobilitazione di spezzoni di classe operaia e proletaria. Anzi, essa si moltiplica per effetto della crisi. Quello che manca è un punto di riferimento di classe, la cui costruzione può essere indubbiamente favorita da un’azione politica capace di assumersi il duplice compito di interagire con le lotte e le mobilitazioni operaie e popolari e di serrare i ranghi e di una scompaginata capacità rivoluzionaria che, frammentata, è troppo debole per svolgere un ruolo all’altezza della situazione.
Ai più coscienti tra i militanti è noto da tempo che sulla strada per l’indipendenza di classe, il problema principale che attualmente deve affrontare il proletariato, è la mancanza di un suo stato maggiore politico che concretizzi una strategia rivoluzionaria. Non considerando le caricature riformiste o i circoli comunisti di tipo famigliare – per composizione o dimensione -, la questione del Partito è lungi dall’essere risolta. Vale la pena precisare, però, quali sono gli elementi mancanti per poter affermare che un Partito comunista può dirsi formato e su cosa bisogna lavorare.
Per poter parlare di un’Organizzazione Comunista adeguata allo scopo, è necessaria la presenza contemporanea di tre elementi: un nutrito corpo di militanti di base, un buon livello di quadri intermedi, un qualificato e determinatissimo nucleo di dirigenti. Dal punto di vista storico-concreto nel nostro paese, lungo tutto l’articolato fronte dello scontro di classe, non è difficile incontrare militanti di base e quadri intermedi che si battono “come leoni”, nelle varie trincee del conflitto. Sono sotto gli occhi di tutti le migliaia di operai e proletari che nei luoghi di lavoro, sul territorio e nelle scuole, si comportano da “comunisti”, organizzando e dirigendo la “resistenza” proletaria all’assalto padronale. Non c’è quasi tema sul quale, seppur in ordine sparso, questi militanti non cerchino di interdire l’avanzata nemica, mobilitando ed organizzando i settori di massa in cui sono inseriti e di cui sono espressione. Il più delle volte accettando il compromesso di essere “parcheggiati” in organizzazioni politiche e sociali che non riflettono le loro aspirazioni rivoluzionarie, ma che per lo meno rispondono ad elementari ed indispensabili necessità organizzative.
Di potenziali “comunisti”, in parte coincidenti con i suddetti, sono composti anche le centinaia di circoli politici extraparlamentari che in tutto il paese, a vario titolo, cercano di fornire una concezione ed un metodo di lavoro che vada oltre l’orizzonte resistenziale della lotta.
Il vero limite è rappresentato dal fatto che finora il proletariato, inteso nell’accezione politica di settore di classe più cosciente ed organizzato, non è riuscito a trovare in sé la determinazione e il metodo adatti per esprimere il proprio stato maggiore in grado di centralizzare le energie proletarie disponibili, trasformandone l’atteggiamento difensivo in uno politicamente offensivo. Una delle cause “soggettive” di questo divario tra realtà e necessità, va ricercata nella frantumazione e nel settarismo diffusi. Un frutto avvelenato della sindrome da “ritirata strategica”, maturata tra le file della generazione di militanti politici usciti sconfitti dall’impetuoso - a tratti entusiasmante – ciclo di lotte a cavallo tra gli anni ’60 e ‘80. A seguito di quel fallito assalto al cielo, la necessità di “salvare il salvabile”, la disorganizzazione della “ritirata” - politica e sociale - unite all’infiltrazione di una pervasiva mentalità individualista, diffusa dalla borghesia trionfante, hanno determinato concezioni e metodi di lavoro che hanno intaccato in profondità la coscienza del proletariato, intossicando il concetto stesso di Organizzazione Comunista, lasciato degradare e coincidere con le formazioni politiche riformistico-istituzionali o con ristretti circoli politici a conduzione egocentrica.

Adattare concezione e metodo della lotta alla situazione concreta
Questa contraddizione ci riguarda tutti, soprattutto quelli tra di noi che si ritengono “i più capaci” del proprio circolo e per i quali incombe il peso maggiore del ritentare di fare un passo in avanti. Un passo nella rielaborazione di una concezione e di un metodo adeguati che, interpretando scientificamente la realtà, sappiano cogliere gli elementi di novità ed elaborare una strategia politica adatta ai tempi, capace di combinare diverse tattiche e forme di lotta, da contrapporre alla guerra totale della borghesia sui differenti terreni dello scontro. Una combinazione centralizzata e simultanea della lotta politica, sociale e ideologica, che tra le masse definisca il profilo di una strategia in grado di battere il nemico di classe, ridefinito e blindato nella sua “nuova” egemonia corazzata.
Su questa strada va ricalibrata la concezione dello scontro Capitale/Lavoro e l’analisi della composizione di classe. Soprattutto va risolto una volte per tutte l’equivoco che ruota attorno al concetto di PRODUZIONE. Per quanto ci riguarda, lo consideriamo come segue: “Lavoro produttivo, nel senso della produzione capitalistica è il lavoro salariato che, nello scambio con la parte salariale del capitale (la parte del capitale spesa in salario), non solo riproduce questa parte del capitale (o il valore della propria capacità lavorativa) ma oltre ciò produce plusvalore per il capitalista. E’ produttivo solo il lavoro salariato che produce capitale …” [K. Marx Teorie del plusvalore Vol. 1°].
Da qui ci deriva che il punto di riferimento dell’azione politica debbono essere principalmente i lavoratori produttivi, che rappresentano la centralità nel sistema della contraddizione Capitale/Lavoro.
Questo principio sulla produttività del lavoro, che rappresenta il filo rosso della nostra analisi della crisi capitalista, va impiegato per diradare le incrostazioni politico-ideologiche, derivate dalla confusione generata dall’imponente ridimensionamento della classe operaia tradizionale nella realtà italiana. La gigantesca ristrutturazione o delocalizzazione di tradizionali settori produttivi (metalmeccanica, chimica, siderurgia, ecc.) attuata in cerca di migliori profitti, ha solo trasformato la classe operaia, non l’ha cancellata.
Al contrario si è assistito all’incremento esponenziale del processo di proletarizzazione di classi e gruppi sociali intermedi. Con un tessuto produttivo (di plusvalore) che nel contenuto si è ulteriormente centralizzato e concentrato attorno a potentissimi oligopoli multinazionali, ma che nella forma è stato volutamente frammentato in un gigantesco “indotto produttivo”, in modo da poter affrontare meglio la crisi ed amministrare le contraddizioni. Le condizioni produttive della rigidità operaia sono state polverizzate nella frammentazione produttiva che, lungi dal rappresentare il “riscatto” della piccola-media impresa, ne ha sancito la maggior sottomissione ai grandi consorzi bancario-industriali, che decidono costi, prezzi, modalità lavorative, beni e servizi prodotti, mantenendo saldamente il comando nelle loro mani attraverso un articolato sistema di controllo. In questo modo, milioni di operai sono stati sparpagliati in un funzionale pulviscolo produttivo, che ha reso inadeguate le formule politico-organizzative vigenti dalla seconda metà del secolo scorso, costringendoci tutti ad un aggiornamento e ad un sforzo elaborativo per una nuova organizzazione della classe, sia politica che sociale, che tenga conto di questa materialità. E’ innegabile che come effetto della centralizzazione e della concentrazione capitalista, della sua ridefinizione, sono comparse “nuove” figure di proletariato produttivo, marginali solo pochi lustri addietro. Il lavoratore precario e quello immigrato, sono le “nuove” figure proletarie, produttive, che vanno ad aggiungersi alle vecchie figure operaie, sempre più ridimensionate dalle ristrutturazioni capitaliste. Generalmente, in termini di produttività del lavoro, l’immigrato o il precario risultano essere più produttivi per il capitale. A parità di lavoro, infatti, percepiscono un salario minore.
Sia qualitativamente che quantitativamente, la comparsa di queste “nuove” figure, rende necessaria un’attualizzazione del concetto stesso di centralità operaia. Attualizzazione che non significa stravolgimento, ma sforzo dialettico di legare questo concetto politico-organizzativo con la materialità dell’odierna composizione di classe.

In conclusione, non abbiamo la pretesa, con questo nostro scritto, di risolvere i decennali problemi che attanagliano il movimento proletario. Vogliamo semplicemente sottoporre all’attenzione di chi è interessato al confronto per avanzare, alcuni spunti della nostra riflessione collettiva condotta in questi ultimi anni, coscienti che necessitano di maggiori e qualificati approfondimenti.
Siamo però convinti che nel prossimo futuro bisognerà moltiplicare gli sforzi per superare la mentalità settaria e la sfiducia diffusa, che vede i problemi sul terreno come insormontabili, spesso commettendo l’errore di scambiare la propria immaturità/inadeguatezza individuale/collettiva con la situazione generale, rovesciando quindi i termini dei problemi.
Bisognerà lottare molto per unirsi e bisognerà unirsi per lottare meglio. Lo abbiamo affermato nel tempo e siamo tuttora persuasi che questa sia la via politica da percorrere. Una strada che probabilmente, alla luce dell’esperienza maturata, non darà risultati immediati ma è, a nostro avviso, l’unica percorribile. L’unica che permette di fare i conti con le proprie virtù ed i propri limiti. Dobbiamo lavorare per creare le condizioni più favorevoli al confronto tra i circoli più politicizzati ed attivi del movimento di classe, valorizzando il patrimonio di esperienze di cui sono portatori.
In questo contraddittorio percorso, pensiamo che si possa e si debba procedere con una linea di massa, concepita come una linea per la resistenza proletaria, con cui definirsi in fronte di classe con tutti quei soggetti della lotta politica e sociali disposti ad avanzare. Abbiamo coscienza che inizialmente sarà possibile adottare questa linea su contenuti e conflitti limitati e parziali, a volte contingenti, che però si presenteranno come terreni da seminare con i semi dell’anticapitalismo, dell’antimperialismo, finanche del comunismo. L’importante in questa fase, è sedimentare un lavoro in comune, cercando di spazzare via vecchi pregiudizi, approntando dei laboratori di lotta e di confronto politici che permettano di ossigenare il dibattito, di far fluire lo scambio di idee, contribuendo attivamente a togliere il proletariato dall’immobilismo politico, favorendo l’affossamento della borghesia nella sua stessa crisi.


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