[Tratto dall’opuscolo omonimo del
giugno 2010]
La crisi del Capitale e la lotta di classe
(Giugno 2010)
(NOTE PER
IL DIBATTITO POLITICO)
Che il capitalismo sia in crisi è un fatto, come ammettono i suoi stessi
apologeti. Un po’ meno scontata è, invece, l’individuazione delle cause.
Sistemiche, intrinseche, affermiamo. Non siamo di fronte ad una semplice
crisi ciclica del sistema capitalismo, bensì ad una profonda crisi strutturale,
economica e sociale, scatenata dall’impetuoso sviluppo delle forze produttive,
che “forzano” gli obsoleti rapporti sociali di produzione capitalisti.
Una contraddizione tra forze produttive e rapporti sociali che si manifesta
sotto forma di crisi per sovrapproduzione, per cui il capitale prodotto non
riesce a valorizzarsi secondo le aspettative dei capitalisti.
Nel capitalismo dell’avvenuta totalizzazione del rapporto di capitale, dove
praticamente tutte le sfere della vita sociale - non solo strettamente
economiche - sono state sottomesse alla mercificazione capitalista (D – M –
D’), la merce rappresenta principalmente la forma del capitale che, com’è noto,
non è una cosa bensì un rapporto sociale (di sfruttamento).
In tal senso si può affermare che le merci denaro, mezzi di produzione,
forza lavoro e beni prodotti, sono in “sovrapproduzione” esclusivamente se
considerate all’interno del processo di accumulazione capitalista, in cui
assumono le differenti forme del capitale anticipato, capitale costante,
capitale variabile, valore e plusvalore, quindi, profitto.
[L-U (analogamente, come vedremo, ad altre
organizzazioni) afferma che il sistema capitalistico sia attraversato da una
crisi di natura diversa dalle crisi cicliche che si sono susseguite alla fine
del XIX secolo. L-U non usa il termine “generale”, ma indica la crisi attuale
come “strutturale, economica e sociale” e facendo riferimento a Marx (Il Capitale vol. III), L-U indica la
crisi attuale come “crisi per sovrapproduzione assoluta di capitale”.]
Secondo Marx si ha sovrapproduzione assoluta di capitale quando il capitale
addizionale per lo sviluppo della produzione capitalistica è uguale a zero,
ossia quando il capitale aggiuntivo non riesce a valorizzarsi. Egli specifica che
col procedere del processo di accumulazione la valorizzazione del capitale va
incontro a vari ostacoli, connessi allo sviluppo della produttività del lavoro
necessario alla sopravvivenza dei singoli capitali nella lotta di concorrenza
tra loro.
Il capitalista per affrontare la concorrenza deve infatti cercare di
vendere ad un prezzo inferiore dei suoi concorrenti e ciò è possibile solo con
la crescita della produttività del lavoro. La crescita della produttività ha
però un costo, non è gratis. Questa è per la maggior parte connessa ad una
“crescita del macchinario” (innovazione) nel processo produttivo, quindi al
peso del valore del macchinario in rapporto al capitale totale. Il macchinario
non fa che trasmettere il proprio valore al prodotto, man mano che viene
consumato nel processo di produzione.
Finché il capitalista avrà il monopolio dell’innovazione, potrà ottenere
comunque un sovrapprofitto, vendendo ad un prezzo di mercato superiore ai costi
di produzione. Nel momento in cui gli altri capitalisti, costretti dallo stesso
meccanismo della concorrenza, introdurranno anch’essi nuovi metodi di
produzione e questi ultimi si generalizzeranno, il prezzo di mercato cadrà,
adeguandosi al nuovo livello raggiunto dalla produttività del lavoro e tutto il
peso del costo dei nuovi macchinari introdotti si scaricherà sul saggio di
profitto. Trattandosi di un processo continuo, Marx parla di caduta tendenziale
del saggio di profitto.
Il “nocciolo” della questione
In questa fase storica la borghesia, detenendo le leve del comando
economico, politico-militare e sociale, si dimostra più consapevole dei propri
interessi di classe, battendosi senza esclusione di colpi contro il
proletariato, per arginare le falle del proprio sistema ed escogitando sempre
nuovi meccanismi per salvarlo. Nella loro logica antagonistica, i padroni
cercano di seguire una precisa “agenda di lavoro”, nel tentativo di abbassare
la composizione organica del capitale - ossia il rapporto tra quello costante e
quello variabile - verso il cui aumento il sistema si muove irrimediabilmente,
sotto l’agire delle leggi stesse dell’accumulazione capitalista.
La prima parte di questa “agenda di contenimento”, a fronte di massicci
investimenti in capitale costante per ottenere profitti straordinari utili a
sbaragliare la concorrenza, prevede una sistematica azione dell’incremento
della produttività (di plusvalore) della forza-lavoro, nei suoi termini
relativi e assoluti. Licenziamenti, precarizzazione, aumento dei ritmi
lavorativi, orario di lavoro straordinario, diminuzione del salario reale, sono
solo alcuni dei trattamenti draconiani che i capitalisti riservano ai
lavoratori, visti esclusivamente come “capitale variabile”, sui quali aumentare
il tasso di sfruttamento, allo scopo di contrastare la tendenza suddetta.
A questo primo approccio, fa poi seguito il contenimento della crescita del
capitale costante. Peggioramento delle condizioni di lavoro, disinvestimenti,
speculazioni, evasione fiscale, deindustrializzazione, delocalizzazione, sono
alcuni dei rimedi immediati, escogitati dal padronato per raggiungere
l’obiettivo.
[Secondo L-U la borghesia, in quanto classe
dominante, si dimostra più (di
prima, del proletariato?) consapevole dei propri interessi e lotta per
difendere il suo ordinamento sociale, in declino, basato sullo sfruttamento del
proletariato. A tale scopo la borghesia opera attraverso due fasi (che dal
testo sembra che L-U ponga come temporalmente successive l’una all’altra).]
Sviluppo del capitalismo monopolistico di Stato
Lo scivolamento nella crisi e le inevitabili necessità di mastodontici
investimenti in capitale costante, improduttivo per sua natura, hanno come
conseguenza più importante, la maturazione del sistema imperialista in
capitalismo monopolistico di stato. Un sistema integrato, dove il connubio e la
fusione tra le multinazionali e lo Stato, in tutte le loro sfumature, diventa
un inestricabile sistema-paese. Un sistema monopolistico che domina in tutti i
campi della vita sociale, con lo scopo di procurare e garantire profitti capitalistici,
quindi privati. Non un fenomeno storico nuovo, ma una tappa dell’imperialismo
che, nel procedere della crisi, subisce un’accelerazione, rafforzando il
processo di concentrazione e centralizzazione capitalistico.
Andando avanti nel ragionamento va rimarcato che una delle principali
confusioni su questo concetto, è quella di confonderlo, in quanto stadio
superiore della fase imperialista, con il “capitalismo di stato” nella
prospettiva del socialismo, impiegato come mezzo di sviluppo, temporaneo, delle
forze produttive nei paesi arretrati. Di cui uno degli esempi storici più
conosciuti fu la NEP
bolscevica, nei primi anni della Repubblica dei Soviet. Non è un errore
concettuale da poco confondere il “capitalismo monopolistico di stato” - nel
quadro della dittatura della borghesia - così come si determina nella metropoli
imperialista, con il “capitalismo di stato” nei paesi arretrati - concepito nel
quadro della dittatura del proletariato -.
Avere chiaro nei ragionamenti in merito, qual’è la classe al potere -
borghesia o proletariato – dovrebbe essere una lapalissiana discriminante,
sostanziale e formale.
Di questa confusione, furbescamente, se ne sono approfittati i revisionisti
di ogni risma, che nel corso dei decenni hanno mestato nel torbido, spacciandola
addirittura come la “via italiana al socialismo” – iniettando velenose
categorie come il welfare, piuttosto che il sistema delle partecipazioni
statali -, cercando solo di mistificare l’abiura della lotta rivoluzionaria e
l’arruolamento allo sfruttamento capitalistico.
Il capitalismo monopolistico di Stato, nel centro del sistema, rappresenta
un particolare stadio di evoluzione dell’imperialismo, un sistema in cui,
seppur giganteschi, i grandi monopoli privati multinazionali non sono più in
grado di affrontare “in proprio” i mercati internazionali. I costi e gli
investimenti per la competizione risultano proibitivi ed i rischi, ancor di
più. In questo senso la sua continua evoluzione rappresenta la risposta adatta,
per l’oligarchia finanziaria, in grado di affrontare la situazione di crisi,
scaricandone i costi sull’apparato statale. Per meglio dire, sulle casse
pubbliche finanziate in larga misura dalle masse di lavoratori “dipendenti”, ai
quali tocca accollarseli, nell’impossibilità di sottrarsi a quella sorta di
questua sociale pro-capitale che sono le tasse, in tutte le loro innumerevoli,
rapaci declinazioni.
Lo Stato è trasformato, così, in una sorta di SpA dove i maggiori azionisti
sono proprio i monopoli privati che ne dispongono a loro uso e consumo. Le
costosissime e gigantesche infrastrutture energetiche, dei trasporti, delle
comunicazioni, della sanità e dell’acqua…, costruite drenando la ricchezza
prodotta dal proletariato, passano, a prezzi stracciati, direttamente nelle
mani della borghesia. Nell’insaziabile ricerca di valorizzazione del capitale
in eccedenza, infatti, gli oligarchi hanno scoperto che anche i cosiddetti
servizi possono essere resi produttivi in termini capitalisti: dando avvio a
processi di privatizzazione del patrimonio infrastrutturale “pubblico”.
Sotto lo slogan del “privatizzare i profitti e socializzare i costi”, si
potrebbe sostenere che i monopoli capitalistici stanno strutturando proprio
quello stato imperialista delle multinazionali che, nel passato, i loro tirapiedi
avevano cercato in tutti i modi di liquidare come una farneticante suggestione
di matrice…“terroristica”! ENI, ALITALIA, FS, TEL ECOM,
OSPEDALI, UNIVERSITA’, POSTE, AUTOSTRADE…, sono esempi lampanti che lo
dimostrano. Così come la decisione dei governi imperialisti, di fronte alla
recente crisi finanziario-speculativa delle Borse occidentali, di appianare i
debiti delle banche espropriando migliaia di miliardi di € di ricchezza
pubblica ed indebitando tutta la popolazione con quello stesso sistema finanziario.
La guerra totale della borghesia
Ovviamente il capitalismo monopolistico di stato ha anche una sua
evoluzione politico-militare, contraddistinta da uno straordinario
consolidamento della “macchina statale”, l’inaudito accrescimento del suo
apparato burocratico e militare, teso a garantire una più efficace repressione
contro il proletariato, progressivamente sempre più rigido ed insubordinato, in
opposizione all’aumento del tasso di sfruttamento.
Vanno in questo senso tutti i provvedimenti politici, legislativi,
istituzionali e culturali di una ridefinizione dello Stato in termini
ultrareazionari. Un adeguamento della forma di dominio, che pur nella
continuità del contenuto di classe dello stato borghese, adatta la
sovrastruttura alla struttura imperialista. In questa Grande Riforma
oligarchica, allo Stato viene “cambiata” la pelle, abbandonando i suoi formali
caratteri democratico-borghesi quali la distinzione dei poteri, l’uguaglianza
di fronte alla legge, finanche le più elementari “libertà” politiche, sindacali
e sociali, precedentemente tollerate. Un nuovo rapporto di forza tra le classi,
a suggello del predominio della borghesia monopolista, viene impiantato
attraverso una vera e propria guerra psicologica, fatta di emergenze continue
ed insicurezza diffusa, dove persino ai vigili del fuoco, ai tramvieri, ai
portieri, ai dirigenti scolastici e sanitari, verrà imposto di far parte del
dispositivo di prevenzione e repressione politico-sociale. Un assetto
securitario per cui a tutti gli insubordinati, gli oppositori o i semplici
non-conformi al nuovo regime politico, sarà riservata la famigerata “tolleranza
zero”. La demagogica utopia borghese della “liberté, egalité e fratenité”,
tanto cara ai benpensanti, sarà definitivamente sostituita dalla ben più ruvida
e rinnovata legalità.
Per gestire la sua crisi il grande capitale ha, quindi, dichiarato guerra
al proletariato. Una guerra civile totale, che le classi dominanti conducono
contro quelle sfruttate ed oppresse, ricorrendo a tutti i mezzi a disposizione,
pur di preservare il proprio dominio. Mezzi e metodi diversi, combinati e
modulati secondo il livello raggiunto dallo scontro, ma tutti sapientemente
maneggiati. Che siano finanziarie da lacrime, terrorismo psicologico di massa,
pestaggi di piazza, legislazioni razziste e securitarie, campagne repressive,
rastrellamenti di quartiere o ristrutturazioni selvagge e punitive, tutto è
impiegato dalla borghesia per colpire il proletariato e frustrarne le spinte
emancipatorie. Da questi orizzonti della guerra borghese, lo stesso concetto di
esercito nemico si è evoluto. Oggi, più di ieri, è inappropriato limitarlo a
uomini e donne in uniforme, dotati di armi da fuoco. A questa milizia armata i
capitalisti affiancano figure “insospettabili”, che possono vestire la giacca e
cravatta del manager del consiglio d’amministrazione, il gessato del
diplomatico, il cappuccio del massone, il doppiopetto del burocrate, i jeans
del pusher, od impugnare la penna del giornalista embedded, la valigetta del
bonzo sindacale, il conto del direttore di banca…
Un esercito di nuovo tipo al servizio del Capitale che, coscientemente e
costantemente, attacca la classe lavoratrice sul terreno economico, sociale,
politico, ideologico, culturale e militare, senza esclusione di colpi, apparentemente
con “poco spargimento di sangue”. Basta però contare le migliaia di morti
bianche nei luoghi di lavoro, quelle per autolesionismo di chi non sa più come
tirare avanti, quelle per malattie rese incurabili dai costi proibitivi delle
cure e tutte le altre non evitate perché profittevoli, per capire che la
società in cui siamo costretti a vivere è l’immenso campo di battaglia della
guerra totale non dichiarata che il padronato sta conducendo in nome del
profitto e dove la maggioranza delle vittime non sono combattenti, ma
inconsapevoli effetti collaterali della spietatezza di classe (borghese) in
difesa di un sistema marcio: quello capitalista.
Il fronte esterno e la guerra imperialista
Proporzionalmente all’inasprimento delle contraddizioni e delle difficoltà
del sistema sul fronte interno, la militarizzazione dei rapporti sociali
avviene anche a livello internazionale, sul cosiddetto fronte esterno.
Mentre la competizione tra le potenze capitaliste si è fatta più aspra, nel
tentativo di accaparrarsi e controllare monopolisticamente i mercati
internazionali, la guerra, nuovamente, viene ritenuta la via più sicura e
semplice per proteggersi dagli effetti della crisi. In chiave economica il
business della distruzione/ricostruzione delle forze produttive, rappresenta un
vero e proprio affare capitalista. Migliaia di miliardi di € sottratti ai
servizi sociali e gettati nel buco nero delle distruzioni di massa e delle
ricostruzioni clientelari, a favore delle multinazionali che sono dietro le
caste governative.
Una variante del tema già noto del business guerrafondaio è rappresentata
dal processo di privatizzazione della guerra stessa. L’abbandono della “leva
obbligatoria” di massa a favore di eserciti professionali di elìte, ha
rappresentato solo il primo passo di una strategia che punta alla vera e
propria aziendalizzazione della guerra, alla strutturazione del cosiddetto
Progetto Difesa SpA. Nell’ottica del capitalismo monopolistico di Stato, la
logistica, i rifornimenti e finanche i combattimenti, saranno sempre più
appaltati a multinazionali del settore che mettono a disposizione degli stati
appaltatori, mezzi e mercenari. In questo modo, nonostante la demagogia
mediatica tesa a giustificarne i costi – rigorosamente mantenuti “pubblici” -,
viene svincolata la condotta della guerra dai controlli e dalle Convenzioni
internazionali sottoponendola alle convenienze di profitto di multinazionali
che hanno contemporaneamente le mani in pasta in tutti i settori coinvolti
nella guerra.
A livello politico e strategico, l’imperialismo mostra che l’aggressione e
la violenza sono i metodi che predilige usare contro chi si oppone ai suoi
piani, per la spartizione dei mercati e rapinare i popoli delle loro ricchezze.
Dall’inizio del nuovo secolo, apertosi con il fatidico e “provvidenziale” 11
settembre 2001, questo sistema ha sempre più militarizzato la propria politica
estera, facendo un metodico ricorso all’uso della guerra per migliorare le
proprie posizioni. Non solo nei casi più eclatanti come l’aggressione a tutta
l’area geostrategica che va dalla Palestina all’Afghanistan, passando per
l’Iraq, la Siria
e l’Iran, ma aumentando i presidi in Africa, America Latina e Asia, col compito
di vigilare i siti strategici e di garantire i flussi di risorse
importantissime per i propri profitti. Un assalto alle relazioni internazionali
post-Guerra Fredda, teso a ridisegnare lo schema dello sfruttamento dell’uomo
sull’uomo su scala planetaria caratterizzato dall’oppressione di un pugno di
nazioni oligarchiche ai danni di tutte le altre. Un assalto condotto in maniera
aggressiva e spregiudicata, di volta in volta ammantato dalle bandiere ipocrite
della “lotta al terrorismo”, delle “missioni umanitarie” e per la diffusione
dei valori della “democrazia” (occidentale). Una pacificazione in punta di
missile che tanto ricorda le pax imperiali dei secoli passati e che prevede
letteralmente la desertificazione economico-sociale e politico-militare, nonché
culturale, di intere aree e popolazioni del pianeta. Una desertificazione che
poi vorrebbero chiamare “pace” (la loro pace).
E il proletariato?
Il passo titanico che il movimento operaio deve compiere è quello di
smarcarsi da apparati e burocrati parassitari, lottare e resistere costruendo
al tempo stesso la propria indipendenza politica, ideologica ed organizzativa.
Ciò che manca oggi non è la resistenza e la mobilitazione di spezzoni di
classe operaia e proletaria. Anzi, essa si moltiplica per effetto della crisi.
Quello che manca è un punto di riferimento di classe, la cui costruzione può essere
indubbiamente favorita da un’azione politica capace di assumersi il duplice
compito di interagire con le lotte e le mobilitazioni operaie e popolari e di
serrare i ranghi e di una scompaginata capacità rivoluzionaria che,
frammentata, è troppo debole per svolgere un ruolo all’altezza della
situazione.
Ai più coscienti tra i militanti è noto da tempo che sulla strada per
l’indipendenza di classe, il problema principale che attualmente deve
affrontare il proletariato, è la mancanza di un suo stato maggiore politico che
concretizzi una strategia rivoluzionaria. Non considerando le caricature
riformiste o i circoli comunisti di tipo famigliare – per composizione o
dimensione -, la questione del Partito è lungi dall’essere risolta. Vale la
pena precisare, però, quali sono gli elementi mancanti per poter affermare che
un Partito comunista può dirsi formato e su cosa bisogna lavorare.
Per poter parlare di un’Organizzazione Comunista adeguata allo scopo, è
necessaria la presenza contemporanea di tre elementi: un nutrito corpo di
militanti di base, un buon livello di quadri intermedi, un qualificato e
determinatissimo nucleo di dirigenti. Dal punto di vista storico-concreto nel
nostro paese, lungo tutto l’articolato fronte dello scontro di classe, non è
difficile incontrare militanti di base e quadri intermedi che si battono “come
leoni”, nelle varie trincee del conflitto. Sono sotto gli occhi di tutti le
migliaia di operai e proletari che nei luoghi di lavoro, sul territorio e nelle
scuole, si comportano da “comunisti”, organizzando e dirigendo la “resistenza”
proletaria all’assalto padronale. Non c’è quasi tema sul quale, seppur in
ordine sparso, questi militanti non cerchino di interdire l’avanzata nemica,
mobilitando ed organizzando i settori di massa in cui sono inseriti e di cui
sono espressione. Il più delle volte accettando il compromesso di essere
“parcheggiati” in organizzazioni politiche e sociali che non riflettono le loro
aspirazioni rivoluzionarie, ma che per lo meno rispondono ad elementari ed
indispensabili necessità organizzative.
Di potenziali “comunisti”, in parte coincidenti con i suddetti, sono
composti anche le centinaia di circoli politici extraparlamentari che in tutto
il paese, a vario titolo, cercano di fornire una concezione ed un metodo di
lavoro che vada oltre l’orizzonte resistenziale della lotta.
Il vero limite è rappresentato dal fatto che finora il proletariato, inteso
nell’accezione politica di settore di classe più cosciente ed organizzato, non
è riuscito a trovare in sé la determinazione e il metodo adatti per esprimere
il proprio stato maggiore in grado di centralizzare le energie proletarie
disponibili, trasformandone l’atteggiamento difensivo in uno politicamente
offensivo. Una delle cause “soggettive” di questo divario tra realtà e
necessità, va ricercata nella frantumazione e nel settarismo diffusi. Un frutto
avvelenato della sindrome da “ritirata strategica”, maturata tra le file della
generazione di militanti politici usciti sconfitti dall’impetuoso - a tratti
entusiasmante – ciclo di lotte a cavallo tra gli anni ’60 e ‘80. A seguito di
quel fallito assalto al cielo, la necessità di “salvare il salvabile”, la
disorganizzazione della “ritirata” - politica e sociale - unite
all’infiltrazione di una pervasiva mentalità individualista, diffusa dalla
borghesia trionfante, hanno determinato concezioni e metodi di lavoro che hanno
intaccato in profondità la coscienza del proletariato, intossicando il concetto
stesso di Organizzazione Comunista, lasciato degradare e coincidere con le formazioni
politiche riformistico-istituzionali o con ristretti circoli politici a
conduzione egocentrica.
Adattare concezione e metodo della lotta alla situazione concreta
Questa contraddizione ci riguarda tutti, soprattutto quelli tra di noi che
si ritengono “i più capaci” del proprio circolo e per i quali incombe il peso
maggiore del ritentare di fare un passo in avanti. Un passo nella
rielaborazione di una concezione e di un metodo adeguati che, interpretando
scientificamente la realtà, sappiano cogliere gli elementi di novità ed
elaborare una strategia politica adatta ai tempi, capace di combinare diverse
tattiche e forme di lotta, da contrapporre alla guerra totale della borghesia
sui differenti terreni dello scontro. Una combinazione centralizzata e simultanea
della lotta politica, sociale e ideologica, che tra le masse definisca il
profilo di una strategia in grado di battere il nemico di classe, ridefinito e
blindato nella sua “nuova” egemonia corazzata.
Su questa strada va ricalibrata la concezione dello scontro Capitale/Lavoro
e l’analisi della composizione di classe. Soprattutto va risolto una volte per
tutte l’equivoco che ruota attorno al concetto di PRODUZIONE. Per quanto ci
riguarda, lo consideriamo come segue: “Lavoro produttivo, nel senso della
produzione capitalistica è il lavoro salariato che, nello scambio con la parte
salariale del capitale (la parte del capitale spesa in salario), non solo
riproduce questa parte del capitale (o il valore della propria capacità
lavorativa) ma oltre ciò produce plusvalore per il capitalista. E’ produttivo
solo il lavoro salariato che produce capitale …” [K. Marx Teorie del plusvalore
Vol. 1°].
Da qui ci deriva che il punto di riferimento dell’azione politica debbono
essere principalmente i lavoratori produttivi, che rappresentano la centralità
nel sistema della contraddizione Capitale/Lavoro.
Questo principio sulla produttività del lavoro, che rappresenta il filo
rosso della nostra analisi della crisi capitalista, va impiegato per diradare
le incrostazioni politico-ideologiche, derivate dalla confusione generata
dall’imponente ridimensionamento della classe operaia tradizionale nella realtà
italiana. La gigantesca ristrutturazione o delocalizzazione di tradizionali
settori produttivi (metalmeccanica, chimica, siderurgia, ecc.) attuata in cerca
di migliori profitti, ha solo trasformato la classe operaia, non l’ha
cancellata.
Al contrario si è assistito all’incremento esponenziale del processo di
proletarizzazione di classi e gruppi sociali intermedi. Con un tessuto
produttivo (di plusvalore) che nel contenuto si è ulteriormente centralizzato e
concentrato attorno a potentissimi oligopoli multinazionali, ma che nella forma
è stato volutamente frammentato in un gigantesco “indotto produttivo”, in modo
da poter affrontare meglio la crisi ed amministrare le contraddizioni. Le
condizioni produttive della rigidità operaia sono state polverizzate nella
frammentazione produttiva che, lungi dal rappresentare il “riscatto” della
piccola-media impresa, ne ha sancito la maggior sottomissione ai grandi
consorzi bancario-industriali, che decidono costi, prezzi, modalità lavorative,
beni e servizi prodotti, mantenendo saldamente il comando nelle loro mani
attraverso un articolato sistema di controllo. In questo modo, milioni di operai
sono stati sparpagliati in un funzionale pulviscolo produttivo, che ha reso
inadeguate le formule politico-organizzative vigenti dalla seconda metà del
secolo scorso, costringendoci tutti ad un aggiornamento e ad un sforzo
elaborativo per una nuova organizzazione della classe, sia politica che
sociale, che tenga conto di questa materialità. E’ innegabile che come effetto
della centralizzazione e della concentrazione capitalista, della sua
ridefinizione, sono comparse “nuove” figure di proletariato produttivo,
marginali solo pochi lustri addietro. Il lavoratore precario e quello
immigrato, sono le “nuove” figure proletarie, produttive, che vanno ad
aggiungersi alle vecchie figure operaie, sempre più ridimensionate dalle
ristrutturazioni capitaliste. Generalmente, in termini di produttività del
lavoro, l’immigrato o il precario risultano essere più produttivi per il
capitale. A parità di lavoro, infatti, percepiscono un salario minore.
Sia qualitativamente che quantitativamente, la comparsa di queste “nuove”
figure, rende necessaria un’attualizzazione del concetto stesso di centralità
operaia. Attualizzazione che non significa stravolgimento, ma sforzo dialettico
di legare questo concetto politico-organizzativo con la materialità
dell’odierna composizione di classe.
In conclusione, non
abbiamo la pretesa, con questo nostro scritto, di risolvere i decennali
problemi che attanagliano il movimento proletario. Vogliamo semplicemente
sottoporre all’attenzione di chi è interessato al confronto per avanzare, alcuni
spunti della nostra riflessione collettiva condotta in questi ultimi anni,
coscienti che necessitano di maggiori e qualificati approfondimenti.
Siamo però convinti che nel prossimo futuro bisognerà moltiplicare gli
sforzi per superare la mentalità settaria e la sfiducia diffusa, che vede i
problemi sul terreno come insormontabili, spesso commettendo l’errore di
scambiare la propria immaturità/inadeguatezza individuale/collettiva con la
situazione generale, rovesciando quindi i termini dei problemi.
Bisognerà lottare molto per unirsi e bisognerà unirsi per lottare meglio.
Lo abbiamo affermato nel tempo e siamo tuttora persuasi che questa sia la via
politica da percorrere. Una strada che probabilmente, alla luce dell’esperienza
maturata, non darà risultati immediati ma è, a nostro avviso, l’unica
percorribile. L’unica che permette di fare i conti con le proprie virtù ed i
propri limiti. Dobbiamo lavorare per creare le condizioni più favorevoli al
confronto tra i circoli più politicizzati ed attivi del movimento di classe,
valorizzando il patrimonio di esperienze di cui sono portatori.
In questo contraddittorio percorso, pensiamo che si possa e si debba
procedere con una linea di massa, concepita come una linea per la resistenza
proletaria, con cui definirsi in fronte di classe con tutti quei soggetti della
lotta politica e sociali disposti ad avanzare. Abbiamo coscienza che
inizialmente sarà possibile adottare questa linea su contenuti e conflitti
limitati e parziali, a volte contingenti, che però si presenteranno come
terreni da seminare con i semi dell’anticapitalismo, dell’antimperialismo,
finanche del comunismo. L’importante in questa fase, è sedimentare un lavoro in
comune, cercando di spazzare via vecchi pregiudizi, approntando dei laboratori
di lotta e di confronto politici che permettano di ossigenare il dibattito, di
far fluire lo scambio di idee, contribuendo attivamente a togliere il
proletariato dall’immobilismo politico, favorendo l’affossamento della
borghesia nella sua stessa crisi.
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